Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Raffaella Masciadri, ex giocatrice di basket italiana, vincitrice di 15 scudetti con le maglie della Comense e di Schio, dove oggi svolge il ruolo di Team Manager.
Raffaella, la tua esperienza come cestista si trasforma con Atleti al tuo fianco in spunti di riflessione e dialogo riguardo alle emozioni della vita quotidiana delle persone che affrontano un tumore. Proprio perché ci focalizziamo sulla vita di ogni giorno, partiamo da una domanda introduttiva: raccontaci come la tua quotidianità sia cambiata da quando hai smesso di giocare a pallacanestro. C’è stato un distacco dalla tua vita precedente?
Analizzando la mia vita quotidiana posso dire non ci sia stato un vero e proprio distacco nei tempi e nei modi di quando ero giocatrice in campo. Lo sport mi ha inculcato una mente organizzativa che tuttora si trasferisce nella mia quotidianità, perché anche se il ritmo non è più scandito dalla palestra, dal preparare la sacca e fare allenamento, mi piace comunque tenere tutto sotto controllo. Adesso sono la team manager della squadra in cui ho giocato negli ultimi 15 anni, a Schio, e quindi mi preparo lo zaino, pc e agenda e vado in ufficio. Tutto sommato la forma non è così diversa, il mio ruolo è di collante tra lo staff e le giocatrici, così sono spesso di nuovo in palestra. Non c’è stato un vero e proprio distacco. Anche in precedenza, le mie giornate erano riempite non solo dalla pallacanestro, ma anche ad esempio dallo studio: mi sono laureata in scienze giuridiche, ho fatto il corso di allenatrice e il master in leadership e management. In tutto il percorso della mia carriera mi sono tenuta tante porte aperte per vedere cosa poi mi sarebbe piaciuto fare di più. Oggi sono molto felice di quanto sto facendo, anche perché per me Schio è una prova di fedeltà, esattamente come mi ha insegnato un riferimento della mia vita cestistica, Viviana Ballabio.
Il destino è un tema molto presente nella mente di chi affronta un tumore: spesso costituisce un rifugio per l’accettazione di una condizione dolorosa o addirittura di un esito drammatico. Tuttavia è fondamentale aiutare pazienti e familiari a comprendere che se si ritiene sia il destino ad inchiostrare le pagine della storia della loro vita, c’è sempre e comunque un margine per scrivere tra una riga e l’altra per dare al percorso una direzione personale, sotto il profilo emotivo ancor prima che dal punto di vista clinico. Tu Raffaella sei nata a Como negli anni ’80, città culla del grande basket femminile con la Pool Comense, e ti sei trovata una statura indubbiamente utile per giocare a pallacanestro: quanto pensi il merito del destino possa mettere in ombra gli sforzi e sacrifici fatti per diventare una delle più grandi campionesse della storia italiana di questo sport?
Io posso dire di credere nel destino, ma sono credente quindi prima di tutto credo in Dio e credo nelle nostre forze in quanto esseri umani viventi. Con queste forze sta in nostro potere direzionare il percorso che ci è stato offerto: se il destino è lo scenario, i protagonisti restiamo comunque noi. Mi viene in mente in questo momento Alex Zanardi, la sua storia, la sua vita. Quando ho saputo del secondo e recente incidente, nella mia mente si è presentata la domanda “ma perché il destino si deve accanire così tanto con lui?”. Poi invece ho capito che è lui che ha saputo ridare un senso alla sua vita nonostante il destino lo avesse esposto ad una condizione già molto difficile; la ricerca di questo senso ha comportato senza dubbio dei rischi, ma il valore del tempo della vita alcune volte lo richiede. Io non sento di essere stata predestinata a giocare a pallacanestro, ritengo di essermi veramente creata da zero e con il lavoro sono arrivata ai traguardi che ho raggiunto: il destino, o il nome che gli diamo, può senza dubbio essere presente, ma anche sotto la forma delle persone che incontriamo e che possono influenzare la direzione del tuo percorso, in un senso o in un altro. Dobbiamo impegnarci a fondo per essere noi i protagonisti della nostra storia, qualsiasi scenario ci troviamo ad affrontare: questo è il mio pensiero.
Una persona ammalata di tumore vede cambiare il proprio corpo, sia per la malattia, sia per le terapie in corso: non è facile guardarsi e vedersi diversi, più brutti di come si è sempre stati. I dettagli che mutano vengono spesso rimarcati dagli sguardi delle persone, che vi indugiano in un modo inconsueto rispetto alla normalità: non è una condizione per forza gradita sentirsi osservati e fissati, ancor più se negli aspetti che sono cambiati dopo l’incontro con il cancro. Al contrario, valorizzare lo sguardo “occhi negli occhi” aiuta a sentirsi visti e cercati come persone, non come ammalati. Tu Raffaella hai mai vissuto situazioni nelle quali il tuo corpo sia stato fonte di fastidiose situazioni di osservazione e commento?
