Di seguito, la trascrizione fedele della diretta Facebook con la quale Daniele Cassioli, campione mondiale di sci nautico paralimpico, ha prestato la sua testimonianza per Atleti al tuo fianco.
Faremo in modo di raccontare la storia personale e sportiva di Daniele attraverso la sua testimonianza, ma in un’intervista che andrà anche a sfiorare temi che vogliono raccontare le emozioni di una vita quotidiana con un tumore, questa è la mission, fare in modo che chi ci ascolta possa comprendere quali sono le mille sfumature che accompagnano quelle persone e famiglie che all’interno della propria quotidianità vivono un percorso oncologico ma attraverso un linguaggio che va oltre l’aspetto clinico e l’aspetto medico e che coinvolga il mondo dello sport, quindi metafore che ci permetteranno di riflettere, creare spunti e ascoltare la storia di una persona, a cui ora rivolgo la prima domanda: raccontaci quello che tu ritieni necessario sapere per dire di conoscere Daniele e la sua storia.
Io sono nato a Roma, ho 35 anni, con la retinite pigmentosa, una patologia che causa una cecità, nel mio caso dalla nascita mentre in altri casi gli effetti sono progressivi, mentre io convivo con questa problematica da quando sono nato, e devo dire che se all’inizio abbiamo cercato coi miei genitori una cura per guarire, quindi una situazione per cui togliere questo problema, col tempo ci siamo resi conto che non era possibile guarire, non c’era una cura e non c’è tutt’ora, figuriamoci 35 anni fa, e quindi da lì abbiamo iniziato un percorso nuovo, da cui capire cosa Daniele potesse fare, al di là dell’andare a scuola che, ahimè o per fortuna, è toccato a tutti noi, cosa può fare Daniele nel tempo libero, che tipo di vita può condurre. E quindi sono arrivate le amicizie, sono arrivate insomma le occasioni di fare sport, inizialmente ho fatto nuoto, poi ho fatto karate, un po’ di cose, poi ho trovato nello sci nautico la mia passione. Lo sci nautico inizialmente è stato un ripiego, perché io sognavo di giocare a pallone, giocavo in realtà a calcio nel giardino di casa, ho rotto diverse piante e ho fatto diversi danni col pallone, però quando è stato il momento di iscriversi a una vera e propria squadra di calcio io non potevo, e quindi questa all’inizio è stata una bella sofferenza per me perché cercare di spiegare a un bambino di 7 o 8 anni, o spiegare a me stesso, che non potevo, punto, non perché non avessi voglia, è stata una cosa dolorosa, ma allo stesso tempo il fatto di non voler rimanere con le mani in mano solamente vittima della frustrazione e del dolore, questa mancanza mi ha spinto a fare altro, cercare altro, e insieme ai miei genitori ho iniziato a sciare sulla neve e di lì a poco anche lo sci nautico, che non ho più mollato. Era il 1995 quando ho iniziato lo sci nautico, e adesso c’è un’attenzione sulle paralimpiadi e sull’atleta paralimpico che, vi assicuro, nel 1995 non esisteva, la nostra federazione italiana sport disabili prima era sport handicappati, il 1995 era preistoria per lo sport paralimpico, però pian piano anche grazie al movimento dello sci nautico e ad altri movimenti abbiamo iniziato ad avere un minimo di considerazione in più, io ho iniziato a vincere delle gare, ad oggi ho vinto 25 titoli mondiali, e in questo percorso la scuola ha avuto un ruolo importante, mi sono laureato poi in fisioterapia perché, ahimè, lo sci nautico non mi dà da mangiare, e allo stesso tempo lo sci nautico ricopre un ruolo fondamentale con tutti i valori aggiunti dello sport, insomma, tante parti del mio carattere derivano sicuramente da quello che ho