Parlare di lotta al cancro conversando con sportivi professionisti delle loro difficoltà e abitudini quotidiane, permettendo loro di avvicinarsi e sostenere chi sta combattendo contro un tumore: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi partecipa a questa sfida Alberto Cisolla, pallavolista che rappresenta la storia degli ultimi 20 anni di volley: con la maglia della Nazionale Italiana ha totalizzato 197 presenze vincendo, tra gli altri, i Campionati Europei del 2005 e la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004, mentre con la squadra di club della Sisley Treviso ha sollevato 24 trofei, tra cui 7 scudetti e 3 Champions League.
Alberto Cisolla, benvenuto sul campo di questa partita chiamata “Atleti al tuo fianco”. Per partecipare a questo progetto non serve niente più di quello che sei, di quello che hai vissuto e vivi nella tua quotidianità sportiva, per darci modo di trarre spunto di riflessione e ispirazione da come un campione dello sport abbia affrontato e affronti grandi sfide per raggiungere obiettivi molto elevati. Prima di tutto però vogliamo conoscerti meglio, sapere di più di te come uomo: chi è Alberto Cisolla in tutto ciò che non riguarda la pallavolo?
È un po’ strano parlare di me senza nominare il volley, perché faccio quello quotidianamente dal 1989 ad oggi. Sono una persona normalissima, mi sembra di essere rimasto con i piedi per terra e legato ai valori che i miei genitori mi hanno tramandato e, alla soglia 39 anni effettivamente sto ragionando un po’ di più in vista del futuro e provare a vedermi anche in un ambiente extra pallavolistico, anche se vado tutt’ora in campo con la maglia di Brescia con lo stesso entusiasmo di quando ero agli inizi. Nella mia vita quotidiana sono prima di tutto papà e marito, collaboro nella gestione di un ristorante sul lungolago di Salò, sulla sponda occidentale del lago di Garda. Cerco di stare in famiglia il più possibile, perché è ciò che più amo nella mia vita, questa credo sia la sintesi di presentazione che più mi assomiglia.
L’importanza della famiglia è un elemento ricorrente sia nel tuo racconto, sia in ogni storia di cancro: il tumore è una malattia familiare perché coinvolge tutti gli affetti circostanti alla persona che riceve la diagnosi. Tu sei di Treviso, e hai avuto la possibilità di poter crescere come uomo e come atleta nel tuo nucleo familiare con la maglia della Sisley addosso. Quanto è stato importante avere la tua famiglia vicina per permetterti di diventare un atleta professionista e di poter raggiungere i più alti livelli del tuo sport?
Ci ho pensato un sacco di volte, io ho avuto una fortuna enorme ad avere a 3 km da casa la Sisley Treviso e il gruppo Benetton, che negli scorsi 30 anni è stato il più grande esempio a livello nazionale di costituzione sportiva dal settore giovanile alla prima squadra, non solo nella pallavolo. Dai 12 anni quando ho iniziato mi sono reso conto di questa grande fortuna, perché nella mia squadra eravamo in due trevigiani soltanto, gli altri venivano da tutta Italia, anche da mille chilometri di distanza. Mi rendevo conto che io la sera tornavo a casa dai miei familiari, mi relazionavo con loro riguardo alle mie difficoltà quotidiane, per compagni di scuola avevo gli amici di sempre, non ho mai dovuto sciogliere e ricostruire legami in un momento così delicato come l’adolescenza. Ho cercato di dare il 100% in ogni allenamento e pallone della mia carriera anche per rispettare questa fortuna che ho avuto, la mia famiglia è stata senza dubbio determinante per poter arrivare a compiere il mio percorso da pallavolista. Molti ragazzi non hanno avuto e non hanno questo grande privilegio.
