Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Federica Stufi, pallavolista italiana e centrale della VBC Epiù Pomì Casalmaggiore. Una testimonianza raccolta a fine febbraio 2020 poco prima del lockdown per l’emergenza coronavirus, motivo per il quale la condividiamo ora.
Federica, con Atleti al tuo fianco la tua storia ed esperienza nella pallavolo diventa strumento per approfondire la vita delle persone che combattono contro il cancro. Iniziamo cercando di esplorare il tuo percorso personale: raccontaci cosa ritieni sia necessario sapere per poter dire di conoscerti meglio.
Parto dallo sport, perché per me la pallavolo è sempre stata un cardine fin da piccola: mia sorella maggiore giocava e così ho iniziato molto presto. Attraverso il volley ho appreso le regole di convivenza, a prendere per mano le mie paure, ho imparato a fidarmi, a conoscere i limiti e le qualità di ogni singola persona. Lo sport ti porta a fare i conti con l’errore, che esiste e deve essere accettato; attraverso l’analisi dello stesso infatti si può arrivare al miglioramento, e così è anche nella vita fuori dal campo. A 22 anni ho rischiato di smettere di giocare, perché continuavo a dimagrire senza che se ne capisse il motivo. Mi hanno fatto molte diagnosi ma non arrivavano ad una soluzione, finché hanno trovato che ero celiaca: una scoperta che è stata la mia salvezza, perché mi ha aperto una strada da percorrere per continuare a giocare. Mi hanno aiutato in tanti, compagne e allenatori, e ancora oggi scendo in campo per fare quel che più mi piace. Non riesco a scindere lo sport dalla vita, proprio perché tante volte quel che succede in campo è una scuola e una metafora delle difficoltà e delle soddisfazioni che possiamo vivere nella nostra esistenza.
Una persona ricoverata in ospedale vive un momento particolare, perché oltre alle preoccupazioni per le condizioni cliniche che portano al ricovero, affronta anche la separazione dal proprio ambiente domestico: basti guardare come intorno al letto o sul comodino spesso vi siano immagini o elementi che cercano di ricreare uno spazio personale in cui rifugiare anche solo lo sguardo. Fermarsi qualche secondo in più ad ogni letto, facendo una domanda su una foto esposta, è un buon modo perché il medico possa aiutare il paziente a sentirsi in un ambiente familiare e vicino anche alle sue difficoltà emotive. Per te, da pallavolista che ha giocato in tante squadre e quindi cambiato molte città, quali sono quegli elementi che per primi cerchi di mettere nella tua nuova casa per poter creare un ambiente che ti appaia velocemente tuo?
Chiunque mi conosca, risponderebbe senza esitare che la casa di Federica si riconosce immediatamente per il disordine! Ma scherzi a parte, mi porto sempre la foto che mi fecero le mie compagne quando partii per il collegiale, il bigliettino della mamma, una tazza e dei bicchieri. Vorrei essere quella che fa i traslochi con una sola valigia ma non è così. Anche a causa della celiachia, ho capito l’importanza dell’alimentazione, quindi mi piace stare in cucina e usare strumenti miei al suo interno. Solo attraverso la cura della dieta sono potuta tornare ad alti livelli, fa parte ormai della mia abitudine di vita. E infine, ma non meno importante, la mia casa è sempre piena di colori: un ambiente monotono non mi rispecchia in alcun modo, personalizzo anche attraverso i giochi cromatici che mi migliorano l’umore.
Molte volte in oncologia viene usato l’epiteto “guerrieri” verso i pazienti che affrontano un tumore, come se chi è intorno riconoscesse solo nella forza lo strumento indispensabile. Tuttavia, non è sempre così: ci sono giorni in cui si è forti, altri in cui ci si sente da buttare via. Eppure, anche in quelle giornate, si resiste: non è tanto la forza, infatti, la chiave per opporsi alle cannonate di un tumore, ma la compattezza. Come un muro a pallavolo, alle bordate non si oppongono schiacciate, ma un piano di rimbalzo compatto, a volte di coppia o di gruppo, a volte anche “a uno”. Raccontaci da pallavolista in che modo si ottiene efficacia nel muro attraverso la compattezza del reparto e dei singoli.