imparato allenandomi, facendo le gare, andando in giro, e vivendo delle dinamiche altamente formative. Ho fatto il fisioterapista per una decina d’anni e poi nell’ultimo periodo, pur mantenendo i pazienti storici, quelli che tratto volentieri, mantenendo con loro un rapporto e esercitando comunque la professione, mi sono rivolto alla formazione e all’andare nelle scuole e nelle società sportive a testimoniare, una formazione del tipo coaching del tipo aziendale e ho fondato questa associazione che si chiama Real Eyes sport che ha l’obiettivo di avvicinare i bambini ciechi alla pratica sportiva perché quello che per me è scontato, cioè fare sport, allenarmi, e quando non posso farlo mi genera un senso di mancanza, purtroppo per tanti bambini non è così; andare a fare una corsa in pista di atletica, giocare a calcio con un pallone sonoro, per me sono cose normalissime, purtroppo per tanti bambini ancora oggi nel 2021 sono cose sporadiche, sono cose casuali, che non sono introdotte nella vita di un bimbo cieco, e questo per me è preoccupante ed è un punto in meno che offriamo a noi nella crescita di questi bambini che già non vedono e quindi devo essere a maggior ragione stimolati, e piano piano questo nuovo percorso mi sta dando tante soddisfazioni e porterò avanti questi tre grandi filoni: la fisioterapia, la parte un po’ associativa e sociale, più per me che per gli altri, e la parte di formazione. Ultima cosa, nel 2018 è uscito il mio libro, “Il vento contro”, che ha alimentato ancora di più la costruzione di impegni e insomma di momenti di incontro, formazione, confronto e, allo stesso tempo, è un romanzo autobiografico quindi ripercorre, nell’ottica del romanzo, la mia storia e cerca di portare un po’ di cultura perché di questi temi se ne parla ma non sono super mega conosciuti, cioè si parla del grande atleta ma se hai di fianco a te al bar uno in carrozzina non sai neanche come aiutarlo, cosa fare, si ha sempre un po’ la paura di sbagliare, quindi direi di raccontare anche attraverso aneddoti simpatici, la leggerezza anche del vivere la disabilità e in generale quello che ho cercato di fare è di rendere assoluto nei contenuti personali, proprio per questo si chiama “Il vento contro” e non, non so, beati voi che ci vedete o qualcosa del genere, perché ognuno ha il suo vento contro e chi ci segue lo sa meglio di me, ma poi è come lo affronti che fai la differenza, non quale vento contro hai; nel libro lo scrivo, a volte capita fare come il gioco delle figurine, è peggio essere in carrozzina o è peggio non vedere, è peggio se ti manca una mano o se ti manca un piede, ogni tanto facciamo questo tipo di gioco ma la risposta è sempre quella, cioè la cosa peggiore è non accettarlo, non costruirsi nel corso del tempo un significato a ciò che è accaduto per fare in modo che uno riesca a conviverci o ancora di più a farne un motivo di crescita; banalmente, senza la mia cecità il libro non sarebbe mai esistito, poi magari avrei scritto trattati di filosofia o chi lo sa, però mi è capitato spesso di proiettarmi a quello che sarei senza la cecità e alla fine è vero che sono cose sempre molto più, così no, quando parli da seduto, da ragazzino quando uscivo con gli amici, “ah se vedessi avrei molte più ragazze, avrei la macchina” ma poi chi lo sa, non sta scritto da nessuna parte che se vedessi avrei superato l’esame della patente o sarei riuscito ad avere più ragazze, sono tutte proiezioni personali che ci allontanano da ciò che siamo e che ci fanno pensare che senza quello che siamo, senza quello che abbiamo, saremmo migliori o saremmo più felici.
