La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare le difficoltà della quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Questa è la testimonianza di Andreas Seppi, tennista italiano capace di raggiungere la posizione n.18 della classifica mondiale ATP.
Ciao Andreas, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco. Di te conosciamo molto grazie al tuo lavoro di tennista, alle tue partite e ai tuoi successi. Per avvicinarci ancora meglio agli obiettivi di questa iniziativa, raccontaci qualcosa di te che non sappiamo, di come si svolge la tua vita quando sei in giro per i tornei ma non sei impegnato sul campo da tennis.
Beh, di tempo libero ce n’è un sacco e sempre ne ritaglio un po’ per riposarmi, magari leggendo un libro. Durante i tornei, oltre alle gare, ci si allena solo una-due ore al giorno e quindi ci sono molti tempi da poter reimpiegare. Dipende sempre, ovviamente, dove si è e con chi si è. Se sono da solo o con Massimo Sartori, il mio allenatore, è diverso rispetto a quando sono con mia moglie. Quando sono con lei cerco di approfittare del tempo libero per visitare le città in cui mi trovo a giocare, mentre quando sono con Massimo passo più tempo a leggere o a guardare film. Dipende, dunque, dalla compagnia che ho ma, in generale, posso dire che sono uno che cerca molto la tranquillità.
Per un paziente, il rapporto con la sua equipe medica, con l’oncologo, il chirurgo, lo psiconcologo, il radioterapista e ogni altra figura professionale che lo prende in carico, è di fondamentale importanza. Provare fiducia nei confronti di chi ti sta curando aumenta notevolmente la capacità di sopportare i momenti di difficoltà nel corso delle terapie. Il tuo allenatore Massimo Sartori è stato la tua guida per tutta la tua carriera sportiva: quanto è stato importante per te, per raggiungere i traguardi che hai tagliato, avere accanto una persona verso la quale nutrissi fiducia profonda?
Per me è stato fondamentale avere qualcuno vicino con cui poter parlare di tutto e con cui son cresciuto fin da piccolo. Ci siamo conosciuti quando io avevo 11 anni e quindi Massimo è, per me, come un secondo padre: forse ho perfino passato più tempo con lui che con il mio papà in questi ultimi 10-15 anni e ciò ha permesso che si creasse un rapporto molto famigliare, sia dentro che fuori dal campo. È importantissimo avere qualcuno in grado di darti tranquillità anche al di fuori del tennis. Vedo molti giocatori che hanno un buon rapporto con gli allenatori in campo ma poi ognuno prende la sua strada, non si cena nemmeno insieme. È una cosa che non riesco a concepire, proprio per l’importanza che ha rivestito e riveste Massimo non solo nella mia carriera ma nella mia vita.
In Italia ci sono circa 360.000 diagnosi di tumore maligno ogni anno, quasi 1000 ogni giorno. Una persona, quando riceve una diagnosi di tumore, tra le tante emozioni che prova vi è anche quella di inadeguatezza di fronte alla prova che la aspetta, la sensazione di dover vivere una sfida troppo difficile. In realtà i numeri dicono che circa il 70% di chi riceve una diagnosi di tumore, sopravvive e più del 60% raggiunge la guarigione completa. Quindi è importante infondere la fiducia alle persone dicendo loro “guarda che è una sfida difficile ma non impossibile”. Tu agli Australian Open del 2015, hai incontrato sul campo l’emblema dell’avversario impossibile da battere, cioè Roger Federer, e lo hai sconfitto. Raccontaci come si costruisce la vittoria contro l’avversario più forte che ci si possa trovare di fronte e di come ci si possa credere anche quando i presagi sono negativi. Cosa ti ha guidato in quella sfida?
E’ stata una giornata sicuramente particolare perché non sono mai stato così tranquillo, con una voglia di scendere in campo come quel giorno: ero semplicemente sereno. Eravamo in spogliatoio, c’era anche lui dal fisioterapista, parlavamo e scherzavamo insieme. Forse è proprio quell’ambiente particolare che mi ha messo tanta tranquillità per affrontare il match e sono entrato in campo senza alcuna tensione, anche nei momenti importanti. Quello mi ha aiutato molto, soprattutto nei momenti importanti contro un giocatore del genere: non sentire nemmeno un minimo di pressione non credo che sia facile. Ho vinto due tie-break, cosa che con lui è una cosa particolarmente difficile da realizzare, in particolar modo in uno slam. In nessun altro match sono mai riuscito a provare quello che sentivo, quella tranquillità che avevo provato durante quella partita. Già all’inizio della partita sentivo che c’era qualcosa di diverso, avevo la sensazione che avrei anche potuto batterlo. L’ho detto anche a Massimo prima del match, con Federer ho giocato una quindicina di sfide, facendo delle partite molto buone, alla pari, ma solo quando all’inizio riuscivo a stargli attaccato: se lo lasciavo andare via, mi aveva sempre dato una bella stesa! Quell’aspetto era molto importante e all’Australian Open, quando sono entrato in campo, non mi sono mai creato alcun problema nella mia testa, anche quando ho perso il terzo set. E’ stata una situazione molto strana che non mi è mai più capitata. Senza dubbio c’è stata una commistione di eventi, di elementi che mi hanno dato possibilità che ci potessi credere, forse una combinazione unica. Ma al tempo stesso sono stato bravo a crederci fino in fondo: Roger Federer si può battere, anche in una partita dello Slam, ma sicuramente non succede per caso.