Quando si affronta una diagnosi di tumore maligno, è grande la rapidità con cui si viene scaraventati in un nuovo mondo spesso sconosciuto, che condiziona ogni pensiero e azione della giornata, prima svolte in maniera naturale e ora pesantemente influenzate anche in dettagli inimmaginabili dalla malattia, che ha fatto il suo inopinato ingresso nella vita. Improvvisamente ci si trova ad affrontare non solo il cancro, ma paure, pensieri, restrizioni e difficoltà ad esso correlati dovendo contemporaneamente offrire delle prestazioni di vita e di mente elevate per contrastare tutto questo e mantenere un livello di qualità di vita quotidiana accettabile. C’è un episodio della tua carriera in cui tu, improvvisamente, hai dovuto affrontare una difficoltà sportiva inaspettata: finale scudetto 1998-99, davanti a 5000 spettatori sul campo di Modena, con la maglia della Sisley Treviso sei chiamato ad entrare in campo per gli infortuni improvvisi sia di Samuele Papi sia di Damiano Pippi. La partita si decide al Tie-Break, e tu giochi una grande gara siglando anche uno dei punti decisivi per la conquista del tricolore. In quel momento improvviso, come hai trasformato il carico emotivo di una grande responsabilità mai provata in prestazione decisiva?
Adesso a distanza di anni riesco a spiegare razionalmente quel che è successo, lì per lì devo dire che anche una certa dose di incoscienza è stato un bene che ci fosse. Mi spiego meglio: in quel momento se avessi pensato a dove fossi, cosa stessi facendo, cosa fossi chiamato a fare per i miei compagni e tifosi, avrei solo esasperato il carico di responsabilità; quindi il non pormi troppe domande è stato per me un aiuto. Con il senno di poi, posso dire che secondo me la chiave è stata pensare solo a cose positive: ero chiamato a fare una cosa per la quale mi ero preparato, fisicamente e mentalmente; ero nelle mani migliori, sia come staff tecnico-sanitario sia come compagni di squadra. Io ho pensato solo a fare il massimo mettendo in pratica quello per cui mi ero preparato, senza pensare al risultato finale. In quella situazione è andata bene forse anche perché mi ero preparato bene per l’eventualità di un momento come quello, cosa indispensabile per non trovarsi sopraffatti da una situazione improvvisa.
Per mantenere quel controllo di cui tu parli è importante essere attorniati e sostenuti da uno staff medico, chirurgico e psico-oncologico di livello elevato, perché il tumore cerca di invadere non solo gli organi circostanti ma anche i pensieri, motivo per cui servono gli strumenti adeguati per riuscire a resettare le influenze mentali negative e affrontare il percorso in maniera costruttiva. Nella tua carriera c’è stata una situazione in cui la capacità di usare il tasto reset della mente è stato probabilmente determinante: finale degli Europei 2005, a Roma contro la Russia, unica squadra in grado di batterci nel girone. Dopo aver vinto il primo set, perdiamo il secondo e terzo, prendendo una sonora lezione di pallavolo davanti ad un pubblico numerosissimo che chiedeva solo la vittoria finale. Come avete e hai fatto a resettare la mente dalle scorie di quella doppia sberla per ripartire in maniera costruttiva verso la vittoria dell’europeo, obiettivo poi raggiunto al tie-break e per il quale sei stato nominato miglior giocatore di tutta la manifestazione?
Anche qui entriamo in ambiti difficili da spiegare, diciamo che ti scatta qualche cosa dentro, frutto della fatica che hai fatto, della tua voglia di riscatto, del desiderio di gratificare le 15.000 persone presenti al palazzetto e gli otto milioni davanti al televisore: ci sono tante cose che ti aiutano da questo punto di vista a superare le batoste. La Russia era la squadra da battere per cui le paure erano tantissime, probabilmente è stato importante accorgerci che la gente, la squadra, si era ancora tutti molto uniti per quell’obiettivo finale, nonostante le due sberle appena prese. Perdere quei due set non è stato un fallimento, anche se sul momento se ci si fosse concentrati su quello sarebbe sembrato così; è stata invece una tappa dolorosa ma probabilmente necessaria per raggiungere l’obiettivo, la cui strada è spesso molto complessa proprio per momenti come quelli. È solo dopo che ti rendi conto di quanto hai superato, che sei riuscito a mantenere la tua mente sempre orientata sull’obiettivo e non sul risultato parziale. Non darsi per vinto sembra una frase fatta ma è la sintesi di tutto questo, così avvenne quel giorno in me e in tutti noi, giocatori, staff, tifosi e simpatizzanti.