Hai aperto spunti che potremmo farci una serie di testimonianze e interviste! Ci sono alcune cose che mi hanno colpito molto in quello che tu hai detto e anche situazioni che magari sono passate così, rapidamente. Mi ha colpito tantissimo quando hai detto che hai iniziato con lo sci, prima di montagna poi nautico, non l’ho più abbandonato, ho iniziato a fare un po’ di gare e poi ho vinto 25 titoli mondiali; mi ha colpito molto questo passaggio tra l’iniziare a fare un po’ di gare e diventare un pluripremiato campione mondiale, perché effettivamente ciò su cui spesso ci manca l’attenzione è legato alla comprensione di un percorso rispetto a un traguardo. Cerco di spiegarmi meglio: in oncologia quando arriva una diagnosi di cancro a una persona e una famiglia, è chiaro che nel momento dello shock, che è la ricezione di una diagnosi di questo tipo, avviene in chi è intorno, nei famigliari per primi ma poi anche nel nucleo che sta intorno alla persona, quindi amici, colleghi, compagni di scuola, di squadra, tutte le persone che compongono quella che è la parte di gente intorno e a te e affetti intorno a te, avviene una proiezione futura immediata. Cioè purtroppo siamo ancora istantaneamente legati a una diagnosi di tumore con una prognosi immediata da conoscere e intuire, e quando si parla di cancro l’immediatezza della prognosi ti fa pensare a “vivrò? Sopravvivrò? Guarirò? O morirò?” in realtà questo sia nella persona che riceve la diagnosi sia in chi le è intorno fa perdere l’attenzione sull’aspetto più importante, cioè quel giorno, che è un giorno inaugurabile perché a nessuno fa piacere ricevere una diagnosi di cancro, inizia un percorso, un percorso che porta poi, giorno dopo giorno, all’obiettivo di un traguardo, ma c’è una quotidianità sulla quale bisogna assolutamente concentrarsi perché ciò che inizia quel giorno si chiama comunque, come il giorno prima, vita, una vita che avrà al suo interno un elemento che fino al giorno prima non c’era, cioè un percorso oncologico, ma quello che fa la differenza è stranamente e sorprendentemente non focalizzarsi solamente sul traguardo, molto importante, ma che si raggiunge solo dando valore al percorso di ogni giorno. Quello che vorrei chiedere a te è proprio questo legame tra l’inizio delle gare e diventare campione mondiale: raccontaci questo, e mentre tu hai iniziato a fare sci nautico, avevi l’obiettivo di diventare 25 volte campione del mondo o è stato un percorso nel quale, attraverso entusiasmo esperienza e scoperta di questo sport, hai valorizzato la tua vita fino a portarti a diventare campione del mondo.
Ma guarda sicuramente soprattutto all’inizio nello sport, quando poi cresci e inizi a vincere il primo, il secondo e il terzo, dopo l’aspettativa personale, dell’ambiente, dell’allenatore, insomma chiaramente diventa qualcosa che ti porti dentro durante il percorso. Sicuramente i primi tempi, quando ero bambino, ma anche da adolescente, ma anche tutt’ora il primo patto con me stesso è sempre stato quello di divertirmi, cioè intanto il fatto di iniziare a divertirsi, di iniziare a fare una cosa che, in qualche modo, mi piacesse. Poi ho imparato nel tempo che spesso quello che succede da sportivo, ma mi riallaccio anche a quello che dicevi tu, è che uno lotta di più in funzione della certezza di un obiettivo, di un traguardo, quindi se so che posso vincere, mi do più da fare. A parte che la figata nella vita, e me l’ha insegnato lo sport, è quella di ribaltare i risultati inaspettati, cioè quando le gare che mi hanno dato più soddisfazione sono state quelle in cui c’era maltempo, c’era vento, quando in situazioni avverse io sono riuscito a tirar fuori quel qualcosa di più che non sapevo neanche di avere, e questo se ti poni un obiettivo subito chiaro, cioè ok, so che devo far questo per vincere, il rischio è molto spesso fare meno, non è fare di più. Quando invece c’è un impegno costante, e nello sport questo è veramente importante saper gestire bene e rendere piacevole il qui e ora, perché, per quanto riguarda me stesso, è ovvio che allenarsi con l’acqua a 9 gradi, col freddo, oppure andare in palestra a gennaio, che come dire, fare anche cose lontane dall’obiettivo che hai, un conto è stare dietro alla barca e sciare e lì hai una percezione di fare una cosa vicina al gesto finale che farai poi in gara, un conto è andare in palestra col preparatore alle 7 del mattino a fare pesi e dire “ma sta roba, a me che devo sciare sull’acqua, a cosa mi servirà?”