Atleti al tuo fianco: Lucio Pedercini

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Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di comprensione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di campioni Lucio Pedercini, ex motociclista della classe 500 e oggi manager nella Superbike del Team Pedercini.

Benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco Lucio, dove la tua esperienza da motociclista ci permetterà di affrontare alcuni argomenti legati al mondo dell’oncologia e solitamente avvicinati con imbarazzo. Proprio per creare la migliore condizione possibile per le emozioni di questa intervista, la prima domanda si focalizza sulla tua quotidianità attuale: come hai vissuto questa fase legata al Covid-19?.

Se ci concentriamo sulla quotidianità, dobbiamo sintonizzare ogni parola alla particolare condizione che stiamo vivendo: anche per me, come per tutti, è un periodo piuttosto particolare. Praticamente era dal 1992 che per il lavoro nel motociclismo facevo tappe costanti di nazione in nazione in giro per il mondo, non ero abituato a stare fermo tanto a lungo, né da pilota né nella mia seconda vita da manager. Nonostante le grandi difficoltà che abbiamo vissuto, e da cui non siamo ancora completamente usciti, mi sento comunque sereno: bisogna cercare di guardare al domani con un atteggiamento positivo e fiducioso, dandosi da fare per ricostruire quanto si è fermato in questo periodo, con sempre però una profonda comprensione per chi ha vissuto un lutto in tutto questo tempo.

La gestione del tempo, per una persona ammalata di tumore, cambia improvvisamente nella sua vita. Ci sono molti momenti nei quali si attua una sorta di dialogo con se stessi, con pensieri, paure e incoraggiamenti. È importante guidare questi dialoghi interiori perché non sia l’angoscia a prendere il sopravvento nella mente, di fronte alla presenza di molti dubbi. Nella testa di un motociclista in gara, avviene un dialogo interiore teso a mettere sotto controllo le emozioni?

Dobbiamo cercare di ribadire un aspetto molte volte mistificato: avere paura è normale per tutti gli uomini, quindi anche per i piloti in gara. Nella testa si rincorrono mille pensieri, che è però anche qui necessario mettere sotto controllo perché non siano poi loro a prendere il dominio. Quando correvo avevo una serie di rituali scaramantici, come indossare sempre il guanto sinistro per primo, anche lo stivale: non era solo un gesto portafortuna ma anche un modo per mettere ordine nella testa, ripetendo gestualità ordinate. Quando poi la visiera del casco si abbassava, si innalzava un muro tra me e il mondo esterno: la concentrazione sul momento presente doveva essere massima! La consapevolezza di correre a 300 km/h porta comunque con sé una fisiologica dose di paura: sappiamo che può succedere di cadere e subire anche brutti incidenti, quindi è normale avere anche una dose di timore in quelle circostanze. La volontà e la passione diventano però strumenti determinanti per superare le paure stesse. Per me è sempre stato fondamentale focalizzare i miei pensieri sulle emozioni positive, del presente e del passato: aiutano a cacciare le brutture e le ansie del momento. Questo mi può sembrare un consiglio valido anche per questo periodo storico.

Quando una persona si ammala di cancro, improvvisamente nei suoi confronti il tema della morte e della paura di morire diventa un tabù, un argomento difficile da avvicinare per chi le sta intorno. Eppure nella nostra realtà quotidiana con uomini, animali e natura, nei libri e in televisione, il tema della morte è spesso presente. Dobbiamo renderci conto che con sensibilità e realismo, ogni emozione può essere indagata e comunicata, anche la paura di morire: qualche volta ci si pensa, ma non vuol dire sia l’unica emozione presente in chi affronta un tumore. Per questo confrontarsi può aiutare a capirsi meglio anche su un tema così delicato. Come vive un motociclista il rischio e la paura di morire praticando questo sport?

