Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Enrico Dalla Valle, giovane tennista italiano in ascesa nella classifica ATP tra i migliori 500 al mondo.
Ciao Enrico, benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco. La tua esperienza da tennista diventa motivo di spunto di riflessione sulle situazioni della vita quotidiana mentre si affronta un tumore. Per avvicinarci a questo obiettivo, iniziamo a conoscerti meglio: raccontaci qualcosa di te che non riguardi il tuo lavoro. Com’è Enrico al di fuori dei campi da tennis?
Ciao a tutti, io sono Enrico, un ragazzo abbastanza tranquillo a cui non sono mai piaciuti gli eccessi. Faccio una vita da sportivo e passo la maggior parte del mio tempo in campo; quando ripongo la racchetta, mi piace passare la mia libertà con la mia famiglia, la mia ragazza e le persone a cui tengo di più. Amo le cose che si possono fare con tranquillità, come uscire a cena e vedere posti nuovi. Mi piace molto guardare serie tv su Netflix, giocare alla play, ascoltare la musica tra un allenamento e l’altro. Sono uno a cui piace molto anche riposarsi, nel senso che quando ho qualche ora libera sto volentieri in camera a leggere o a dormire. Questo sono io, penso di poter dire in sintesi un ragazzo tranquillo.
Parliamo di un elemento della vita quotidiana mentre si affronta il cancro poco approfondito, ma fondamentale: la qualità del sonno. Dormire bene è importante ma non è sempre facile: le condizioni cliniche e il dolore ostacolano il buon riposo. Se si è soggetti a ricoveri, cambiare letto e compagni di condivisione notturna non è l’ideale per ristorarsi con il sonno. Fatica e stanchezza, in certi periodi, si possono sommare. Tu nel tuo lavoro di tennista cambi letti e fusi orari con frequenza: riesci a tenere separate la fatica di uno sforzo sportivo dalla stanchezza per aver dormito poco?
Il proprio letto è qualcosa di speciale per tutte le persone che hanno la fortuna di averne uno da poter chiamare così. Nel mio aspetto personale, la frequenza con cui dormo fuori casa mi ha abituato ad adattarmi a dormire su ogni tipo di superficie: non faccio più molto caso se ho un materasso più duro o morbido. È una fortuna riuscire a dormire un po’ dovunque, perché il riposo è fondamentale per rigenerare le energie, fisiche e mentali. È chiaro che quando gioco una partita alla mattina presto, cerco di andare a dormire prima possibile: se però dormo meno, ho anch’io il momento in cui faccio fatica a svegliarmi. Una volta in campo però, tutto questo riesco a metterlo da parte e concentrarmi esclusivamente sull’azione, senza strascichi dovuti al sonno insoddisfatto.
Il cancro è una malattia familiare: non colpisce solo la persona che riceve la diagnosi ma coinvolge tutta la sua famiglia. Talvolta succede una cosa strana nella mente di chi ne è ammalato: si sente responsabile di aver trascinato i propri affetti in un percorso doloroso, quando in realtà di responsabilità non ne ha. Sopratutto quando le cose si prolungano nel tempo, capita di colpevolizzarsi di non essere ancora guariti. È una sfumatura molto importante da comprendere, per aiutarli a sentirsi rispettati in questa percezione che poggia su suggestioni e trova assistenza non nella correzione (“non devi pensare così”) ma nella condivisione (“questo è essere famiglia, vivere tutto insieme”). A te, da tennista, è mai capitato di sentirti in colpa per una sconfitta verso qualcuno che condivide questo percorso con te?
È una situazione che, anche se riconosco possa non avere senso, dentro di me mi capita spesso. Do molto peso a quello che pensano le persone per me importanti, perché sento che in me ripongono fiducia e speranza. Quindi mi capita che, in caso di sconfitta, io sia dispiaciuto per me ma anche per loro. È chiaro che dipende molto da come è venuta la sconfitta, ma anche se è una cosa irrazionale e probabilmente sbagliata, mi succede. Credo che dipenda dal saper riconoscere gli sforzi che la mia famiglia ha fatto per permettermi di giocare, in qualche modo mi sento in dovere di fare risultato anche per loro. È un aspetto che fa parte di me, ma sto imparando a metterlo sotto controllo con un pensiero: chi è con me, gioisce e perde con me. Ci saranno tante vittorie e altrettante delusioni, ma faremo tutto questo percorso insieme. Io devo solo concentrarmi sulla gara, applicando al meglio ciò che apprendo e dando tutte le mie energie. Il resto, sarà una conseguenza da condividere con chi amo e mi ama.
