Quando una persona si sottopone ad esami che portano il patologo a formulare la diagnosi di cancro, si forma istantaneamente una triade molto particolare, una sorta di relazione a triangolo che pone sui tre diversi lati il medico, il paziente e i familiari. All’interno di questa figura geometrica si sviluppa una dinamica delicatissima riguardante la comunicazione della diagnosi, che genera una delle domande cardinali in ambito oncologico: dire la verità al paziente fa bene o fa male?
A questa domanda cerca di rispondere un articolo dello Sportello Cancro del Corriere della sera di Vera Martinella:prendendo a spunto uno studio italiano e uno statunitense, entrambi del 2015, ci illustra quale realtà emerga nella volontà dei pazienti riguardo alla condivisione delle decisioni terapeutiche e che rapporto intercorra tra la conoscenza della notizia e lo stato di salute psicoemotiva.
Trovo gli studi validi e interessanti, perché eseguiti in maniera competente e accurata (prova ne è anche la pubblicazione su due riviste autorevoli come Psyco-oncology e Cancer), e perché offrono uno spaccato di realtà, ma credo sia difficile possano dare una risposta concreta alla domanda di partenza.
Come è giusto comportarsi quindi da medici nei confronti di familiari e pazienti?
In questo senso, ci sono due strumenti di riferimento fondamentali per lo specialista: la volontà del paziente espressa per iscritto e il codice di deontologia medica. Se nel primo caso il volere della persona in questione è inequivocabile, il codice di deontologia medica si esprime in maniera molto elastica: “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata”.
Detto tutto questo, a mio parere ciò che serve davvero non è ancora stato chiamato in causa. Ogni volta che si arriva alla diagnosi e si forma la triade, comincia una nuova storia che va affrontata nella sua unicità; la preparazione del medico deve essere altissima non solo in ambito clinico ma anche in quello psiconcologico, perché ogni persona che attraverso quella diagnosi entra in un percorso spesso molto standardizzato, lo farà in una maniera invece completamente individuale, portandovi dentro tutto il bagaglio del proprio vissuto fino a quel momento e trascinando inevitabilmente con sé le persone più care
Il cardine della questione secondo me a questo punto cambia: non è più se dire o meno la verità al paziente, bensì trovare per ogni paziente il modo più adatto per aiutarlo a relazionarsi con la verità, nel rispetto delle volontà espresse. E’ un compito dall’elevatissimo tasso di difficoltà, ma lo è ancor più il percorso che la persona coinvolta e il suo nucleo familiare affronteranno da quel momento. E’ il triangolo che si ripropone, e per quanto diversi possano essere i lati che lo compongono, il bravo medico è colui che riesce ad osservare con attenzione gli altri due lati e individuare in ognuno il punto medio: dove in un triangolo si incontrano le tre mediane prende il nome di baricentro, ed è lì che si trova la risposta alla domanda iniziale, in quel punto così unico da triangolo a triangolo.
Conoscere bene i tre lati è quindi un’esigenza irrinunciabile, a cui si può arrivare solo attraverso preparazione, sensibilità ed empatia; per quanto difficile possa sembrare, da medici abbiamo il privilegio di entrare in relazione con persone che vivono un momento chiave della propria vita, non possiamo farci cogliere impreparati.
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