La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Entra a far parte di questa squadra Maurizio Damilano, oro olimpico di marcia a Mosca 1980, intervistato da Stefano Rinaudo, laureando in Medicina e Chirurgia all’Università degli studi di Torino e collaboratore di Atleti al tuo fianco.
Ciao Maurizio, la prima domanda che ti faccio è una domanda introduttiva fondamentale: presentati al lettore di questa intervista. Raccontati attraverso le cose che ritieni sia indispensabili sapere su di te per conoscerti meglio.
Ciao a tutti! Al termine della mia carriera come marciatore ho intrapreso un percorso di promozione e marketing nell’ambito sportivo e, pur restando sempre all’interno della Federazione Atletica nazionale e internazionale, mi sono focalizzato maggiormente su questo settore. Negli ultimi anni poi, con la nascita del progetto Fitwalking, mi sono focalizzato sulla promozione dello sport, e in questo caso specifico la camminata, visto non come gesto agonistico ma come attività alla portata di tutti e finalizzata ad una maggiore attenzione alla salute e al proprio benessere. L’iniziativa “Fitwalking Del Cuore”, che organizziamo nella nostra Saluzzo, nell’ultima edizione ha visto la partecipazione di ben 12000 persone: sicuramente un bel segnale da parte della popolazione!
La persona che riceve una diagnosi di cancro si trova all’improvviso catapultato in un percorso estremamente complesso che vede un susseguirsi di visite, interventi chirurgici, esami strumentali e terapie che possono anche prolungarsi per un tempo decisamente importante. Nella tua vita di atleta hai marciato in competizioni che prevedevano distanze notevoli, tanto nella 20Km quanto nella 50Km. Come ti rapportavi con questo tipo di gara, in cui diventa fondamentale gestire al meglio le proprie energie senza perdere di vista l’obiettivo finale ma al contempo senza lasciarsi scoraggiare da un traguardo che sembra non arrivare mai?
In questo tipo di competizione l’elemento chiave è sicuramente il ritmo. Un atleta, nel corso degli allenamenti, impara a conoscere quello che è il suo ritmo e in base a quello può scandire le energie che ha a disposizione nel corso della gara. Questo è un elemento necessario ma ovviamente non sufficiente di per sé, perché poi la gara è continuamente costellata di situazioni in cui sei portato a pensare ad una strategia e quindi a fare valutazioni immediate in base al comportamento dell’avversario che ti trovi davanti: mi conviene aumentare lo sforzo e cercare di raggiungerlo o dosare le mie energie su un ritmo che mi è più congeniale, per poi magari superarlo in una fase della gara in cui lui è più stanco? Vedo comunque un’analogia tra la competizione sportiva e il percorso che un malato è chiamato a fare, e la vedo soprattutto in quell’intervallo di tempo che è tempo di preparazione, ma è anche tempo di incertezza. Ti trovi a dover dare il massimo, attento alle indicazioni di chi ne sa più di te, inseguendo un risultato che giorno per giorno può prendere forma, ma che è comunque molto lontano dall’oggi in cui ti alleni senza vedere il risultato che vale il tuo sudore. In questo lungo percorso ci possono essere le ricadute, che in ambito sportivo possono essere gli infortuni, e i momenti invece il tuo corpo inizia a rispondere proprio come vorresti: la costante, nei periodi facili come in quelli difficili, deve essere la fiducia costante in te stesso e nelle persone a cui hai deciso di affidarti.
Un paziente oncologico avverte spesso il senso di solitudine, caratterizzato dal sentirsi parte di una “minoranza” che è costretto a seguire regole diverse da quelle del resto della popolazione. Da un punto di vista sportivo anche tu in un certo senso hai sempre fatto parte di un mondo che era una minoranza nello sport a livello nazionale. I risultati che voi, i fratelli Damilano, avete ottenuto sui più importanti palcoscenici mondiali hanno contribuito a diffondere la cultura della marcia in provincia di Cuneo, tanto da aver poi richiamato nel saluzzese atleti del calibro di Alex Schwazer o l’attuale Nazionale Cinese di marcia, ma quando voi avete iniziato ad allenarvi sicuramente la situazione era un’altra. Come hai vissuto questo essere parte di una minoranza, in una zona in cui gli sport che attiravano la maggior parte dei tuoi coetanei erano altri?
Una cosa che dico spesso è che questi sport, che sicuramente esercitano un appeal minore sul grande pubblico, sono minori esclusivamente per visibilità e copertura mediatica. Questo porta con sé due elementi: il primo è l’ovvio svantaggio di trovarti in una situazione di maggior difficoltà ad arrivare al grande pubblico e, di conseguenza, a reperire fondi e sponsor necessari a sostenere la tua attività di atleta, ma il secondo elemento l’ho sempre visto come positivo, in quanto questi sport ti insegnano fin da subito che ci sono obiettivi che non puoi mancare, se sogni una carriera sportiva. Questo, se vissuto con lo spirito giusto, può essere un grande incentivo per uno sportivo, che è costretto a dare il massimo in ogni occasione. Per quanto riguarda la mia storia personale, mi sono avvicinato a questo sport per caso, come spesso capita, in occasione dei Giochi Della Gioventù, e devo dire che non ho mai vissuto come un disagio il praticare uno sport indiscutibilmente meno “in vetrina” di altri.
In psiconcologia si dice che, a ricevere la diagnosi di cancro, non è solo il paziente, ma l’intera famiglia. Il concetto di famiglia riveste un’importanza assoluta, e non sempre nello stesso modo: la vicinanza dei parenti è spesso fondamentale per il paziente, che però talvolta può avvertire la loro vicinanza come un condizionamento e un’inibizione ad esprimere liberamente le proprie emozioni. Nella tua carriera la famiglia ha sempre ricoperto un ruolo di primo piano: tuo fratello gemello Giorgio è marciatore come te e tuo fratello maggiore Sandro è stato il vostro allenatore sin dagli esordi. Come hai vissuto questa continua condivisione, anche in ambito professionale, con i tuoi famigliari?
Per me è sempre stato un grande supporto, fin da quando, giovanissimi, abbiamo iniziato a gareggiare. In quei momenti il poter fare affidamento su un rapporto che era già più che consolidato, in cui il dialogo ed il confronto erano naturali, è stato indiscutibilmente un enorme aiuto. Al di là della mia particolare situazione però ci tengo a dire che è sempre fondamentale poter contare su una squadra, su persone che camminano al tuo fianco. Persone che possono darti sostegno e fiducia in ogni situazione. L’idea di “vincere insieme” è una cosa che ci ha sempre accompagnato nel corso della carriera, e in un certo senso ci accompagna ancora oggi, che con ruoli ed obiettivi diversi, ci muoviamo comunque nel medesimo ambiente. Ritengo che questo sia un elemento comune di successo di tante storie, sportive e non, e penso che possa essere valido anche per tante esperienze di lotta contro la malattia: contare su una squadra, che può essere composta in quest’ultimo caso anche dallo staff medico, in cui regnano il dialogo e la reciproca fiducia può davvero fare la differenza.