“Non hai paura di cadere e di farti male?” è forse la domanda che mi veniva posta con maggior frequenza. Ma, per come la vedo io, è come chiedere a un calciatore se non ha paura di incorrere in un infortunio grave: è una situazione rischiosa che fa parte del sistema, un gioco che in questo caso è un lavoro. Come primo concetto mi viene da dire che se avessi paura di andare in moto, non andrei in moto. Ricordo ancora il giorno in cui conobbi Kristian Ghedina, che so essere a sua volta testimonial di Atleti al tuo fianco: mi chiese se fossi pazzo a correre a 300 km/h su una moto, io risposi che anche 170 km/h su un paio di sci non sono pochi. Ogni sport ha la sua componente di rischio. Devo essere sincero: il pensiero della morte non era molto presente quando gareggiavo, ma piuttosto quello di subire un incidente invalidante. Anche in questo caso però ritengo che sia fondamentale concentrarsi sulle emozioni positive. A volte il mio atteggiamento iper-ottimista è oggetto di critica da parte di alcuni, ma io sono convinto che tutto parta dalla mente: l’ottimismo è un motore in grado di spingerci avanti anche quando tutto attorno a noi ci direbbe di mollare.

Un passo avanti nella lotta contro il cancro è comprendere che ci dobbiamo prendere cura a 360° gradi di ogni persona che soffre: il paziente, i familiari, chi guarisce, chi deve affrontare un percorso terminale. Secondo i dati di AIOM, Associazione Italiana di Oncologia Medica, nel 2019 in Italia si è assicurata la guarigione a più del 60% delle persone ammalate di tumore: spesso ci si concentra sulla maggioranza, ma anche chi sa che non può guarire merita la stessa determinazione e attenzione di chi sta guarendo affinché la qualità della sua vita sia massima per le possibilità concesse. Nella classe 500, come affrontavi quelle gare nelle quali sapevi che la vittoria non potesse essere un obiettivo realistico?

La situazione di scendere in pista sapendo che il primo posto non fosse il reale obiettivo capitava spesso. Dal canto mio però la cosa più importante è sempre stata la consapevolezza di aver fatto quanto era in mio potere fare. Succedeva a volte di essere felici dopo un decimo posto, perché si aveva la consapevolezza di avere dato il 100%, viceversa per assurdo un ottavo posto in un’altra occasione poteva risultare una cocente delusione, perché dentro di me sapevo che in quella gara non ero stato la versione migliore di me stesso. Questo vale nello sport, ma anche nella vita. Alcuni risultati sfuggono dal nostro controllo, ma la cosa importante è andare a dormire con la coscienza pulita, di chi sa che non si è risparmiato e ha fatto il meglio che poteva.

L’aiuto ai familiari è anche guida alla condivisione delle emozioni con il proprio parente ammalato: troppe volte si crede, sbagliando, che nascondere le proprie emozioni, paure e debolezze a chi ha ricevuto la diagnosi, sia un modo per apparire più forti e così incoraggiarlo. Gli equivoci e il non-detto sono invece due nemici della serenità in oncologia, che vanno combattuti con l’educazione alla comunicazione delle emozioni. Ora che sei un manager, come vivi lo scambio di emozioni con i tuoi piloti: condividi quello che provi o preferisci tenere il tuo mondo interiore per te?

Mi sono sempre considerato una persona molto emotiva, ma è vero che fin da piccolo vieni abituato a credere che le emozioni siano in qualche modo sinonimo di debolezza. Ho perso entrambi i miei nonni quando ero piccolo a causa di un cancro e mi ricordo che mi chiudevo in camera e piangevo, per poi andare in ospedale ad affrontare la situazione mostrando loro di avere una grinta che in realtà non corrispondeva a quello che sentivo dentro. Oggi mantengo un atteggiamento a pensarci bene non così diverso: quando vedo che qualche pensiero mi turba e ritengo che non riuscirei a motivare al meglio il mio team, preferisco isolarmi per un momento e tornare dalla mia squadra solo quando sento di essere forza e speranza per chi mi circonda. In parte sono ancora quel bambino che voleva incoraggiare i nonni: anzi, crescendo mi rendo conto di essere divenuto ancor più sensibile, mi basta vedere un film o un programma sullo sport per emozionarmi! Cerco di nascondere questo lato più sensibile perché lo vivo come una relazione intima con un me stesso che non è esattamente quello che voglio condividere con chiunque. Cerco di tenerlo per me, comunque accudendolo ma impedendogli di interferire e di dominare le mie emozioni nei ruoli di responsabilità, in famiglia e sul lavoro.

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