Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia, e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Fa parte di questa speciale squadra Kristian Ghedina, sciatore italiano, vincitore di tre medaglie ai mondiali di sci e specialista della discesa libera, di cui è l’atleta più vincente della storia dello sci italiano.
Ciao Kristian, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco. In questa iniziativa, lo sci diventa spunto per raccontare situazioni della quotidianità di chi sta affrontando un tumore e per conoscere come tu hai vissuto le emozioni nel corso della tua carriera agonistica. Per iniziare ed entrare nella migliore atmosfera di dialogo, raccontaci qualcosa di te: visto che parliamo di vita quotidiana, aiutaci a capire come si svolge la tua personale quotidianità, ora che non sei più uno sciatore professionista.
La mia quotidianità è composta da diverse attività, ma non ho un lavoro per il quale devo presentarmi alle 8 di mattina in ufficio. Io lavoro come testimonial per aziende legate al mondo dello sci, seguendo un ritmo lavorativo che non è costante e prestabilito. Compatibilmente con i vari impegni che ognuna di esse mi propone, intervengo in prima persona agli eventi che organizzano. Quindi, in termini di tempo, viaggio moltissimo per lavoro. Quando ritorno a casa, mi piace dedicarmi a semplici attività che amo particolarmente, come andare a passeggio con il mio cane o occuparmi della legna. Nella mia vita privata sono fidanzato, lei vive a Bressanone e io a Cortina, quindi in realtà vivo da solo e mi occupo di tutte le cose di casa, escluso stirare: diciamo che sono un casalingo e questa cosa mi occupa inevitabilmente molto del mio tempo libero. Farsi da mangiare, fare le pulizie, andare a fare la spesa: tutte queste semplici attività fanno sì che io non abbia moltissimo tempo a disposizione per me stesso.
L’autonomia è un concetto fondamentale in psico-oncologia. Il nucleo familiare che condivide il percorso di malattia con chi ha ricevuto la diagnosi di cancro riveste un aspetto centrale, ma al tempo stesso è necessario allenare profondamente la capacità del paziente di individuare il proprio sé, perché in certi pensieri, in certi momenti, in certe emozioni si è da soli e bisogna essere preparati a mantenere il controllo della situazione in autonomia. Nello sci, come affrontavi il momento in cui, lasciato il tuo staff alle spalle, ti affacciavi al cancelletto di partenza e ti preparavi ad affrontare in totale autonomia e solitudine la tua discesa?
Esiste un momento ben preciso nel quale ti appresti a dare il via alla tua gara al cancelletto di partenza. In quell’istante ti rendi conto che sì, sei da solo, anche se qualche attimo prima di partire avevi tutto lo staff intorno a te. In quel momento entri in un mondo a sé, dove sei tu confrontato con te stesso. Questa particolarità dello sci rappresenta qualcosa che ho sempre cercato, tanto nell’attività sportiva quanto nella vita di tutti i giorni: il voler cercar di arrangiarmi, di testare su me stesso ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Io ho sempre ascoltato tutti i consigli degli altri, ma poi ho sempre preso la mia decisione in autonomia, senza farmi influenzare dall’esterno, perché quando affronti la vita o quando fai una discesa, tu sei sempre da solo e metti in gioco prima di tutto te stesso. L’allenatore ti dice che devi passare più a destra o più a sinistra, però poi sei tu che affronti quella pista e sei tu che devi sentire la “verità” di quella pista. E in questo modo ho sempre espresso la mia personalità e la mia esistenza, nello sport e nella vita.
In Italia, oltre il 60% dei pazienti che ricevono una diagnosi di cancro, guarisce. L’esito di questo percorso è però un traguardo lontano, che è fatto di momenti in cui si deve imparare a conoscere il concetto di rischio della vita. Esso è diverso dalla paura di morire, che è un’emozione che è necessario imparare a gestire perché ha potenzialità deleterie. Il rischio della vita è un concetto meno impulsivo al quale bisogna necessariamente avvicinarsi per entrarvi in relazione e imparare a confrontarvisi. La tua specialità di discesa libera, è un’attività sportiva che in caso di cadute diventa rischiosa per la vita. Voi sciatori vi confrontate e vi preparate a gestire il rischio della vita o si tratta di una situazione a cui non pensate mentre gareggiate?
In questo sport ci si confronta spesso con il rischio di morire, purtroppo sono numerosi i casi drammatici avvenuti nel passato recente e remoto. La differenza è che uno come me ha scelto di fare uno sport del genere, sapendo quali fossero i rischi in gioco, mentre il paziente che lotta contro il cancro non ha scelto di avere un tumore. Una discesa è composta di vari fattori: inizialmente c’è l’aspetto personale, quell’individualità di cui abbiamo parlato prima; poi ci sono tutte le voci ed i consigli preziosi di chi ti sta intorno. Mettendo insieme questo, fai la tua gara cercando di andare al massimo. Il tutto però ha un “limite” che devi stare attento a non oltrepassare, poiché, altrimenti, cadi e, nelle nostre specialità, ciò ha un solo significato: rompersi. Se ti va bene, perdi una-due gare, se ti va male perdi una stagione e se ti va veramente male, perdi la vita. Durante questi momenti di difficoltà e di paura, noi sportivi abbiamo anche la fortuna di avere un aiuto psicologico da parte di specialisti che ci aiutano ad affrontare la pista, in maniera positiva. Nella mia esperienza sportiva ho sempre cercato di tralasciare il male per concentrarmi solo sul bene. Ti faccio un esempio: immaginiamo che tu sia caduto o abbia evitato una curva che ti incute costantemente terrore. Ecco, la volta successiva per me è sempre stato necessario sfidare quella curva, quasi dicendole “adesso ti faccio vedere io chi sono!”. La negatività ti danneggia tantissimo e lì si incunea il rischio di farsi male mentre la positività, al contrario, risulta determinante.