. Quindi in generale mi ha aiutato a accettare di dover fare non solo quello che reputavo io fosse utile, ma anche quello che in generale lo è, perché ognuno dentro di sé quando fai un percorso di qualunque tipo che è fatto da tantissimi elementi, alcuni elementi riesci un po’ di più a renderli tuoi, a farli tuoi, altri molto meno, penso nel mio caso all’alimentazione, dico vabbè tanto nello sci nautico se la gare dura 10 secondi chissenefrega se mangio quel qualcosa in più o se a 18 anni, 20 anni bevo una birra in più, invece poi mi sono accorto che quella birra in più bevuta oggi, bevuta tra tre giorni e tra 5 nel giro di due mesi ti porti a casa un chilo, che poi ti appesantisce durante il gesto tecnico e quindi ecco perché è stato fondamentale per me consapevolizzare dei concetti che reputavo così, un po’ casuali, quindi questo sicuramente: divertirsi, a me è servito molto, il fatto di godermi i miglioramenti, perché spesso appunto se tu hai la fissa sull’obiettivo “io devo vincere il mondiale” se migliori di una cosa che non te lo fa vincere, ma comunque ti fa avvicinare alla vittoria o al meglio di te stesso non te la godi, perché l’attaccamento al risultato ti fa perdere; è giusto guardare in là, ma per me da sportivo è stata molto utile l’autopacca sulla spalla o godersi i complimenti dell’allenatore, perché lavorare sempre in affanno perché sei lontano dall’obiettivo e non goderti mai quello che hai in quel momento nello sport e in altri percorsi è complicato, perché poi l’allenamento si fa nel qui e ora, tu qui soffri, ora fai fatica, poi sei disposto a farlo per un obiettivo che magari è a due anni da te, però il qui e ora per me è stato molto importante, e tante volte io stavo al lago anche se potevo andare a casa per godermi la cena sul lago, stavo con persone che parlavano solo di sci nautico per raccontare anche le mie cose, insomma ho sempre cercato di trovare nell’allenamento degli elementi che me lo facessero piacere un po’ di più. Poi nello sport, in cui sei chiamato a performare, se nel qui e ora non ci sei non performi per niente c’è poco da fare; un conto magari è ripetere una filastrocca a memoria, in qualche modo ce l’hai nella memoria, a parte che qualunque cosa, farla senza esserci dentro, diventa più faticoso.
Noi continuiamo a ripetere che la lotta contro il cancro è un argomento medico e un tema sociale, ma cercando di focalizzare su un aspetto legato alla tessitura della società, perché una diagnosi di cancro separa la società in due monconi, cioè in chi ha la possibilità di non sapere e chi invece è costretto a occuparsene. E questa distanza porta purtroppo i mondi delle conoscenze, delle esperienze, dell’allenamento alla relazione distanti, e il nostro obiettivo appunto è quello di avvicinare questi mondi, che sono la stessa società, e quindi sono costantemente in contatto, anche se magari a volte in maniera inconsapevole. Uno di questi aspetti, l’hai detto bene durante la tua presentazione, tocca anche l’aspetto del linguaggio, cioè la comunicazione verbale incredibilmente soffre una condizione quasi di paralisi nelle persone che non sanno cosa dire e come dire a una persona ammalata di cancro, e questo ha di base una partenza già fallata, nel senso che effettivamente si parla a una persona, una persona che nelle situazioni della sua vita in quel momento ha una diagnosi di tumore, ma è una persona, e il timore di dire cose sbagliate, anche per un desiderio quasi compensativo, cioè di dire per forza qualcosa su quello, sulla malattia, un qualcosa di consolatorio, porta le persone a paralizzarsi e non focalizzare più con lucidità la domanda più banale che noi facciamo nella vita, che è “come stai?” , che improvvisamente acquisisce una valenza così variegare e multipla da bloccare la capacità di dire: “so che è una domanda banale, ma è veramente quello che mi interessa, come stai?” e fare in modo che le persone di questo possano riuscire a parlare e a comunicare. Raccontaci invece la tua esperienza, ti chiedo questo: c’è effettivamente una sorta di imbarazzo verbale nella società nei confronti della cecità dato anche dal non allenamento a confrontarsi su questo tema, attraverso l’esperienza di chi ci può aiutare a comprendere; noi usiamo tantissime espressioni anche metaforiche che riguardando la vista (a prima vista, quando ci vediamo) cose di questo tipo, che possono causare imbarazzo in qualcuno che può dire “oddio, si starà offendendo, gli ho detto quando ci vediamo e lui non mi vede”. Aiutaci tu a capire, ma soprattutto ad evolvere, in modo tale che oggi chi ci ascolta possa, attraverso la tua testimonianza, la tua esperienza, la tua guida comprendere qualcosa di più rispetto a un aspetto prettamente verbale, che può sembrare superficiale ma che in realtà è una delle basi della comunicazione e che quindi in questo modo, essendo più allenati, ci permetterà di essere più conoscenti e più vicini.
