Atleti al tuo fianco: Davide Bonora

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Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Davide Bonora, Campione d’Europa di Basket con la maglia dell’Italia nel 1999 e vincitore di due Scudetti con i colori di Treviso e della Virtus Bologna.

Ciao Davide, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco: la tua esperienza nel basket si trasforma in metafora, per avvicinarsi al mondo delle emozioni delle famiglie che combattono contro il cancro. Iniziamo dalla conoscenza più basilare: raccontaci chi è Davide Bonora nella sua personale vita quotidiana, dopo una carriera spesa sotto canestro.

Ciao, sono Davide e la prima cosa che mi sento di dire è che sono papà di due ragazzini. Come ogni genitore, mi viene da dire bambini ma in realtà sono grandi, perché la maggiore ha quasi 15 anni mentre il piccolo ne ha comunque quasi 13. Oggi che non pratico più il basket da giocatore, mi sono potuto dedicare a tutti gli sport che ho sempre amato ma verso i quali mi sono dovuto frenare. In particolare, mi sono avvicinato al paddle, che qui a Roma è molto praticato. Mi diverto molto anche a giocare a calcio, calcetto e tennis. In tutto questo, la pallacanestro fa ancora chiaramente parte della mia vita, ma ho anche altre passioni, mi piace leggere, guardare qualche film: situazioni di quotidianità condivisa che arricchiscono la mia vita di ogni giorno.

La vita di ogni giorno in oncologia è segnata da movimenti intensi delle emozioni. Quando ad esempio si inizia un percorso di terapia, la determinazione è alta. Il percorso è però lungo, composto di miglioramenti ma anche passi indietro temporanei. È importante non perdere la fiducia di fronte ad eventuali peggioramenti: l’obiettivo è non immediato, lucidità e pazienza diventano doti da allenare perché indispensabili. Nel tuo percorso da cestista agli esordi, passare dalla corazzata Bologna a giocare in serie A2 a Verona ha messo in difficoltà le tue speranze di percorso ai vertici del basket?

Ho sempre cercato di pormi di fronte alle situazioni della vita riconoscendo sia i lati positivi sia gli aspetti negativi. La mia concentrazione è stata poi dedicata a valorizzare quanto di positivo mi trovassi davanti. Sicuramente per un Davide poco più che ragazzino, lasciare Bologna per passare ad una validissima squadra come Verona rappresentava comunque un’occasione per giocare. Lo stesso aspetto posso dire anche in seguito alla retrocessione che incontrammo nella prima stagione: per me giovanissimo, passare in A2 fu un passo indietro di squadra ma uno spazio più alla mia portata per mettere minuti sul campo e crescere. In quell’opportunità, ho messo tutto me stesso, nel lavoro e nella volontà, per farne un punto di partenza indispensabile per la crescita della mia carriera ma anche della mia persona. Quella fu una situazione che avrebbe potuto apparire come un passo indietro, ma fu il passo necessario per una spinta verso l’alto, progressiva e determinata.

Il cancro è una malattia familiare, perché coinvolge direttamente non solo la persona che riceve la diagnosi, ma tutti i familiari vicini a lei. In quel nucleo familiare, ognuno ha un suo ruolo nel percorso oncologico che deve esplorare, conoscere ed attuare. La guarigione è senza dubbio un obiettivo clinico e un desiderio affettivo, ma vivere attendendo il risultato finale rischia di paralizzare le persone vicino ad un parente ammalato, che sia un genitore, il partner o un figlio. Nel percorso oncologico, il parente deve fare attenzione a non trasformarsi esclusivamente in tifoso della guarigione, ma deve acquisire la consapevolezza del proprio potere di beneficio verso tutto il nucleo familiare, attraverso la presenza, la condivisione, l’ascolto, l’azione. Spostandoci ora sulla pallacanestro, nel 1999 tu sei diventato campione d’Europa con la maglia dell’Italia senza scendere in campo nella finale: come hai gestito dentro di te il desiderio di raggiungere il traguardo a priori e il mantenimento di un livello di preparazione all’ingresso in campo che poteva rivelarsi decisivo?

