Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Il fine-vita e il tumore in fase avanzata sono temi di cui sembra sempre difficile parlare, eppure esistono e riguardano tantissime persone in Italia. Atleti al tuo fianco si avvicina e ne parla attraverso le metafore della pallavolo e mediante un dialogo con Piero Spada, ex pallavolista italiano, vincitore a fine anni ’80 di Scudetto, Coppa Italia e Coppa dei Campioni con la Pallavolo Modena.
Benvenuto in Atleti al tuo fianco Piero, dove la tua esperienza da pallavolista servirà come spunto per confrontarci e dialogare sul tema del fine vita, un ambito spesso silenziato e che oggi proveremo ad approfondire e far conoscere. Partendo però dalla tua storia, è bene che ci guidi nella conoscenza della tua realtà da quando hai smesso di giocare a pallavolo. Come si è svolto il tuo dopo-carriera?
Quando ho concluso la carriera di giocatore nel 2008 mi sono subito buttato in una realtà lavorativa. Ero impiegato presso l’ufficio acquisti di una ditta di Ravenna nel settore industriale. Dopo sei anni ho abbandonato quell’occupazione per intraprendere quella di consulente presso una società di Milano che si occupa di acquisizione e vendita di attività commerciali. Ora posso organizzarmi il mio tempo con maggiore libertà e devo dire che questa cosa per me non ha prezzo. A volte rimpiango un po’ il non essermi preso un anno sabbatico al termine della mia carriera da pallavolista, che forse mi avrebbe permesso di focalizzarmi maggiormente da subito sui miei bisogni e desideri per il futuro, ma è andata così e ora sono soddisfatto di quello che faccio.
Entriamo ora nelle tematiche oncologiche partendo da un aspetto che è importante conoscere: il cancro nei suoi piani malefici ha due obiettivi, privare della vita e annullare l’identità. Sono due elementi distinti, per cui anche fino all’ultimo dei respiri è importante difendere l’identità di una persona, i suoi valori, la sua personalità. Diventa quindi fondamentale capire come ogni specifica persona possa essere legittimata e valorizzata al meglio nei suoi desideri, nei suoi legami, nei suoi gusti: il lavoro speso in questa direzione è sempre lotta contro il cancro. Tu hai indossato la maglia di tante città diverse e di varie latitudini: sei riuscito a percepire e giovare della diversa identità di ogni singola città nella quale tu ti sia trovato a scambiare?
Penso di poter rispondere a questa domanda con un deciso sì. Molto dipendeva dall’importanza che la pallavolo rivestiva nel tessuto sociale di ogni determinata città. Nei territori con squadre di calcio importanti per esempio gli altri sport spesso faticano a venire a galla. Io fortunatamente ho sempre giocato in piazze in cui la realtà calcistica non era così presente e il palazzetto si riempiva grazie alla pallavolo. Questo mi ha permesso di vivere momenti molto intensi. Si sono creati legami molto stretti con le persone e le tifoserie, al punto che ancora oggi per esempio conservo amicizie bellissime del mio periodo a Vibo Valentia, in Calabria., dove ho giocato per poco tempo ma ho stabilito una connessione molto forte con la realtà locale. Questo è solo un esempio, potrei davvero ricordare tanti aspetti diversi e unici di ogni città, di ogni tifoseria e persona che ancora oggi, ogni tanto, si palesa con messaggi molto belli ricordando i momenti vissuti insieme grazie al volley.
Quanto l’attività e le scelte che stai conducendo in questa parte di vita dopo la fine carriera ritieni rispettino la tua identità?
Domanda tosta. Io faccio fatica a guardarmi dentro e a capire se quello che sto facendo lo faccio perché mi piace e mi rende felice o lo faccio perché lo devo fare. In un certo senso sto ancora cercando la mia strada. L’amore per la pallavolo resta però intatto, al punto che ancora oggi quando torno ad avvicinarmi allo sport che ho fatto per tutta la vita mi si riempie il cuore di emozione. È una sensazione che non ho provato con nessun altro lavoro io abbia condotto.
Nelle fasi di difficoltà in oncologia, la guida è fondamentale: essere disorientati spesso spaventa tanto quanto la sofferenza stessa, se non addirittura di più. Questo principio è valido in modo particolare per quanto riguarda il fine vita, in cui il tempo del dialogo diventa più che mai tempo di cura: il medico presta assistenza anche attraverso le domande e le risposte a tutte le persone che si trovino ad affrontarlo come nucleo familiare. Quello che si sta vivendo è un capitolo cardine della storia della famiglia e, perfino nei momenti successivi nel ricordo di una persona scomparsa, chi non ha lasciato da soli a vivere una fase tanto delicata viene ricordato con grandissima riconoscenza. Nella tua vita sportiva quanto è stato importante il ruolo della guida tecnica per portarti nelle migliori condizioni di rendimento e serenità attraverso il dialogo e l’ascolto?