Io credo che un minimo comune denominatore da cui partire sia proprio la spontaneità, almeno per quanto mi riguarda preferisco una persona che faccia uno strafalcione o che dica qualcosa di sbagliato ma che sia spontanea piuttosto che uno che magari è impeccabile dal punto di vista del linguaggio ma che poi, mi rendo conto, mette barriera, e questa non è una cosa voluta, anzi spesso è più forte di noi. Questo ce lo insegnano i bambini: quando tu con un bambino riesci a essere spontaneo, quando sei vero con un bambino, coi bambini non puoi mentire, cioè devi essere vero, devi essere te stesso, devi esserci, non puoi mandare un tuo figurante, devi esserci tu quando sei nel gioco o in qualunque situazione con loro, questa per me è la cosa principale. Io sono convinto che se una persona riesce a leggere questo, si prende un po’ anche la responsabilità di guidare chi ti sta accanto, cioè se chi ti sta accanto sa che tu te la prendi se uno parla di vedere o mi nomina il verbo vedere, è chiaro che se sono io a prendermela sono io che la sto condizionando, non è lei che non è adeguata, è il modo di pormi o l’energia che arriva a lei che la mette in difficoltà, quindi l’essere spontanei, essere aperti parte da chi sta con me ma parte anche da clima che io cerco di creare. Oltre al fatto che in generale dire “ieri ho visto un film” è chiaro che io non l’ho visto, o ho ricevuto un miracolo, ma è un modo di dire, talmente funzionale che si usa. L’altro giorno ho scritto un post su Facebook che dice “con la coda dell’orecchio mi sono accorto che…” io mi diverto un po’ anche cercando di riderci su, perché effettivamente la società è visiva e lo è sempre di più, la vista è il senso più utilizzato anche se lo diamo per scontato, e a volte, e qui si apre un tema enorme che secondo me riguarda anche il percorso di chi vive con un cancro, poi ce n’è di ogni tipo, nella persona in carrozzina tu la disabilità la vedi, è molto più facile empatizzare con la disabilità di qualcuno che, davanti ai tuoi occhi, vedi che problema ha. È molto diverso, e molto più difficile a volte, e la gente dice mah, alla fine tu hai tutto, non vedi ma il resto del corpo ce l’hai, eppure la vista è la cosa che chi vede utilizza di più, molto più delle gambe, è molto più il tempo che tu passi a guardare che il tempo che tu passi a camminare, banalmente. Quindi questo ci fa capire che è evidente da un punto di vista della terminologia la vista abbia sempre un riferimento continuo, perché è una cosa che uno apre gli occhi quando si sveglia e non stende le gambe, ed è il senso più utilizzato e più utile, anche per l’evoluzione, poi certo tutti lo sono. Quindi ecco, se una persona è spontanea, e con un amico direbbe “ieri ho visto un film” mi piacerebbe che lo dicesse anche con me, piuttosto che prima di parlare debba farsi ogni volta mezz’ora di paranoia del tipo “che frasi posso dire che se no questo se la prende”, quindi per me rendere naturale e facile una qualsiasi situazione non vuol dire essere stupidi e non capirla, a volte c’è un grande equivoco anche su quello, se non soffri con me allora non mi stai capendo, invece c’è gente che mi capisce e che è molto leggera nei miei confronti, ed è per me la modalità relazionale migliore. Poi in realtà entriamo in un altro tema enorme, e cioè che la leggerezza è già una cura, di per se, e io ho vissuto un sacco di momenti della mia vita in cui altro che leggerezza, cioè è ovvio che ti chiedi ma perché proprio io, perché Dio tra 6 miliardi di persone ha scelto proprio me per questa retinite pigmentosa che prende una persona su non so quante migliaia, quindi vai dentro queste robe e ti appesantisci, poi quando esci da quel momento, almeno a me non è mai capitato di vedere meglio, ti sei veramente appesantito e quindi la leggerezza è una grande forma di intelligenza, la leggerezza ci permette di essere superficiali pur senza perdere la sensibilità, ed è fondamentale. Infatti anche nel mio libro e in quello che cerco di fare e di trasmettere, l’autoironia