La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Entra a far parte di questa squadra Giorgia De Vecchis, calciatrice italiana, centrocampista dell’Orobica Bergamo, squadra di serie B di calcio femminile.
Buongiorno Giorgia, benvenuta nel progetto “Atleti al tuo fianco”, la tua esperienza di vita sportiva e personale ci permetterà di trattare alcune tematiche legate alla vita quotidiana con un tumore. Partiamo da un aspetto introduttivo: presentati ai lettori di questa intervista partendo dal presupposto che non sappiano nulla di te. Raccontati attraverso le cose che ritieni sia indispensabile sapere su di te per conoscerti meglio.
Ciao a tutti! Mi chiamo Giorgia De Vecchis, ho 27 anni e sono una calciatrice dell’Orobica Bergamo. Parallelamente al calcio ho sempre cercato di portare avanti l’impegno scolastico e ho conseguito la laurea triennale in Ingegneria. In questo momento sto completando gli studi con una magistrale in Ingegneria Meccanica ad indirizzo Gestionale. Alcuni anni fa ho vissuto sulla mia pelle la realtà della malattia oncologica, da cui ringraziando sono guarita.
Ora che sappiamo qualcosa di importante di più su di te, trattiamo la prima tematica psico-oncologica: la capacità di una visione a 360° è molto importante in un percorso di terapia. L’attenzione totalmente assorbita dal tumore infatti rischia di rapire da spazi di vita quotidiana, a volte piccoli e a volte grandi, che è bene cercare di mantenere vivi quando possibile. Quanto è importante nel tuo ruolo a calcio la capacità di non focalizzarti su un’unica giocata e soluzione ma di tenere aperta la visione anche a situazioni alternative?
È fondamentale, sicuramente. Io gioco come centrocampista quindi a maggior ragione devo sempre cercare di avere una visione ampia del gioco, in maniera tale da poter impostare l’azione nel minor tempo possibile, non appena ricevo il pallone tra i piedi. Devi avere sempre ben chiare in testa le diverse possibilità di cui disponi, coniugando l’assoluta concentrazione sul momento presente con la consapevolezza dell’ambiente più ampio che ti circonda.
Quanto l’allenamento di questa abilità ti è servito nel tuo percorso di terapia?
È stato senz’altro d’aiuto. Come dicevo prima, il meccanismo alla base è lo stesso: devi essere concentrato su quello che stai vivendo senza però perdere di vista tutto ciò che ti succede intorno. Quando mi sono dovuta curare ricordo che mi era di grande aiuto il cercare delle distrazioni che mi permettessero di staccare la spina. Questo non vuole dire che non fossi consapevole della malattia e di tutto ciò che essa portava con sé, ma semplicemente cercavo di ritagliarmi degli spazi miei in cui potevo fare qualcosa che mi facesse sentire meglio. Durante un percorso di cura ti ritrovi spesso ad essere in balia di quello che ti succede e non puoi fare altro che seguire le indicazioni di chi è competente in quello specifico ambito. Ritagliarmi dei momenti in cui magari potessi semplicemente fare una passeggiata, o mangiare la colazione da tranquilla, mi dava pace e mi faceva sentire di nuovo in grado di controllare quello che mi succedeva.
Affrontare una difficoltà da soli, isolati dal resto della società o degli affetti, è un aspetto che spaventa molto le persone che affrontano un tumore. La vicinanza è una risorsa importante da offrire in molti modi diversi: alcune volte con la presenza fisica, altre con messaggi a distanza che possano far sentire che, anche se separati, non si sta affrontando il cancro da soli. Ti è mai capitato in campo di dover affrontare una sfida o un avversario molto temibile e di sentire concretamente dentro di te le tue compagne come un grande strumento di incoraggiamento delle tue paure?