Ho capito con il tempo la grande importanza di questi aspetti, talvolta pagando anche sulla mia pelle i momenti in cui non sono ricorso al dialogo. Ricordo per esempio un brutto scontro avuto con un allenatore, l’unico con cui ho avuto problemi, nato proprio dalla mancanza di comunicazione. Il diverbio nacque da alcune mancate convocazioni da titolare, quando io me le aspettavo. La delusione è normale, ma in quell’occasione invece di confrontarmi con il coach esprimendo il mio punto di vista io ne feci una questione personale, chiudendomi nel mio orgoglio. Cosa sbagliatissima! La mia giovane età ed il temperamento un po’ impulsivo non mi aiutarono, ma oggi riconosco che mi comportai da stupido, perdendo un’occasione importante. Oggi siamo in ottimi rapporti, ci sentiamo anche piuttosto spesso, ma all’epoca i miei atteggiamenti rancorosi ingigantirono un problema che si sarebbe potuto forse risolvere con una schietta discussione. Durante la carriera sono state comunque numerose le situazioni in cui ho avuto la sensazione che attraverso il dialogo e l’ascolto reciproco si potesse far fare un salto di qualità alla propria preparazione fisica e tecnica. Quando ho debuttato in serie A a Modena, ad allenare quella squadra c’era un certo Julio Velasco: lui prima di essere un allenatore era un comunicatore, uno psicologo e durante gli allenamenti gli era sufficiente uno sguardo affinché noi capissimo immediatamente l’errore che avevamo commesso, cosa non dovessimo più fare, cosa dovessimo fare per riuscire meglio. Era una sensazione incredibile. Ho avuto tanti allenatori bravi, ma come lui credo di non averne più incontrato un altro.
Quando una persona si trova in una fase avanzata di malattia, o magari all’ingresso in hospice, è evidente che la vita ad essere messa in discussione sia quella della persona che ha ricevuto la diagnosi, però in realtà è tutta la famiglia nel suo insieme a vivere la fase terminale. Spesso si sottovaluta l’importanza dell’occuparsi di tutti, cioè man mano che ci si allontana dal nucleo del paziente si pensa che la cosa diventi meno importante, mentre invece convivente, figli, genitori, fratelli, sono tutte persone che vivono uno stato di difficoltà. Proprio per questo l’attenzione, la cura, l’assistenza deve essere offerta tanto al paziente quanto a chi lo circonda. Portaci un’esperienza dal tuo sport: quanto ritieni sia importante che l’attenzione e la cura da parte di un allenatore debba essere rivolta a tutta la squadra, anche a chi va in campo poco, rispetto ai giocatori titolari?
È importantissimo, anche perché i sei/sette titolari sono in campo anche grazie al lavoro che in settimana si fa con le cosiddette riserve. Le squadre che vincono, vincono perché oltre ai sette hanno almeno tre o quattro atleti che possono giocare benissimo in tutte le squadre di alto livello. È fondamentale il lavoro delle persone che sono nel quadrato del cambio, perché contribuiscono alla crescita della squadra e, per quanto mi riguarda, io non ho mai pensato ad una squadra di sei/sette persone ma sempre ad una squadra di dodici/quattordici giocatori. Credo che questo mio pensiero sia condiviso da tutti i professionisti che lavorano nel mondo della pallavolo. Gioca chi è più in forma in quello specifico momento quindi non etichetterei nemmeno panchinari e titolari: la squadra è tutta quella, nel suo insieme, e insieme deve diventare capace ad affrontare successi e difficoltà, sconfitte e vittorie.
Un grandissimo cliché dell’oncologia è l’incoraggiamento verso l’obiettivo guarigione anche nei momenti meno opportuni. ‘Non mollare, io sono sicuro che ce la fai, io me lo sento che le cose andranno bene, stai tranquillo vedrai che tutto andrà bene’. Sono frasi spesso pronunciate in buona fede, ma in realtà non sempre vengono accolte con serenità. L’oncologia non è solo questo, per quanto sentirsi incoraggiare può essere importante in certe situazioni. Alcune volte però la cosa più importante da fare è aiutare le persone a comprendere, soprattutto quelle sane, che chi è malato ha diritto di star male e ha diritto di fare anche quello che viene inteso come ‘mollare’. Non solo nell’accezione della giornata no, alcune volte aiutarli vuol dire spiegar loro che esiste anche il diritto di morire, il diritto di potersi spegnere in pace e serenità. In questo modo il cancro si prende la vita, ma fino all’ultimo si lavora per la qualità della vita stessa, dell’esistenza: questa non è una sconfitta. Aiutaci ad entrare nella visione sportiva dopo questa riflessione: esiste nello sport un diritto a perdere, di raggiungere comunque un obiettivo pur perdendo la partita?
Nella visione sportiva l’inquadramento è un po’ diverso sotto questo aspetto. Nella pallavolo si dice che la partita non è finita finché non cade a terra l’ultima palla, ed è verissimo. Io ho vissuto sulla mia pelle dei recuperi che sembravano impossibili. Ho anche visto partite che sembravano già finite prendere svolte inattese. Non parlerei di tabù della sconfitta, mi sembra eccessivo: è una questione legata alla valorizzazione del momento sportivo, che in profonda e totale differenza con la vita, anche nella sua conclusione finale offrirà nuove situazioni in cui misurarsi per vincere. E il fatto di essere in una squadra e vedere che il tuo amico non molla, l’altro compagno di squadra non molla, alla fine ti fa dire ‘perché devo mollare io? Proviamoci fino alla fine, poi quando cadrà l’ultima palla ci penseremo!’ Ecco, questo è il giusto approccio alla partita anche nella sconfitta secondo me, che ti può permettere di raggiungere l’obiettivo anche quando sembra compromesso.