è sempre qualcosa che mi ha contraddistinto, che ha aiutato soprattutto me a esorcizzare una situazione che non ha una spiegazione logica, quindi quando le domande non cambiano devi cambiare le risposte, cioè le tue risposte alle cose che ti accadono, “perché proprio a me?” una risposta non ce l’ha, e allora quella domanda rimane, ma la risposta che magari è “perché sono sfortunato” può diventare “perché forse posso estrarre da questa situazione degli insegnamenti che altrimenti non avrei potuto avere”, banalmente non sarei qui a parlare con te se vedessi, probabilmente avrei un percorso di vita più assimilabile a uno comunque, mettiamola così, ma ognuno ha le sue peculiarità e ognuno è speciale a suo modo. L’autoironia aiuta anche l’altro a entrare in casa tua, perché comunque riderci su, vedere una persona che ride di anche una cosa complessa, vedere una persona che sorride è già una porta aperta, perché poi nel mio mondo, ma lo dico volutamente, in qualunque mondo in cui tu sei malato e gli altri stanno bene, a volte la responsabilità di ciò che non va è in capo a chi sta bene, cioè non mi ha dato questo, non mi ha fatto questo perché io sono malato. Comunque chi ha una malattia, di qualunque tipo sia, continua ad avere una responsabilità importante nella gestione dei rapporti, perché non tutti riescono poi a interfacciarsi con una situazione del genere o non ne hanno gli strumenti, quindi poi proprio anche per egoismo puro è anche interesse del malato stesso andare incontro. Quindi per me la leggerezza, l’autoironia e la spontaneità sono stati strumenti straordinari che mi hanno permesso di avere un sacco di amici, un sacco di persone con cui vado d’accordo, ma banalmente l’associazione di cui ho parlato prima senza questi rapporti di amici che hanno imparato insieme a me a credere alla potenza dello sport per i bambini ciechi soprattutto grazie al rapporto che c’è con me, perché quando tu dici ok, faccio da segretario alla tua associazione, faccio da vicepresidente, voglio dire, non è solo il contenuto, il contenuto forse se avessi fatto un’altra roba non avrei avuto questa approvazione, ma quanto uno ha empatizzato con te, quanto uno ha voglia di far qualcosa con te che lo porta a dire ok, due ore a settimana faccio questa cosa con te perché stare con te, vivere delle situazioni con te è una crescita; se diventa un peso uno può avere anche la malattia peggiore del mondo ma purtroppo è un peso, e giustamente chi sta bene sceglie di vivere qualcos’altro, rinuncia a due ore di peso per vivere due ore di leggerezza.
Ho per te un’ultima domanda sportiva prima di lanciarti l’assist per la chiusura. La domanda legata allo sport e all’oncologia parte da una caratterista del mio lavoro quotidiano, io da medico che si occupa dell’aspetto quotidiano e psicoemotivo dei pazienti e dei famigliari lavoro tantissimo sulla ricerca di una pace e di un equilibrio interiore per riuscire ad affrontare con equilibrio il percorso giorno dopo giorno. Questa pace ed equilibrio avviene attraverso tanti aspetti, attraverso la comprensione soprattutto, attraverso il riconoscere di cosa ci si possa fidare e di cosa invece è bene andare a richiedere nuove informazioni, tutta una serie di elementi che portano il proprio interno, la propria parte interiore, a raggiungere una condizione che io chiamo relazione pacifica fra il respiro e il battito cardiaco, che ti permette effettivamente poi di progredire e di avanzare con un orientamento, sapere qual è la direzione necessaria per affrontare il percorso. Io ti vorrei chiedere questo: io immagino che nello sci nautico l’equilibrio sia un elemento molto importante rispetto a quello che tu devi fare sotto il profilo agonistico, e quindi ti vorrei chiedere quanto tu senta che esista una relazione tra l’equilibrio interno e l’equilibrio esterno, cioè quanto tu debba aver raggiunto una condizione di equilibrio nella tua parte interiore, nella tua mente per poter esprimere e comandare l’equilibrio sul tuo corpo.