Ho avuto battute sulla mia statura, sulla mia corporatura, sul mio modo di vestire sportivo, ma tutto sommato tutto questo non mi ha mai dato fastidio quanto l’indugiare dello sguardo delle persone sui miei lineamenti per cercare di capire se fossi un ragazzo o una ragazza. Apprezzo molto di più le persone che arrivano a esprimermi il loro dubbio facendomi una domanda, rispetto allo sguardo fisso che vuole indagare su di me scavalcando completamente le mie emozioni, la mia persona. Perché almeno chi chiede, entra in contatto con me, mi esprime le sue sensazioni. Di recente con il mondo della pallacanestro ci siamo tutti stretti intorno a Sveva, una giocatrice di minibasket di 8 anni che purtroppo ha visto la sua vita chiamata a concludersi in un tempo per noi tutti inaccettabile, in seguito alla diagnosi di un tumore renale molto aggressivo. Ho provato quindi anch’io nei suoi stessi confronti quella sensazione di paralisi di fronte ad un corpo nel quale i segni del corso di una malattia sono così evidenti che provano immediatamente a comandare il tuo sguardo e le tue emozioni: ma è proprio attraverso la parola e la ricerca della persona, dell’identità che esiste ben oltre ai segni di malattia, che possiamo noi per primi superare quello strano e stupido imbarazzo che invece dall’altra parte viene subito avvertito come fastidioso focus sulla malattia e non sulla persona. Nella mia vita ho incontrato anche chi, con una diagnosi di cancro, mi ha aiutato direttamente ad entrare in relazione con questo tema attraverso l’autoironia: sono stati per me di grande supporto, perché grazie a quello spirito mi hanno subito sbattuto davanti agli occhi la loro personalità, che ha scavalcato a piè pari l’impatto con i dettagli visivi della malattia. Persone come Bebe Vio stanno facendo tanto, tantissimo, non solo per se stesse ma per tutta la società, che si educa nei confronti dell’impatto visivo e dei conseguenti giudizi sul corpo segnato da un percorso di malattia ma dentro al quale c’è sempre e prima di tutto una persona.
Il cancro è un avversario che prova ogni giorno a farti credere di essere più forte di te e di qualsiasi avversario tu abbia mai affrontato fino ad allora. In certi momenti è vero, ma l’errore è credere che, di conseguenza, tu non abbia alcuna forza, strumento o possibilità di affrontarlo, di conviverci o di sconfiggerlo. È l’inizio di una battaglia intensa, in cui tu stesso scoprirai difficoltà mai provate prima ma anche capacità che non avresti pensato di avere. Raccontaci un dettaglio della tua vita da cestista: quando hai iniziato a giocare nella WNBA, hai vissuto la sensazione di avere improvvisamente contro di te avversarie così forti da mettere in dubbio le tue qualità?
Più che vivere la sensazione di mettere in dubbio la mia forza, ho improntato quel percorso come una costante sfida per vedere se le mie capacità potessero espandersi per rendermi un’atleta, e quindi una donna, migliore. Per raggiungere questo obiettivo mi sono sempre concentrata sui miei punti di forza, perché anche nelle situazioni in cui mi accorgessi che certe avversarie erano meglio di me in alcune caratteristiche, io non perdessi la consapevolezza del mio valore, sia dal punto di vista tecnico, sia sotto l’aspetto umano. Ero consapevole che stessi affrontando una sfida molto elevata, non negavo il valore stesso delle mie avversarie, ma questo valeva anche per le mie compagne e di conseguenza anche per loro riguardo a me! Avere fiducia in se stessi è un aspetto importante, a volte decisivo perché ci obbliga a considerare che anche noi valiamo: forse non in tutto, forse non quanto vorremmo, ma abbiamo un valore dato dall’esperienza, dalle doti innate, dai talenti, dagli stimoli, dai legami con chi ci sta intorno. A volte addirittura abbiamo bisogno di situazioni molto semplici e banali che possano rappresentare una serenità necessaria per affrontare sfide molto grandi: una telefonata con la famiglia, una partita a carte con un amico, piccole cose della quotidianità che danno valore alla vita, all’essere vivi e di conseguenza all’attitudine ad accettare le sfide che siamo chiamati a vivere.
Atleti al tuo fianco nasce per combattere l’isolamento fisico e culturale intorno al mondo delle famiglie che affrontano un tumore. Nonostante questo, esiste un isolamento che in certi momenti è necessario, in cui si ha piacere di restare nel silenzio con se stessi. È una risorsa, che però è importante imparare ed allenare, per mettere a tacere voci interne che possono invece disturbare il pensiero del tempo condiviso con se stessi. Parlaci del basket: come isolavi la tua mente nel momento di un tiro libero importante, quando la partita e l’ambiente avrebbero potuto danneggiare l’esecuzione di un gesto sciolto ed efficace?
Il tiro libero non è una caratteristica emblematica della mia carriera, ma come qualsiasi giocatrice mi ci sono dovuta confrontare. La mente è la chiave in quel gesto tecnico che in allenamento tu esegui sempre allo stesso modo da quando sei bambina: tutto ciò che riesci a levare dalla tua testa che possa condizionare il gesto, ti aiuterà a raggiungere l’obiettivo di ripetere un movimento che conosci fin troppo bene. Non ho mai fatto ricorso a mental coach o visualizzazioni per migliorare la mia esecuzione ai liberi, ma ho usato una strategia condivisa anche con una grande amica e giocatrice, Chicca Macchi: nella preparazione al tiro libero, ho sempre cercato di pensare a qualcosa di divertente che non c’entrasse nulla con la partita. Un’abbuffata con gli amici, una barzelletta stupida o situazioni bizzarre: in questo modo spostavo l’attenzione dal momento della gara che potesse influenzare il mio gesto e mi trovavo più rilassata. Sembra un paradosso, ma alcune volte abbiamo bisogno di pensare di meno per affrontare al meglio l’esecuzione di un momento importante: il sovraccarico schiaccia la nostra serenità, l’alleggerimento ci permette invece di avvicinarci all’obiettivo con più scioltezza e naturalezza.