Da questo punto di vista mi sento di fare un paragone molto forte tra la realtà sportiva e quella oncologica. Quando sono stata malata per me è stato fondamentale essere circondata dalla famiglia, dagli affetti e dagli amici. È stata davvero un’arma decisiva per superare dei momenti che sono stati molto difficili. A volte questa vicinanza si traduceva semplicemente nel condividere dei momenti belli insieme, altre volte invece consisteva nell’avere una spalla su cui piangere quando l’angoscia sembrava prendere il sopravvento. Non sono mai stata sola, e questo è stato fondamentale per me. Nel calcio, come immagino in tutti gli sport di squadra, questo “sentirsi famiglia” tra compagne di squadra è importantissimo. Anche nello sport infatti si affrontano grandi sfide che, seppur non paragonabili a quelle che a volte la vita ci mette davanti, richiedono cooperazione e vicinanza. Ricordo per esempio la volta in cui dovemmo affrontare la Juventus: fu davvero importante il poter contare su uno spogliatoio così compatto davanti ad un avversario tanto temibile.
Quanto è stato importante per te, in un momento di separazione dal campo per affrontare le cure in oncologia, vedere due avversarie storiche come Roma e Lazio scendere in campo nel Derby insieme, compagne e avversarie, con uno striscione di vicinanza a te, che non potevi essere là con loro?
Ricordo quel momento come particolarmente emozionante. Ero in tribuna e quel gesto fu per me totalmente inaspettato, al punto che mi commosse. Arianna, una mia cara amica che giocava nella Lazio, mi fece poi arrivare una loro maglietta firmata da tutte le atlete della società. Penso che questi gesti siano molto importanti, perché dicono al mondo che nonostante possano esserci rivalità e campanilismo, quello che ci unisce è sempre più forte di quello che ci divide.
La forza è un concetto spesso malinteso: in oncologia si pensa sempre che è bene farsi vedere forti agli occhi di chi si ha vicino. In realtà in uno scambio intimo è necessario alcune volte confidarsi anche le paure, le perplessità, le fragilità: in questo modo si può non solo costruire la reazione in comune, ma anche conoscere a fondo le emozioni di chi vive insieme un percorso oncologico. Ti è mai capitato nel tuo sport di trovare beneficio da una compagna che, ammettendo un suo momento di debolezza, ha offerto l’occasione di compattarsi per reagire con il piacere di sentirsi uniti e trasparenti nella difficoltà?
Capita spesso, nella vita come nello sport. È ciò a cui mi riferivo prima quando sostenevo che per me era stato di grande aiuto sapere di poter sempre contare su una spalla su cui piangere nei momenti difficili. Anche in campo succede di frequente, anzi, direi che ad ogni allenamento capiti ad almeno una di noi di non sentirsi al massimo e provare sconforto davanti agli obiettivi e alle aspettative che ogni atleta avverte su di sé. In questi casi è fondamentale confidarsi con le compagne, anche perché talvolta capita che un punto di vista esterno ed oggettivo ti faccia notare che la situazione non è esattamente grigia come la stai vedendo, ma che il tuo giudizio è troppo negativo riguardo ad una determinata situazione. Penso che ci voglia molta forza nel riconoscersi deboli!
Mentre tu affrontavi un tumore, sei riuscita a concederti qualche giornata in cui le tue debolezze potessero esprimersi senza vergogna anche agli occhi di chi in quel momento avresti sempre voluto incoraggiare e rasserenare, come ad esempio la tua mamma o tuo fratello?
Sì, è capitato. Ricordo in particolar modo un giorno in cui mi sono sentita libera di andare da mia madre e, abbracciandola, piangere tutte le lacrime che avevo in corpo. Sapevo che lei in quel periodo soffriva ancora più di me per la mia malattia e mi sarebbe piaciuto farmi vedere sempre forte per cercare di alleviare il più possibile il suo dolore. A volte però è necessario farsi vedere deboli, e da quel momento di dolore è nata un’importante condivisione tra noi due. Ogni tanto nella vita si cade, e non c’è nulla di male in questo, ma quando si cade in due anche rialzarsi diventa più facile.
Ultima domanda: che cosa oggi pensi che non sia più separabile tra la Giorgia persona e la De Vecchis calciatrice perché le è stato insegnato dalla storia della sua vita?
Non ho mai avvertito una distanza tra queste due componenti. Oggi quando scendo in campo però sono più consapevole di un tempo che a giocare è proprio Giorgia, con tutta quella voglia di vivere che l’esperienza della malattia le ha lasciato. Il percorso che ho fatto mi ha insegnato tanto, e mi ha trasmesso l’importanza di essere veri, senza cercare di far vedere alle persone di essere migliori di quanto si è.