Sono due cose che vanno veramente di pari passo, oltretutto proprio un po’ di tempo fa ho fatto un lavoro con Dazn su questo tema perché nello sci nautico se tu non ti muovi, non puoi stare in equilibrio, è un po’ come la bicicletta, e quindi il titolo della puntata di questa serie, si chiama “La mente nel pallone” su Dazn, non so se c’è ancora disponibile, comunque c’è stata per un po’, è “L’equilibrio si trova muovendosi”, perché se da una parte l’equilibrio ci impone di stare fermi, cioè voglio stare su un piede solo devo stare fermo, ci sono altre forme di equilibrio, che sono l’equilibrio in avanzamento contro quello statico, in cui tu ti devi muovere. Allora io ho preso questa metafora, molto interessante a mio modo di vedere, per cercare di trasmettere a me stesso in primis, poi agli altri, che spesso quando uno dice i percorsi interiori, è tutto un qualcosa che trovi in te, come dire si sta lì un po’ ad aspettare, e invece lo sci nautico mi ha insegnato che per trovare quell’equilibrio sei costretto a muoverti fisicamente, e allo stesso modo per trovare quell’equilibrio in qualcosa che ti accade sei costretto a muoverti anche interiormente, sei costretto a muoverti verso delle situazioni e delle stanze di te stesso che magari non avevi neanche mai considerato, che poi questo muoversi altro non è che la voglia di mettersi in gioco, perché per trovare un equilibrio bisogna mettersi in gioco mica da ridere, devi un po’ svuotare l’armadio dai mostri che c’hai dentro, è sempre difficile fare le pulizie in casa propria, è sempre difficile buttare via un paio di scarpe che non usi più, figurati un’abitudine che magari hai da una vita, anche solo di come vedi te stesso, anche solo di come vedi una parte di te, di come hai elaborato una cosa del passato, o come vivi nel presente una cosa che dovrai fare nel futuro, cioè dentro questo equilibrio c’è da muoversi parecchio. E questo lo sci nautico me l’ha imposto, ma in qualunque sport se non sei centrato in quel momento non riesci a performare, non riesci a esprimerti, c’è poco da fare, devi essere dentro a te stesso in quel momento, se ti giochi un mondiale per cui ti alleni da due anni, e hai magari 40 secondi per far vedere quello che hai imparato, per giocarti la tua chance, in quei 40 secondi devi essere dentro di te, in connessione, nel flow, come si dice in ambito di coaching. Per trovare quel flow, che alla fine è un equilibrio, occorre muoversi, occorre andare verso, non è il flow che ti arriva, ma sei tu che impari a starci dentro, ad andarci dentro. Poi ognuno ha le sue strategie: c’è chi fa meditazione, chi fa yoga, chi si fa una corsa, c’è chi ascolta una canzone, c’è chi fa di tutto un po’, ma non importa quale sia la strada, perché siamo talmente in tanti che ognuno ha le sue modalità, il punto è essere disposti a mettersi in gioco per raggiungere quelle modalità, tanto più che le neuroscienze stanno dimostrando che l’atleta la vera performance la fa nello stato di flow, nel momento in cui il cervello non è più nello stato di allerta massima, ma ti abitui ad avere una velocità di crociera che è sempre più performante. Per fare il record del mondo la principale capacità che mi potevo riconoscere mentre lo facevo era proprio l’essere tranquillo, non l’essere agitato o in un picco di adrenalina; l’adrenalina ce l’hai, ovviamente, ma poi nel gesto tecnico, l’equilibrio fondamentalmente può diventare un gesto ordinario, a patto che ci si metta veramente in gioco, è quella la cosa straordinaria, essere disposti a mettersi in gioco ancora prima di trovare l’equilibrio.
Ti pongo quest’ultima domanda sottoforma di gratitudine anche per l’elemento che ci ha uniti e ci ha portato prima a realizzare un’intervista in cui io ho avuto il piacere di essere intervistato da te e oggi questa testimonianza per Atleti al tuo Fianco. Tu oggi ci hai passato tantissimo, almeno a me in maniera molto massiva, è arrivata diretta la grandissima attenzione su quanto sia importante per te fare del bene prima di tutto a te stesso e fari stare bene, per essere in grado di trasmettere e di riuscire a fare qualcosa anche per gli altri, ci hai raccontato tanto delle cose che fai. Però c’è un aspetto che non ci hai raccontato ed è quello che io ora ti vorrei chiedere, e cioè che tu sia presidente onorario di Piramis Onlus, questa meravigliosa associazione che ci ha permesso di entrare in contatto grazie a Sabrina, a Valentina, a Rita e a tante persone della famiglia Piramis. Ci dici qualcosa di questa tua esperienza e di quanti per te sia importante stare bene tu per occuparti di qualcosa che faccia star bene gli altri?
