La ricerca di un momento di riflessione profondo sulla vita delle persone che ogni giorno combattono il cancro è l’obiettivo dichiarato di “Atleti al tuo fianco”. Guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato Arenbì Onlus, questo progetto coinvolge atleti della storia dello sport italiano in dialoghi incentrati sulle emozioni, che grazie alla metafora sportiva, si trasferiscono dall’agonismo all’oncologia. Entra a fare parte della squadra di Atleti al tuo fianco Elisa Di Francisca, schermitrice italiana, campionessa olimpica, del mondo e d’Europa nel fioretto individuale e a squadre.
Elisa, con Atleti al tuo fianco la tua storia sportiva diventa spunto per riflettere sulla vita quotidiana delle famiglie che combattono un tumore. Per conoscerci meglio, partiamo dalla tua quotidianità: come si svolge la tua giornata tipo al di fuori dalle pedane?
Dovendo descrivermi da sola, partirei senza dubbio dicendo che sono una mamma, che si prende cura del proprio figlio Ettore, delle sue necessità e dei suoi ritmi. Mi piace anche dedicare tempo alla mia casa, che adesso si trova a Roma anche se sono nata e cresciuta a Jesi. Amo vivere la vita del mio quartiere, la Balduina, per cui cerco di uscire andando alla ricerca di botteghe e negozi. Quando non mi occupo della mia famiglia, il mio modo preferito di spendere il tempo libero è leggendo libri e guardando film: tutto sommato una quotidianità che definirei normale, senza eccessi e con la ricerca di uno scambio con la città in cui mi trovo.
Spesso chi affronta una diagnosi di tumore, deve conoscere il concetto dell’allontanamento: alcune volte da casa all’ospedale, altre volte in città anche molto lontane per le cure in centri specialistici. Ogni operatore sanitario è bene si ricordi che in quel momento il paziente deve essere curato anche nell’animo prestando attenzione all’accoglienza, perché oltre al cancro sta combattendo anche contro la sofferenza per la distanza. Quanto è stato importante nella tua evoluzione sportiva poter crescere a Jesi, tua città natale e uno dei maggiori centri di scherma in Italia?
Poter vivere le situazioni cruciali della vita con la mia famiglia, con gli amici vicini, con gli affetti sempre a portata è stato per me determinante nella crescita non solo agonistica ma anche personale. Sono nata a Jesi dove ho potuto frequentare una scuola che sfornava campioni in continuazione grazie al lavoro del suo fondatore, il grande maestro Ezio Triccoli. La mia famiglia sapeva dove fossi e con chi fossi, io non ho dovuto cambiare scuola e città come altre mie colleghe di pedana che stavano crescendo come me. Essere a casa mi ha addirittura dato possibilità di fare anche un percorso con un altro sport, la danza classica, che mi ha senza dubbio offerto delle risorse di coordinazione molto utili. Non ho dovuto vivere la separazione, è stato un dono grande: la distanza genera difficoltà nelle difficoltà, far sentire la vicinanza e la familiarità a chi è costretto a spostarsi da casa è un impegno che tutti dobbiamo assumere, ancor più in chi lo fa per curarsi, quindi in un momento particolarmente delicato.
Anche se ogni diagnosi è una storia di vita a sé, i racconti e gli aneddoti di chi ha superato un tumore sono degli esempi a cui molte persone si ispirano, per poggiare il sentimento della speranza su una situazione già concretizzata. Ricordarsi che ogni storia è però diversa da un’altra è importante per rispettare le diverse emozioni di ogni singola persona anche in situazioni che possono sembrare simili. Da schermitrice, quanto è stato importante per te avere davanti esempi che avessero già concretizzato storie di traguardi tagliati ai massimi livelli del tuo sport?
Questo è un aspetto che ha avuto una grande importanza, non tanto per l’aspetto tecnico quanto per vedere da vicino come il percorso di costruzione di un campione sia vincolato a momenti di fatica, di sacrificio, di sudore. Io ho avuto una storia particolare, un rapporto con il fioretto non sempre idilliaco. Nel periodo della mia adolescenza, non mi sentivo felice restando in palestra ad allenarmi tutto il giorno, mi sembrava di star sperperando la mia gioventù. Poi mia madre mi è stata molto vicina, mi ha capito e mi ha aiutata a riprendere. Tante persone hanno creduto in me, allenatori, compagni, familiari: tutto questo mi è servito a cambiare il mio approccio alla fatica. Avere davanti a me campionesse come Giovanna Trillini e Valentina Vezzali che mi mostrassero ogni giorno il rapporto con il sacrificio nonostante avessero già vinto tutto, mi è stato di guida e riferimento.
La speranza deve sempre porre le sue basi su elementi concreti altrimenti può diventare in certe situazioni un’illusione, in altre un fastidioso tentativo di incoraggiamento. Ripetere insistentemente “sono sicuro che andrà tutto bene” o “vedrai che si risolve, sei sempre stata forte” non è un modo valido per sintonizzarsi con le emozioni e con la realtà. Alcune volte si può anche stare vicini, magari condividendo silenzi, sorrisi, lacrime e, soprattutto, presenza senza l’utilizzo di parole. Non è indispensabile regalare costantemente speranze, soprattutto se effimere e poco basate su osservazioni della realtà.
