Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Dario Dainelli, ex calciatore con le maglie tra le altre di Brescia, Fiorentina, Chievo e Genoa.
Dario, con Atleti al tuo fianco il calcio diventa strumento per approfondire le emozioni della vita quotidiana con un tumore. Partiamo quindi da una prima domanda è del tutto preliminare, che ti dà modo di presentarti e di raccontarci la tua vita quotidiana una volta appesi gli scarpini al chiodo: come hai riorganizzato la tua vita a fine carriera?
Appena ho smesso non mi sono neanche reso conto di averlo fatto, perché la settimana successiva al 30 giugno, quindi alla scadenza del contratto, la Fiorentina mi aveva chiamato per intraprendere la carriera da dirigente della società, e quindi non c’ho pensato due volte per l’amore che ho verso la società stessa e mi sono fatto travolgere dalla situazione. Una settimana dopo siamo partiti per una tournée in America e quindi ero già di nuovo nella bagarre calcistica. Quindi preso dalla quotidianità sportiva non mi sono neanche realmente reso conto del cambiamento perché la vita quotidiana era molto simile. Magari dal punto di vista fisico non avevo lo sfogo, che per uno sportivo penso sia un’abitudine che dopo tanti anni ti rimane addosso e il fatto di non cambiarti, di non far fatica fisica, è una cosa che mi ha cambiato le abitudini, però la quotidianità, l’orario di arrivo, le trasferte comunque c’erano e di conseguenza era tutto abbastanza simile come orari, come vita, come conciliazione con la famiglia. Poi invece adesso è realmente il primo momento in cui ho avuto il distacco dal calcio, da fine giugno. Durante l’anno avevo parlato con la società, non ero entusiasta del percorso che stavo facendo, forse perché non avevo mai realmente pensato a cosa fare nel dopo: ho reputato che avessi bisogno di un momento per me, per staccare e per capire quale fosse realmente la strada, perché penso che una delle cose fondamentali sia, avendo avuto la fortuna di trasformare una passione in mestiere, quello di fare le cose con passione ed entusiasmo. Se c’è un attimo di indecisione o comunque non c’è entusiasmo è meglio fermarsi e magari tornare ad essere un po’ oggettivi e obiettivi.
Esiste un giorno per le persone che ricevono una diagnosi di cancro in cui la storia cambia la loro vita: improvvisamente ciò che tu prima facevi, che eri abituato a vivere, le tue passioni subiscono un terremoto. All’inizio si vive la situazione di shock, la sensazione di non riuscire a orientarsi, a capire cosa stia succedendo. L’obiettivo primario è di orientare le persone nell’incertezza, cioè fare in modo che nel momento di instabilità si riesca a vivere andando alla ricerca di un equilibrio dinamico con una direzione orientata, per capire dove mettere i piedi nel cammino della vita che in quel momento sembra un ponte sospeso e pericolante. Riavvolgendo il tuo nastro, tu hai scritto veramente una pagina di storia nel calcio italiano con più di 400 presenze in serie A; ma se andiamo al momento iniziale, guardando e leggendo la tua storia, ci sono momenti nei quali la continuità che ti veniva offerta non era tale da far pensare ad una carriera così costante. Cosa ti ha guidato nei momenti nei quali potesse emergere in te il dubbio di non essere all’altezza del percorso che eri chiamato a vivere, dandoti orientamento nel tuo obiettivo?
