La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Entrano a far parte di questa squadra Federico e Matteo Ricci, fratelli e calciatori dello Spezia.
Federico e Matteo, la vostra esperienza sportiva diventa spunto per riflettere su alcuni dettagli della vita quotidiana mentre si affronta un tumore. Partiamo parlando di coppie: spesso chi combatte il cancro ha modo e necessità di creare un legame molto forte con una persona in particolare, a volte il coniuge, altre un parente stretto o un amico intimo. Chi vive questo percorso in solitudine, cerca questa intesa nelle figure in reparto: per questo è importante che l’equipe medica sia professionale ma anche molto umana. Matteo, quanto conta per te avere nella tua avventura sportiva un fratello gemello con cui spartire, oltre alla quotidianità, anche la vita sul campo, con tutto il carico di emozioni, gioie, stress e difficoltà che essa porta con sé?
M: Poter contare su una persona così vicina a me, che vive sulla sua pelle la realtà del calcio professionistico, ha sempre rappresentato per me un grande elemento di serenità. Oggi giochiamo per la stessa società, ma non è stato sempre così e spesso abbiamo percorso tragitti separati. Quando negli anni passati indossavamo maglie diverse, ci sentivamo spesso al telefono subito dopo le rispettive partite, cercavamo le parole e i consigli dell’altro, su cui sapevamo di poter contare. I suggerimenti potevano essere di carattere tecnico e sportivo o semplicemente di tipo personale. Oggi che giochiamo con la stessa maglia è ancora più immediata questa situazione: è importante sapere e sentire di non essere soli.
Il cancro cerca di rubare due elementi: la vita e l’identità. Il primo concetto è ben evidente, perché sebbene oggi più del 60% delle persone che ricevono una diagnosi guarisca, le famiglie che vivono un lutto sono molto numerose. La privazione dell’identità si manifesta in modo molto più subdolo: un tumore cambia i tratti somatici, priva del proprio letto, fa provare emozioni che rischiano di mutare la propria personalità. La lotta per il mantenimento della propria identità ha un’importanza elevatissima per chi sta affrontando un tumore. Federico, hai mai percepito nel corso della tua carriera calcistica che far parte una coppia di gemelli possa avere limitato la tua specifica individualità e riconoscibilità da parte degli addetti ai lavori?
F: No, personalmente questo rischio non l’ho mai avvertito, essenzialmente perché io e Matteo giochiamo in due ruoli differenti. Il modo stesso che abbiamo di muoverci in campo è molto diverso, il mio è più estroso e offensivo, il suo più metodico e vicino alla difesa: questo ci rende molto distinguibili. Forse quando eravamo più piccoli questo rischio era maggiore, perché eravamo molto più simili anche sotto questo punto di vista, ma crescendo la differenza in questo senso è aumentata sempre più, anche grazie agli allenatori che hanno saputo esaltare le nostre qualità individuali andando oltre all’apparenza fisica. Oggi sicuramente ci somigliamo molto dal punto di vista somatico, ma come calciatori credo stiamo riuscendo a proporre un’identità chiara per ognuno di noi due.
Una caratteristica ricorrente di un percorso oncologico è la convivenza con l’incertezza. Ogni paziente è costretto a conoscere la realtà dei dubbi, che in alcune tappe della malattia può rivelarsi particolarmente difficile da gestire. Matteo, ripercorrendo la tua carriera fino a questo momento, si evidenzia che hai spesso vissuto stagioni ceduto in prestito. Come hai convissuto con la necessità di dare il massimo per una squadra, senza avere la certezza di essere poi riconfermato nella stagione successiva?
M: Questo tipo di realtà è molto frequente in un ambiente come il nostro, specie se appartieni ad una società che può contare su una rosa ricca di giocatori d’esperienza e molto apprezzati. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di dare il massimo per la maglia che indossavo in ogni specifica situazione, portando però avanti i miei obiettivi personali parallelamente a quelli stagionali della squadra. Da un certo punto di vista poi, questa situazione di grande precarietà e continua mobilità può essere guardata anche come un’occasione di conoscere persone e situazioni sempre nuove, contribuendo non poco al mio processo di maturazione come calciatore e, prima ancora, come uomo. Anche nel calcio infatti, se certe situazioni generano dubbi, la tua risposta deve poggiare su qualcosa di realmente stabile: io ho sempre cercato di focalizzare la mia crescita come obiettivo fermo.