Quando si parla di muro si pensa subito alle braccia, invece una buona fase di muro parte dagli occhi: sono loro a darti immediatamente la possibilità di concentrarti sulla palla. Prima ancora delle braccia poi sono chiamati ad entrare in azione i piedi, che si devono muovere in maniera rapida e coordinata nella direzione del pallone. Poi contrai il tuo corpo e gli addominali per cercare di andare ad opporti alla palla in una condizione di equilibrio in volo, mantenendolo il più a lungo possibile. Gli occhi continuano ad essere attivi guardando l’avversario mentre attraverso la respirazione fai fluire l’energia nel tuo corpo. Tutto questo è fondamentale tanto quanto quelle braccia che, da sole o unite a più giocatrici, formano ciò che viene chiamato muro, ma se ne vede solo il dettaglio finale: è importante preparare bene il percorso per arrivare ad un’efficacia di insieme. Senza dimenticare poi il resto della squadra, che deve essere ben schierata e pronta a difendere l’eventuale contenimento dell’attacco avversario. È bene distinguere forza e potenza, non sono sinonimi: la forza di una squadra spesso sta nella preparazione dei dettagli di ogni singolo per contrapporsi di insieme alla potenza con cui il tuo avversario cerca di raggiungere i suoi obiettivi.
Ci sono giorni in cui le persone che affrontano un tumore, ma anche i familiari, si sentono totalmente inadeguate rispetto alla battaglia che sono chiamate ad affrontare, come se le proprie qualità fossero insufficienti di fronte ai limiti che il cancro mette facilmente in luce. Tu da pallavolista, come vivi il rapporto tra i tuoi limiti e i tuoi punti di forza?
Negli ultimi anni la pallavolo sta evolvendo, è diventata più spettacolare e più fisica. Io svolgo il ruolo di centrale, non sono né particolarmente robusta né estremamente alta, ma al tempo stesso ho accumulato molta esperienza sul campo, soprattutto nella gestione di me stessa nei momenti difficili della squadra e decisivi della partita. Tutto questo mi ha fatto capire che quando c’è bisogno di me, non è necessario che io offra tutto quello di cui c’è bisogno, ma solo ciò che io so di poter offrire al meglio. Per questo io mi rifugio nella tecnica, perché credo sia l’arma che mi abbia fatto fare tanti anni in serie A1 e sia il prodotto migliore da poter offrire alle mie compagne. Se ogni mia compagna fa lo stesso, avremo un risultato di squadra di livello elevato per la somma delle qualità, andando a sopperire l’insieme dei limiti.
Hai mai temuto che i tuoi limiti fossero superiori alla possibilità di far emergere le tue qualità?
È necessario guidare la direzione della propria attenzione su qualcosa di concreto, non su ciò che si teme. Ad esempio, fin da quando sono piccola mi hanno insegnato a fare la “fast” e io mi sono trovata a concretizzarla in un modo del tutto naturale, come quando si prende in mano uno strumento e si scopre di saperlo far suonare in modo gradevole già da subito. Io in gara mi concentro principalmente sulla liberazione della mia testa dagli influssi negativi, come appunto quello dei miei limiti, per dedicarmi in tutto e per tutto sulle mie qualità. Poi non ignoro i miei difetti, perché in allenamento ci si lavora e migliorandosi li si riduce, riuscendo a superarsi e andando oltre. È un insieme di situazioni che non si improvvisano, ma che in uno sport di squadra si curano nell’individuo e nell’insieme, per raggiungere col gruppo quei traguardi che si è posti come obiettivo.