Ci sono due momenti in maniera principale che mi fanno pensare a questo. Il primo è quando ero a Empoli, alla fine del settore giovanile: ho avuto dei problemi fisici perché avevo, spontaneamente, degli pneumotoraci, seri problemi di compressione e collasso dei polmoni., Il primo episodio era stato forte, come spesso succede, perché il dolore non riesci a capire da dove venga e quindi ho continuato, pensando che fosse un dolore intercostale normale, e poi è quasi collassato un polmone. Da lì poi ho avuto altri casi, il secondo a distanza di un inverno, dopo i 16 e 17 anni. Mi sono dopo dovuto operare, mi hanno dato dei punti di collante per evitare scollamenti della membrana, però poi mi ritornava comunque. Avevo fatto visite con specialisti, ce n’è stato uno che era di riferimento in quel campo che addirittura mi aveva consigliato di tagliare una parte del polmone: in quel caso avrei dovuto smettere di giocare. E quindi tante volte l’idea era davvero di smettere, anche perché ero un ragazzo e la famiglia era molto più attenta alla salute. Solo che la voglia di giocare era tanta, quindi ho valutato: dopo l’operazione, con questi punti di collante gli episodi successivi si sono fermati, perché comunque me ne accorgevo in tempo e la condizione era gestibile: stavo fermo un mese abbondante e poi riprendevo. Ho deciso mentalmente che se mi fosse venuto ogni anno, sarebbe stato come se mi fossi preso uno stiramento muscolare, la prendevo come un infortunio costante. Ma fortunatamente da quel momento, forse complice anche lo sviluppo completato della gabbia toracica, non mi è tornata più. Quando poi sono andato a Modena e ho iniziato a non giocare mai per sei mesi, nonostante le persone intorno a me mi dicevano di avere qualità, sono andato un po’ in difficoltà mentale, arrivando a mettere in dubbio la mia forza mentale. Avevo bisogno della fiducia, quindi ero andato in difficoltà dal punto di vista psicologico non sentendola, tutto mi sembrava improvvisamente di nuovo in discussione. Quando le tue certezze sono serene, non ci pensi, non fai tante valutazioni su quello che è il tuo futuro, vai avanti in quello che stai facendo, sei sicuro di quello che stai facendo. Entrare in campo per me è sempre stato importante, questo saltuariamente in carriera si è ripresentato. A me è servito capire che a volte è necessaria quell’incoscienza di pensare che si sia forti comunque e a prescindere, in tutte le occasioni. Però per me non era così immediato, non era scontato che fosse così, questa strafottenza e leggerezza bisognerebbe avercela per andare liberi, per spingere sempre al massimo, perché comunque se fai il massimo, se spingi, se sei libero mentalmente, comunque qualcosa di più lo rendi. Perché se tremi tu, trema anche il ponte sotto i tuoi piedi.
C’è un aspetto che grazie all’impegno di tanti volontari ed ex pazienti negli ultimi tempi sta prendendo piede in oncologia: l’attenzione ai dettagli non necessariamente sanitari. Molte persone, per esempio, quando devono fare le terapie si devono spostare dal proprio comune, a volte proprio dalla città perché non tutti i capoluoghi hanno dei centri attrezzati per curare ogni tipo di tumore. La rete oncologica di terapie in Italia offre dei centri di riferimento anche in base alla sede del tumore o alla diagnosi. Questo fa sì che ci siano reparti che tengono persone ricoverate per mesi, che ci siano case accoglienza per parenti in prossimità degli ospedali: bisogna riuscire a ricordarsi sempre che si può fare qualcosa per far sentire queste persone a casa, in una condizione familiare, magari aggiungendo dei dettagli alla stanza, all’alloggio, alla camera che possano aiutarli a sentire vicina la propria quotidianità. Si può fare e dobbiamo continuare a farlo. Guardando la tua carriera, quando hai cambiato maglia ti sei poi fermato per tanto tempo nelle città e spesso hai avuto un rapporto intenso con le squadre, le tifoserie e le metropoli in cui sei entrato. Quanto è stato importante per te poterti sentire a casa per esprimenti al meglio sul campo?
Caratterialmente avevo bisogno di essere apprezzato per esprimermi al meglio, e per essere apprezzato dovevo essere conosciuto per quel che ero come persona prima ancora che come calciatore., C’è chi arriva e si prende quello che vuole, perché si sente forte, si sente bravo e non sta tanto a pensare al giudizio degli altri. Io ho bisogno di entrare, di conoscere, di farmi apprezzare per le me qualità, tecniche ma soprattutto morali e umane: questa conoscenza fa poi sì che possa rendere al meglio. Di conseguenza quando riesci a creare questo rapporto, quest’empatia con le persone che lavorano con te, con la gente della piazza in cui giochi, rendi, fai il massimo di quello che puoi fare, e se hai la fortuna come è successo anche a me di essere apprezzato è anche più difficile che tu voglia andar via. Quindi si crea questo legame, questa voglia da entrambe le parti di rimanere insieme, che ha segnato la mia carriera e la mia vita, dandone una direzione positiva.