Io nella mia vita ho affrontato un percorso oncologico con mia zia e, anche se ero ancora piccola e andavo alle scuole medie, mi ricordo bene le sue difficoltà, la sua ripresa, la sua decadenza. Ricordo le sue emozioni e le nostre, anche nel rapporto con la speranza stessa, con la difficoltà di capire i nostri stessi sentimenti. Le persone hanno bisogno di supporto competente, perché spesso reagiscono di forza, ma ciò che si deve affrontare è lungo e spesso non prevedibile. C’è bisogno di tanto aiuto perché non crollino e le speranze costruite sul falso o offerte tanto per generare una finta consolazione non sono mai d’aiuto.
Orientarsi solo sul risultato finale di un percorso oncologico è limitante: certamente si vuole sperare che la persona sopravviva e guarisca, ma ci sono tante emozioni che giorno dopo giorno è importante condividere e supportare. Tu nel fioretto ai Giochi Olimpici hai mai vissuto la sensazione che ciò che importasse intorno a te fosse solo la medaglia finale e non tutto il duro percorso per conquistarla?
Mi ricordo bene prima di partire per i giochi olimpici di Rio 2016: era una situazione particolare perché per la turnazione delle competizioni a squadre, non ci sarebbe stata la relativa gara del fioretto femminile. In molti consideravano quella situazione equivalente ad un oro perso. Partivo da sola da Jesi per l’individuale e la gente mi incoraggiava, anche con grande passione, dicendomi “contiamo su di te, portaci a casa l’oro!”. Era una sensazione contrastante, perché era bello sentire l’affetto delle persone, ma io stavo comunque vivendo un momento non brillante. Alla fine vinsi un argento dopo una serie di gare tirate male, ma che anche per quel motivo fu per me comunque un traguardo soddisfacente, per certi aspetti impensabile per come stavo in quel momento. Visto da chi si aspettava solo l’oro finale può essere stato deludente, ma ci sono sempre i percorsi con le relative emozioni che costruiscono una persona verso un traguardo: limitarsi alla gioia della vittoria toglie molta conoscenza di tutto il resto del tragitto, che prevede la presenza di avversari con i tuoi stessi obiettivi.
Le emozioni in oncologia spesso spaventano, ed è anche questo un motivo per il quale è necessario raccontare, conoscere: per avvicinarsi con maggiore agio a chi vive un tumore. È bene non cadere nell’errore né di colpevolizzare chi fatica a stare vicino, perché è a sua volta un percorso personale, né spingere a tutti i costi alla costante presenza, poiché alcune volte anche il silenzio e l’isolamento possono servire a dialogare con se stessi. L’assenza di riflettori dalla scherma, che si accendono solo in concomitanza delle olimpiadi, è per te motivo di dispiacere o ti aiuta a concentrarti con più pace sull’attività?
Devo essere sincera, a me non infastidisce la condizione di silenzio intorno al mio sport. Anzi, in molte situazioni mi ha aiutato a vivere con molta meno pressione i risultati dei singoli eventi in avvicinamento ai giochi olimpici stessi, come anche ai mondiali. La scherma è uno sport ricco di valori, nei quali noi stessi ci dobbiamo calare e riconoscere. Il silenzio, la concentrazione sono aspetti determinanti, che coincidono con l’assenza di particolare reclamizzazione. Mi rendo conto che per molti addetti ai lavori possa essere utile vedere un aumento dell’attenzione nei confronti del nostro circuito, anche magari per incuriosire e spingere alla pratica della scherma, ma credo che in questo senso le medaglie e i trionfi che poi riusciamo a raggiungere in occasioni dei grandi eventi facciano già da grande traino verso l’intero movimento. Per me il silenzio è un buon compagno di concentrazione e di serenità.
Chiudiamo con un aspetto alcune volte trascurato e poco conosciuto: la vita con un tumore è fatta anche di momenti di grande gioia. Non solo legata ai referti nel miglioramento clinico, ma anche di condivisione di momenti intensi, di emozioni profonde che segnano ed esaltano il valore di una vita intera. Raccontaci le emozioni vissute nel 2012 a Londra quando hai vinto la medaglia d’oro nel fioretto individuale componendo uno storico podio tutto italiano.
Quello è stato un momento di grande gioia, di grandi emozioni e di felicità che è venuto a seguito di tanti sforzi e sacrifici; la stagione prima non era andata bene, per cui fu anche una sorpresa per me, anche se ci fu un percorso di allenamento intenso, a ripensarci ora anche con gioia ed entusiasmo di faticare. Quell’esperienza, la ricordo bagnata da una personale serenità che, credo, si rivelò determinante. Poi è necessario comprendere che il fioretto è prima di tutto uno sport individuale, quindi noi atlete anche se rappresentiamo la nazione, siamo individualmente rivali nel percorso singolo. Senza dubbio quel podio fu una gioia per la Nazione, ma i nostri stati d’animo non erano tutti identici. Al contrario, quando poi vincemmo l’oro a squadre, ci siamo trovate tutte abbracciate e felici di aver raggiunto anche il massimo traguardo di gruppo: il palazzo della scherma era pieno di Italiani e ricordo ancora il suono dell’inno cantato da tutti, un’emozione indimenticabile.