La cura di un tumore è caratterizzata da progressi e peggioramenti: è fondamentale aiutare il paziente e la famiglia a rimanere equilibrati nelle emozioni di un percorso simile alla scalata di una montagna, dove la strada per raggiungere la vetta è irregolare e colma di salite e discese. Federico, guardando la tua carriera si può vedere che in precedenza hai militato in società di Serie A, hai giocato in Europa League, e ora ti trovi in serie B. Per un calciatore, questo è un peggioramento nella carriera o una situazione che fa parte della maturazione calcistica?
F: L’idea di passare dall’Europa alla Serie B inizialmente è stata per me difficile, devo essere sincero. Quando alcuni anni fa sono arrivato a giocare in Serie A, pensavo che tutto fosse stato raggiunto e che, in un certo senso, da quel livello ormai non sarei potuto scendere. È stato però sufficiente un calo della mia condizione fisica a causa di una pubalgia, che mi ha costretto a saltare anche alcuni importanti appuntamenti con la Nazionale Under 21, perché il mio rendimento non si esprimesse al massimo. Con il tempo però ho poi capito che i grandi obiettivi si raggiungono muovendo un passo alla volta: quando entro in campo non devo essere con la testa già al finale di stagione o, peggio ancora, alla stagione successiva, ma devo dare il massimo per fare la differenza nella partita che mi appresto a giocare. Questo mi porta oggi a pensare in un modo diverso: non mi sento in alcun modo frustrato per essere in serie B, ma sono orgoglioso della maglia che indosso e concentrato per esprimere al massimo il mio potenziale, per me e per la squadra. Qualsiasi situazione successiva, sarà solo una logica conseguenza di come avrò affrontato ogni singolo passo.
Nel momento in cui un paziente riceve una diagnosi di cancro è fondamentale ricordarsi che con lui viene coinvolta tutta la sua famiglia. Per la psico-oncologia il lavoro sui familiari è un’attività diretta anche al beneficio del paziente stesso, perché le emozioni provate dai parenti hanno effetto sullo stato d’animo di chi riceve la diagnosi in prima persona. Matteo, da calciatore, l’umore dei tifosi in una piazza influisce sulla tua resa in campo o quando giochi sei isolato nella tua concentrazione rispetto allo stato d’animo che ti circonda?
M: Questa è senz’altro una dimensione molto presente nel calcio italiano. Per quanto mi riguarda, ritengo di saper gestire abbastanza bene i periodi in cui la tifoseria appare meno soddisfatta dalle nostre prestazioni. Sicuramente però, preferisco esprimermi in un clima colmo di serenità e fiducia: penso infatti sia più funzionale per dare il massimo. Mi metto nei panni di un calciatore al suo esordio con i professionisti: una tifoseria che supporta anche una sua prestazione non brillante può essere un elemento di grande sostegno per un ragazzo non abituato ai ritmi della Serie B. La costruzione della concentrazione individuale è importante, ma un ambiente rilassato e fiducioso contribuisce in maniera concreta a creare la circostanza ottimale in cui tirare fuori il meglio di sé.
In oncologia ci si confronta spesso su due temi: le energie da investire per la guarigione e quelle per la qualità della vita. Alcune volte il percorso è parallelo, ma è basilare comprendere che ci si debba impegnare perché anche chi affronta un percorso terminale, e che quindi non può guarire, veda la qualità della sua vita preservata e valorizzata fino all’ultimo momento. Spostandoci nello sport, spesso si contrappongono due diverse filosofie di calcio: una privilegia la ricerca del bel gioco, l’altra mira concretamente al risultato finale. Federico, raccontaci come un calciatore si approccia a questa contrapposizione: questi due concetti hanno un percorso distinto?
F: La valutazione di questo aspetto varia molto a seconda delle caratteristiche di ogni giocatore: un calciatore molto tecnico a cui piace giocare la palla a terra tendenzialmente privilegerà un allenatore amante del bel gioco, al contrario un atleta magari meno tecnico ma più dotato fisicamente si troverà meglio con un allenatore più concreto. Io penso che ci debba sempre essere un equilibrio tra le due teorie: una squadra deve essere totalmente allenata alla ricerca dell’appagamento e divertimento del pubblico e alla costruzione di un percorso che porti un risultato favorevole. Le due situazioni possono coesistere, anche se alla fine della stagione ciò che sancisce il raggiungimento degli obiettivi è la somma dei punti data dai risultati. Per questo mi sento di dire che la concretezza deve prevalere sull’estetica fine a se stessa: io mi diverto quando un allenatore valorizza l’estro attraverso il gioco, ma tutto deve avere la finalità del risultato positivo. Solo così il calciatore sente le proprie qualità impiegate per il raggiungimento di un obiettivo concreto.