Quando sei giocatore professionista con un po’ di carriera alle spalle, ti sei allenato a gestire una grande varietà di situazioni. A prescindere dal valore della posta in palio, se ti ritrovi in panchina sei allenato a far coesistere il desiderio che in campo i tuoi compagni facciano bene e la preparazione ad essere chiamato sul parquet di gioco. Quella sera a Parigi però senza dubbio, io mi sentivo teso, ma come insegna un grande maestro di Basket, Svetislav Pesic oggi allenatore del Barcellona, è giusto sentire la tensione prima degli appuntamenti importanti, bisogna essere bravi a non trasformarla in pressione. Sembra un concetto banale, ma è tutt’altro che semplice concretizzarlo: il giocatore deve essere in grado di sentire la tensione e trasformarla in energia positiva per vivere quella sfida in cui è chiamato a rispondere presente, da protagonista sul campo o da compagno di squadra in panchina. Certo dentro di me in quel momento sentivo il desiderio di contribuire anche dal parquet, come avevo fatto nelle precedenti sfide che ci avevano portato in finale e senza dubbio mi è spiaciuto non poterlo fare. Ma anche dalla panchina il contributo di presenza e partecipazione mi ha portato a gioire intensamente con tutta la squadra per un risultato costruito partita dopo partita, che ci ha visti tutti coinvolti e in cui ognuno ha fatto la propria parte.

In oncologia è necessario lavorare sul rinforzo dell’unicità: il cancro infatti cerca di sottrarre non solo la vita ma anche l’identità. La sua azione, in interazione con gli effetti collaterali delle terapie necessarie per combatterlo, porta a modifiche nel corpo, nel volto, nelle abitudini, nelle libertà, perfino nei gusti alimentari. È molto importante aiutare le persone che combattono un tumore a riconoscere che la loro sfida è anche da orientare a difesa della propria identità, mettendo a frutto il tempo che lo conceda per fare cose che generano piacere, nel modo possibile che più piace, condividendole con persone che si amano. Sotto l’aspetto cestistico, nella tua epoca da giocatore hai dovuto convivere con un forte dualismo con Gianmarco Pozzecco, con cui condividevi il ruolo ma con caratteristiche di gioco e indole diverse dalle tue. C’è mai stato dentro di te un momento in cui hai temuto che la tua identità fosse un limite rispetto alle peculiarità diverse di qualcun altro?

Cerco di ricostruire con la memoria la situazione di allora: con Gianmarco Pozzecco questo dualismo venne molto caricato, onestamente anche da noi stessi. All’inizio infatti non posso dire fossimo amici, semplicemente eravamo due giocatori che rivaleggiavano in due squadre diverse nello stesso ruolo e con caratteristiche differenti, dentro e fuori dal campo. All’epoca, giocammo noi per primi su questo dualismo, ma poi ci avvicinammo molto quando disputammo insieme i mondiali del ’98, diventando realmente amici. In quel periodo, lui stava vivendo una crescita impetuosa mentre io, per problemi principalmente fisici, ero in calo nel mio rendimento. Ci rendemmo conto che questo dualismo potesse sì essere bello, ma c’erano dei contesti di squadra da preservare e valorizzare, quindi questa rivalità per certi aspetti si esaurì. Quando nella mia carriera ho sentito vacillare la sicurezza nelle mie qualità individuali, nonostante nel tempo le avessi costruite e consolidate, ho trovato rifugio nel valore della squadra. Ho sempre capito che io non potessi snaturarmi, questo era molto importante, quindi cercavo di rimanere concentrato su quanto io potessi fare per mettermi al servizio della squadra e delle qualità dei miei compagni. Forse proprio il raffronto con Pozzecco mi aiutò in questo: io non potevo essere Gianmarco, perché lui era evidentemente unico ed inimitabile. Quindi, dovevo essere Davide al servizio della squadra, tralasciando la tentazione di esaltare il Bonora giocatore individuale. Dopotutto era la cosa che forse mi riusciva meglio, era effettivamente la mia identità: sono felice di averla saputa difendere per offrirla agli altri, trovandola poi valorizzata grazie a loro.

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