L’incontro con il cancro ribalta completamente le certezze che tu hai acquisito, giorno dopo giorno, nella tua vita; ha un comportamento così insidioso che ne mette tante in discussione contemporaneamente, e ogni giorno ti presenta nuovi ostacoli. Bisogna allenare una caratteristica che solitamente non siamo abituati a coltivare, che è l’adattabilità. Non bisogna tanto costruirsi nuove certezze ma rendere la propria mente elastica di fronte alle singole difficoltà che ogni giorno sei chiamato ad affrontare. Tu sei stato l’unico tennista italiano a vincere tornei su tre superfici diverse: erba, terra battuta e cemento. Quanto è importante per un tennista allenare l’adattabilità alle diverse superfici di gioco, che cambiano le certezze e i riferimenti del tuo tennis?
Questo dipende molto anche dalla tua formazione, da come sei cresciuto, dalla tua tecnica e dalla tua scuola. Io non ho un gioco specifico per una singola superficie: sono cresciuto sulla terra battuta, ma non ho un tennis prettamente da terra, perché il mio gioco ha poche rotazioni e i miei colpi forti sono piatti. Grazie a questa situazione di crescita particolare, mi sono sempre adattato alle superfici sulle quali mi trovavo a giocare, cercando di raccogliere il massimo da ogni condizione. Questo aspetto mi ha dato maggiore tranquillità durante tutto l’arco della stagione tennistica, poiché se hai un gioco che si adatta solo ad una superficie, una volta che arriva il momento dell’anno con i tornei su quel manto, devi essere pronto, ma se non riesci ad esprimere il tuo tennis, hai buttato via l’intera annata. Facendo risultati su tutte le superfici, durante l’anno ti puoi permettere anche di avere un calo perché sai che, quando stai bene, puoi fare prestazione a prescindere dal terreno. L’adattabilità resta quindi un vantaggio, perché diventa uno strumento per scendere in campo più sereno in ogni momento della stagione.
La guarigione è senza dubbio l’obiettivo primario per una persona che sta affrontando il cancro. Tuttavia, ci possono essere situazioni di difficoltà anche terminato il percorso di cura: alcune volte infatti la qualità della vita che si può condurre è inferiore alle attese. Riappropriarsi di una vita con alcune limitazioni dovute, ad esempio, ad interventi chirurgici non è facile. Il proprio corpo resta uno strumento con cui costruire una relazione positiva nel tempo, lentamente e progressiva. Tu stai conducendo una carriera molto lunga. Che rapporto hai tu con il tuo corpo da atleta e con l’evoluzione che sta affrontando con il passare degli anni?
Fino ai 30 anni non ho avuto infortuni seri, tranne a 18 anni una distorsione alla caviglia che mi ha costretto a stare fermo per due mesi. Altrimenti sono riuscito riuscito sempre a giocare con continuità e credo che questo sia anche merito degli allenamenti e della preparazione che ho affrontato. Negli ultimi tre anni, la mia condizione è cambiata un po’: ho un problema all’anca per il quale ogni sei mesi devo fare delle infiltrazioni, restando fermo almeno tre settimane. Io ho 33 anni e per uno sportivo, a questa età, è difficile recuperare la condizione ottimale se stai lontano dai campi, tra pausa e ripresa, quasi due mesi. Se fosse successo dieci anni fa, non avrei certamente incontrato questo tipo di difficoltà; contemporaneamente poi sul campo mi devo scontrare con dei giovani che hanno una condizione perfetta. Ho tratto però grande giovamento cambiando preparatore, nel 2011, e questi ha modificato completamente i miei allenamenti, focalizzandoli maggiormente sul mio personale corpo. Questo mi ha fatto vivere i 3-4 migliori anni della mia carriera, dai 27 ai 30. Quindi credo che una giusta preparazione basata sul tuo corpo sia fondamentale, soprattutto in questo sport. Quando sei giovane, ovviamente, non ci pensi, con il passare degli anni ti devi riadattare, che non vuol dire rassegnarsi. Solamente, devi fare lavori specifici dei quali in precedenza non hai mai avuto bisogno. Chiaro, devi farti guidare in questo dalla persona giusta, perché se trovi quella sbagliata, ti crea ulteriori danni. Però non è una partita persa quella con il proprio corpo più limitato, semplicemente una nuova grande sfida che ha bisogno di un programma personalizzato, specifico. Questo può fare la differenza.