Gran parte del lavoro del medico che opera nella psico-oncologia sta nel mantenere orientata nella direzione costruttiva di cui tu parli non solo la mente della persona che ha ricevuto la diagnosi, ma anche chi lo circonda, esattamente come se si fosse una squadra nella quale ognuno è chiamato a fare la propria parte in maniera positiva per il raggiungimento dell’obiettivo. Tu con la Sisley Treviso hai vinto 7 scudetti, 7 Supercoppe Italiane, 4 Coppe Italia, 3 Champions League, 2 Coppe Cev e una Supercoppa Europea: nella tua carriera puoi vantare un palmares di club migliore di quello dell’intera storia di molte società sportive. Quanto è stato importante per te nella tua carriera poter contare su compagni di squadra che sapevi avrebbero sfoderato, tanto quanto te, la stoffa di campioni nei momenti decisivi delle stagioni e dei singoli match?
Questa è stata la chiave di quella squadra, di quel ciclo storico a Treviso in cui abbiamo vinto tutto quello che si potesse vincere, tra l’altro con 5 giocatori italiani provenienti dal settore giovanile. È stata una scommessa vinta non per caso ma proprio perché partita da lontano, costruendo passo dopo passo un gruppo che potesse avere un amalgama ai limiti dell’indissolubilità. Spesso nei momenti decisivi dei match ci hanno fatto notare come le nostre espressioni apparissero imperturbabili, sicuramente anche perché eravamo una somma di caratteri abbastanza tranquilli: io, Fei, Papi, Tencati e Farina eravamo molto razionali e ben ci sposavamo con l’estro e la genialità di Valerio Vermiglio, il nostro alzatore. Però l’aspetto più importante di questa nostra imperturbabilità risiedeva proprio in quello che tu mi hai chiesto: quando nei momenti di difficoltà io giravo lo sguardo in campo tra i miei compagni, non avrei potuto pensare a persone migliori da avere al mio fianco in quel momento, e sentivo che tutti la pensavamo alla stessa maniera. Questo ci dava quella tranquillità decisiva per i momenti peculiari delle sfide, perché nella pallavolo sei totalmente dipendente dalle capacità tecniche e prestazionali dei tuoi compagni: tu puoi toccare la palla una volta, al massimo due nella stessa azione che devi costruire con l’attenzione e la perfezione di ogni elemento in quel momento in campo, anche di chi la palla non la toccherà. Noi avevamo trovato l’alchimia perfetta, sia come caratteristiche tecniche sia come componenti umane, perché avevamo anche dei grandi difetti di carattere, ma ci sapevamo sopportare e supportare l’un l’altro con la consapevolezza che se avessimo potuto scegliere chi avere in fianco in quel momento, ognuno di noi avrebbe schierato proprio quella formazione e avrebbe scelto gli stessi compagni seduti in panchina e lo stesso staff, la cui professionalità e serietà è stata determinante per raggiungere quei traguardi.
Lo stesso vale in questo momento per noi, Alberto. Tu da oggi sei un nostro compagno di battaglia, un atleta al fianco di chi sta affrontando il cancro; chi combatte la malattia, girando gli occhi tra i tanti supporti che riceve, vede anche te e il tuo contributo. Grazie per quello che hai fatto oggi e per tutto quello che hai fatto nella tua carriera, percorso straordinario che ci hai messo a disposizione dandone una finalità grande come e preziosa come una medaglia. Noi tutti te ne siamo grati.