Devo dire che l’impegno nel sociale in generale, e tu ne sei una diretta testimonianza, e non lo dico perché sei qua tu ma perché lo penso davvero, mi ha permesso nel corso del tempo e mi permetterà di incontrare persone sintonizzate sui miei canali, persone dalle quali io porto a casa sempre qualcosa, e questa è la prima gratitudine che io ho nei confronti della mia scelta e conseguentemente anche nei confronti della possibilità, e qui ringrazio Davide Possi che mi ha nominato presidente ad honorem, di approfondire la conoscenza di mondi che in qualche modo hanno quella visione dello star bene in primis, del costruire un ambiente bello, per poi portar fuori del bello e questo è molto molto importante, a volte ce ne dimentichiamo, siamo abituati a sorridere quando andiamo a bere il caffè a una persona che non conosciamo o conosciamo poco, e poi i casa mangiamo i muri; quello che tu costruisci dentro casa tua poi ti sostiene anche quando esci di casa e vai nel mondo esterno, e a volte, come nel caso di Piramis onlus, ti spinge anche a condividere un po’ di quel bene che hai. Allora nel mondo Piramis quel senso di star bene a casa è veramente sempre chiaro, sempre presente, è una linea, è un valore che ci si porta dentro, e poi da lì abbiamo unito insomma la struttura di un’azienda, di un mondo solido, e la mia propensione a fare qualcosa per rendere anche, per portar fuori le mie medaglie dalla bacheca. Perché le vincite te le godi, io le ho festeggiate a suon di spumanti e birre con gli amici, poi dopo quel festeggiamento, che è una condivisione estemporanea seppur bellissima, le metti in bacheca e sono tue. Sono tue oppure quando viene qualcuno a casa a intervistarmi, faccio il figo e le condivido con quella decina di persone al mese che viene in casa mia. Ecco, questa cosa qui invece mi permette di portarle fuori, io le porto fisicamente e allo stesso tempo sfrutto il percorso che mi ha portato ad arrivare alle medaglie e soprattutto sfrutto le difficoltà per arrivare a quel percorso per cercare di fare in modo che gli altri non vivano le stesse difficoltà. E questo è un tema molto interessante, cioè non ho creato mai eventi o situazioni in cui i bambini non vedenti imparassero a mettersi le scarpe, perché a mettermi le scarpe io non ho vissuto difficoltà, è stata la difficoltà a spingermi a creare qualcosa, cioè la difficoltà di accesso alla pratica sportiva che ho vissuto su me stesso, il dolore che ho provato quando ho capito che per fare sport dovevo spararmi 50 minuti di macchina ad andare e 50 a tornare solo perché non vedevo, allora questo mi ha spinto a fare qualcosa. È un bel percorso, e Piramis onlus si occupa anche di tanto altro, che va oltre alle iniziative mie personali, perché è entrata in relazione con tante realtà diverse per le quali c’è sempre da fare, e credo che in generale, soprattutto nel mio caso, ma io questa cosa l’ho capita, quando sei in difficoltà pensi spesso di essere nella fase in cui devi ricevere; invece renderci conto che possiamo sempre dare, a maggior ragione quando le cose vanno bene, ma anche quando le cose non vanno così tanto bene, secondo me è un bel valore aggiunto, e ci chiama a una responsabilità, banalmente apprezzare quello che si ha, seppur magari in certi punti della vita può sembrarci poco, è sempre qualcosa. È vero che non vedere è una rottura di scatole, tutti quanti vedete, il Padre Eterno ci ha dato gli occhi; ma è anche vero che non vedere in Africa è peggio, o essere in Africa vedendo a volte purtroppo è peggio, o essere ai margini della società anche in Italia, senza andare in Africa o in Sudamerica, è peggio. Come dicevo prima ognuno ha il suo vento contro, e io non mi sono mai permesso di pensare che il mio sia più grande di quello di gente che vede, quando vado a parlare nelle scuole ai ragazzi lo dico sempre, cioè non è che se io non vedo e voi vedete allora io sono il martire e voi siete quelli fortunati, perché poi io non so le storie di questi ragazzi, magari sono ragazzi che vivono la separazione dei genitori che a volte fa molti più danni di una disabilità, quindi io chi sono per dire che il mio problema è più grande del tuo, il mio problema è più grande del tuo nel momento in cui ho meno strumenti per gestirlo e non riesco a trovare a questo problema un senso e una motivazione comunque.