In oncologia la nutrizione è un tema particolarissimo, primo perché le terapie possono portare ad un cambio nella percezione dei gusti, e anche perché spesso non si ha desiderio di mangiare nella condizione post terapia. Tuttavia mantenere un rapporto costruttivo e piacevole con l’alimentazione è importante, determinante, fondamentale. Atleti al tuo fianco ha in corso un’iniziativa che si chiama “ChemioteraPizza”, con la quale portiamo tranci di Margherita negli ospedali, nelle case accoglienza, nelle associazioni di volontariato che operano sui territori. Con ChemioteraPizza vogliamo difendere il rito della normalità, che purtroppo a volte in oncologia si perde. Sentire una ventata di “vecchie abitudini” che purtroppo si sono sospese o perse fa bene, e del bene fa anche condividerle con le persone intorno a te, in casa o in reparto. Sedersi per mangiare metà fetta di pizza, nonostante non sia l’alimentazione più indicata come prassi per una terapia oncologia, può fare del bene: ci dobbiamo prendere delle piccole oasi di eccezione all’interno di un percorso scandito da regole molto rigide. Nella regolata nutrizione sportiva, tu quanto hai giovato delle piccole trasgressioni alimentari?
Io sono un’entusiasta, di conseguenza valuto tutto dal punto di visto mentale, dell’entusiasmo, di quanto tu creda in una cosa. La mia analisi è sempre orientata da quel punto di vista, quindi faccio fatica a dire che una cosa sia giusta a prescindere. L’alimentazione è un aspetto fondamentale nella vita sia di un atleta sia di una persona che ha una patologia, quindi bisogna starci attenti. Per i calciatori c’è un menu abbastanza classico o comunque negli ultimi tempi, con l’avvento di attenzioni più specialistiche, c’è un professionista, ci sono dei cuochi della squadra: ognuno viene analizzato in base anche ai suoi gusti e viene fatto un menu ad hoc. Tutto quello che prima era la pasta in bianco o al pomodoro, la bresaola, le solite cose classiche che sono oggettivamente sempre il pasto ideale nel pre-allenamento e per la sera prima della partita, è diventato un menu con delle caratteristiche precise che vengono variate a seconda del soggetto: questa è una cosa fondamentale nella quotidianità. Però il fatto della trasgressione, dell’entusiasmo, del portare qualcosa come la ChemioteraPizza che ti dia gioia per me è fondamentale: a volte fa molto meno male una cosa che fa male rispetto a non farla. In spogliatoio, una delle mie frasi era riferita al fatto che l’aperitivo fa gruppo: bere qualcosa insieme per il fatto di dire “andiamo insieme” serve per creare l’atmosfera di squadra. È il rito di farlo, di mettersi a sedere, lasciare la televisione, il cellulare e così ti metti in cerchio e fai due chiacchiere, parli, entri in sintonia: è una cosa che poi ti dà un elemento di forza in più per te e per il tuo gruppo. Una cosa che nel calcio viene detta poco perché sembra superstizione, sembra che credi alle favole o alle leggende, è il fatto di creare una ritualità nelle azioni da fare. Secondo me non è un discorso di superstizione, ma di psicologia: l’ancoraggio è quando cerchi di replicare una situazione che ti faccia rivivere determinate emozioni che hai provato in quel momento, quindi se senti il profumo che ti richiama alla mente uno stato di gioia che avevi vissuto sentendo quel profumo, rievocarlo ti fa del bene. Secondo me nel pre-partita, negli allenamenti precedenti alla prestazione, queste cose uno le fa magari automaticamente, perché non ci pensa, perché pensa sia una cosa che porti fortuna, in realtà stai cercando questi ancoraggi. E allora portare il profumo, il sapore della normalità attraverso una pizza può diventare determinante per trovare la forza di puntare ad un obiettivo importante da raggiungere.