Chi sta vivendo un tumore scrive un capitolo particolare nel libro della storia della sua vita. Sebbene alcune diagnosi possano assomigliarsi, le storie scritte non sono mai identiche. Tutto quanto faccia parte del vissuto precedente, compone la scrittura di questo capitolo: a volte sorreggendo nelle difficoltà, a volte obbligando ad affrontare questioni lasciate irrisolte per anni. Ma ogni diagnosi, ogni esito, ogni persona e famiglia, sono storie a sé, uniche e tutte da scrivere. Tu da tennista, quanto senti che il tuo percorso per diventare tennista professionista debba incontrare e farcirsi delle tue caratteristiche che ti rendono unico, nei pregi e nei difetti?
Credo fortemente che ognuno abbia il proprio percorso: ci possono tra tutti i tennisti, come tra tutti gli uomini, caratteristiche simili o diverse, ma non siamo tutti uguali. È possibile che oggi un tennista sia avanti e l’altro indietro, magari tra un paio d’anni la situazione si inverte: è una caratteristica che compone il bello di questo sport. Con le persone che mi stanno accanto io sto lavorando su di me come persona prima e come giocatore di tennis poi, perché senza essere un uomo formato è difficile arrivare a diventare un tennista professionista. È chiaro che c’è competizione, il nostro sport ti obbliga a questo, c’è chi la vive meglio e chi peggio. Io sinceramente penso a me stesso e al mio percorso: sono consapevole delle mie capacità e quindi sono convinto che un giorno riuscirò a raggiungere gli obiettivi che ho ben chiari dentro di me.
L’equilibrio è uno strumento importante in oncologia: anche quando dopo una grande tensione per un esame di controllo arrivano buone notizie, bisogna essere bravi a gestire un sentimento nemico dell’equilibrio, l’euforia. Giusto provare sollievo e serenità, esprimendo attraverso queste due emozioni il proprio stato d’animo. L’euforia però comporta instabilità: se appare come gioia intensa nel momento positivo, si ripercuote quando dopo visite o esami arrivano comunicazioni negative, generando disperazione. L’andamento clinico è spesso alterno: per questo è importante allenare l’equilibrio. Nel tennis, ti è mai capitato di celebrare la vittoria di una partita importante in maniera eccessiva e che questa euforia si ripercuotesse su di te nella sfida successiva?
Questa è un po’ la sintesi della vita del tennista. Puoi vincere una partita con la prima testa di serie 6:1, 6:2 e giocare in maniera incredibile, poi il giorno dopo perdere con una persona con cui parti nettamente favorito, giocando malissimo. Penso che il tennista impari in fretta a non essere troppo entusiasta dopo una vittoria né a buttarsi giù dopo una sconfitta, perché tutte le settimane in questo circuito solo uno vince e tutti gli altri perdono: è giusto avere un buon equilibrio. Se sei troppo contento di una vittoria o di una striscia positiva rischi di perdere ciò che di buono hai compiuto e fare molta fatica nelle settimane successive. I tennisti di alto livello non abbassano mai quell’attenzione che hanno lungo tutta la stagione. Io ho vissuto nella mia famiglia cosa significhi affrontare un tumore. Quando la mia mamma o il mio papà mi dicono che dopo le visite di controllo tutto è andato bene, non c’è vittoria o sconfitta che possa generare un sentimento di una profondità simile. Assomiglia di più al sollievo, allo scampato pericolo. È difficile non esplodere di gioia quando senti un medico finalmente pronunciare la parola “guarito” o “guarita”, ma al tempo stesso è vero che fino a quel momento, l’equilibrio è un obiettivo concreto importante. Ammiro molto chi, in queste condizioni di sfida, riesce in questo intento, tirando fuori il meglio di sé. Io dalla mia esperienza familiare, mi porto fuori uno sguardo diverso verso i miei genitori: quando torno a casa vedo la mamma e il papà, un po’ di euforia la provo, nella felicità della normalità riottenuta.