Una delle paure maggiori che è importante imparare a gestire con la psiconcologia è il concetto di recidiva, ovvero il tumore che si ripresenta dopo aver terminato il percorso di cura. Dover riprendere le terapie una volta che ci si considerava guariti, spinge i pazienti in uno stato di incertezza profonda. L’idea di ripartire da zero è una situazione che devasta l’animo umano e in queste situazioni è necessario aiutare queste persone a “riprendersi in mano”, capire che non ripartono da zero ma da se stessi e che possono raggiungere il traguardo della nuova guarigione. Tu nel 1991 hai vissuto una situazione extra-sciistica molto particolare, un incidente stradale gravissimo, dal quale hai dovuto ricostruire da capo la tua capacità di muoverti. Come hai fatto per mantenere intatto il tuo obiettivo di essere uno sciatore professionista di fronte a questa difficoltà?
Effettivamente questo è un punto importante. Forse è stato grazie alla mia caparbietà, proprio perché lo sci è sempre stata la mia passione, contro anche il parere di mio padre. Lui infatti mi ha sempre detto che nello sport riesce ad emergere solamente uno su di un milione mentre lo studio è garanzia di successo. Però io a scuola non ero così bravo. O per meglio dire, non me ne fregava niente della scuola, io volevo vivere all’aria aperta e davo più importanza alla condivisione di una partita di calcio con i miei compagni o di un corsa rispetto alle lezioni. Quando ho vissuto l’incidente stradale, mi è caduto tutto il mondo addosso. Quell’evento è avvenuto l’anno successivo alla mia prima stagione importante, dove ero emerso a livello mondiale, dove ho ottenuto i miei primi veri riconoscimenti. Vincere a vent’anni nella mia specialità, è una cosa un po’ anomala. Per raggiungere quel risultato, avevo già dovuto intraprendere un lungo percorso fatto di passione, tante rinunce e molta voglia di affermarmi, forse proprio con la voglia di dimostrare a mio padre che potevo farcela. Certo mio padre aveva ragione e gli do merito di ciò, perché, per diventare dei campioni, vi sono tutta una serie di combinazioni che è arduo ottenere, mentre nello studio, se ti applichi trovi sempre la tua strada. Nello sport vi sono troppe variabili per far sì che tu possa affermarti. Anche se l’incidente era molto grave ed i medici avevano paventato l’impossibilità che io potessi tornare a sciare, io non ho mai mollato, non dando credito alle parole dei dottori, perché mi dicevo che loro parlavano per tutelare il loro lavoro e non volevano darmi false speranze.
Il dubbio di non riuscire più a guarire e che tutto sia inutile è un nemico molto insidioso nella mente di chi combatte il cancro. Tu hai mai avuto la sensazione di non farcela?
Io ero veramente messo male, avevo preso molte botte in testa, avevo un edema cerebrale e mi avevano posto in coma farmacologico. Dormivo moltissimo durante la mia permanenza in ospedale che è durata un mese, ma avevo grande voglia di uscire di là per tornare a fare le gare. Quando ho iniziato a stare un po’ meglio, per cercare di fare un po’ di allenamento, ho inforcato la bici per uscire all’aria aperta. Ecco, la cosa che mi ha fatto paura è che non riuscivo più a stare in equilibrio sulla bicicletta, proprio come i bambini le prime volte che si mettono in sella. Lì ho avuto paura. I medici l’avevano detto ma non io non ci avevo dato troppo peso. Però io non ho mollato: il tuo corpo e la tua mente posseggono un’energia incredibile per affrontare qualsiasi tipo di difficoltà e farlo al meglio. La prima volta ho fatto un metro, la seconda volta due, poi cinque. Ecco, metro dopo metro, ho ricostruito tutto, ho dovuto cercare di risintonizzare il mio cervello, un metro alla volta. Per tornare a vincere in coppa del Mondo io ho dovuto aspettare il 1995, tre anni e mezzo dopo l’incidente. È tanto, tantissimo tempo. Ma anche se non arrivavano i risultati, io ho sempre creduto in me stesso: se non ci avessi creduto io, come potevo chiedere ad altri di farlo? È così che ce l’ho fatta, che ho mantenuto ben chiaro davanti a me l’obiettivo anche quando non riuscivo a muovere nulla in un letto d’ospedale. La mia mente ha giocato un ruolo determinante: è l’aspetto psico-emotivo l’elemento decisivo, nel mio recupero e in quello di ogni altra situazione difficile. È la base sicura su cui poter ricostruire qualsiasi cosa.