Parlare di cancro in maniera libera con sportivi professionisti, conversando sulle loro abitudini e difficoltà nell’agonismo ma ponendo la luce su aspetti della quotidianità di chi sta combattendo un tumore: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. La sfida è stata raccolta da Marco Chiudinelli, tennista svizzero che nel 2014 ha vinto la Coppa Davis con la squadra della Svizzera, composta insieme a lui da Roger Federer, Stan Wawrinka e Michael Lammer.
Benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco, in cui il tennis diventa spunto e mezzo per raccontare situazioni della quotidianità di chi sta affrontando il cancro. Attraverso la tua carriera, analizzeremo alcuni aspetti di come un tennista possa affrontare emotivamente certi momenti particolarmente intensi del suo lavoro. Prima di tutto Marco, presentati a tutti i lettori come uomo prima che come tennista: chi sei quando non ti trovi impegnato sui campi da tennis?
Mi chiamo Marco Chiudinelli, sono un uomo di 36 anni che viene dalla Svizzera, precisamente da Basilea. Sono una persona che ha il privilegio di provenire da una famiglia unita, in un ambiente sano e in una nazione che ritengo splendida. Sono una persona che si fa spesso molte domande sulle cose che succedono nella vita e nel mondo, in particolare mi appassionano le politiche e i pensieri che permettono al nostro pianeta di organizzarsi e di essere organizzato. Passando molto tempo della mia vita in giro per il mondo, quando sono a casa cerco di spendere il mio tempo il più possibile con gli amici apprezzandone fino in fondo il gusto della condivisione della compagnia: non avere vicino i propri affetti più cari per molto tempo ne valorizza la presenza nei rari momenti in cui li si incontra. Mi piace il calcio, amo quando possibile giocarlo io stesso e sono un grandissimo tifoso della squadra di calcio del Basilea. Sono un appassionato di lettura, mi piace molto leggere sia libri, sia giornali e riviste: è un modo per restare ancorato a quel che succede nel mondo, perché con il nostro lavoro sei spesso in nazioni diverse e perdi la cognizione di quel che succede globalmente e localmente.
La distanza forzata da chi ti vuole bene è una sensazione che chi affronta il cancro conosce: i ricoveri lontano da casa, i momenti in cui si devono recuperare energie o si deve rimanere isolati, obbligano a limitare notevolmente la presenza fisica di chi, in precisi momenti, vorresti avere accanto per affrontare le difficoltà. Come ti comporti quando sei dall’altra parte del mondo e non hai vicino a te chi vorresti accanto nei momenti di tua difficoltà interiore?
Certamente le difficoltà che affronta un tennista, per quanto isolato dai suoi affetti in un angolo del pianeta, non sono nulla rispetto alla necessità della vicinanza nel corso delle terapie di un tumore. Questo ancor più perché, con il passare degli anni, per noi tennisti la situazione si è semplificata grazie all’avvento dei cellulari, di internet e di tutti gli strumenti che, anche se non ti danno la presenza fisica, ti mantengono comunque in costante contatto con i tuoi affetti. Ad ogni modo, diventare tennista professionista è una scelta e un traguardo che un uomo sceglie deliberatamente e autonomamente, doversi curare lontano da casa per un cancro non lo è. Se non sei pronto ad affrontare la possibilità di essere da solo in giro per il mondo giocando a tennis, è il caso che ti chiedi se sia il lavoro adatto a te, perché le vere difficoltà della vita sono altre.
Gli interventi chirurgici e le terapie a cui è necessario sottoporsi per guarire da un tumore, non sempre restituiscono il corpo che si aveva in precedenza: a volte è infatti necessario abituarsi ad alcune limitazioni che prima della diagnosi non erano presenti. È fondamentale il supporto della psico-oncologia per sintonizzare la mente all’accettazione del proprio nuovo corpo e del lavoro che esso richiede per essere nuovamente funzionale. Tu sei un tennista di 36 anni: come convivi con i cambiamenti e le limitazioni che il tuo corpo ti presenta nella quotidianità agonostica, in un suo fisiologico invecchiamento?
Devo dire che il mio corpo sta affrontando un invecchiamento sportivo pacifico, perché mi richiede più attenzione e più tempi di recupero, ma tutto questo non mi disturba in alcun modo. In passato ho dovuto affrontare un intervento chirurgico al ginocchio e ogni giorno, quando mi alzo, sento dolore al mio ginocchio. Tuttavia, ho imparato a convivere con il dolore perché riesco comunque a giocare a tennis, tutto ciò che devo fare è semplicemente mettere del nastro adesivo a protezione dell’articolazione prima di giocare, senza il quale non potrei disputare alcuna gara. Certamente questo si può ripercuotere in alcuni aspetti della quotidianità che non sono fondamentali, ma in qualche modo si presentano comunque: ad esempio mi è capitato di dover correre per prendere il treno e di non poterlo fare per il dolore. Tuttavia, te ne fai una ragione e ti adatti a quel che il tuo corpo ti concede: il tranello sta nel pensare spesso “mi piacerebbe fare” quando in realtà non puoi. E non parlo solo delle cose fondamentali della vita, alcune volte le limitazioni più fastidiose si percepiscono in piccole cose, dettagli in qualche modo frivoli e meno significanti rispetto ad altri. Mi piacerebbe ad esempio giocare a golf come facevo quando ero più giovane, ma le mie spalle non me lo consentono più: noi tennisti usiamo il nostro corpo in modo molto più intenso rispetto ai nostri coetanei, è normale avere delle usure più avanzate in alcuni distretti anatomici. Mi devo comunque ritenere fortunato, perché i miei problemi si ripercuotono in minima parte sulla mia vita quotidiana; è importante dare il giusto peso ai problemi, questi del mio corpo sono obiettivamente tutti più che superabili.
Quando si affronta un tumore, spesso si associano alcune immagini proprie delle sfide sportive: si ha di fronte un avversario forte, si deve vincere una partita lunga, si devono trovare energie fisiche e mentali per affrontare la sfida. Molti pazienti raccontano di essere in difficoltà quando qualcuno dice loro “Dai, tu sei forte, ce la farai di sicuro, ce l’hai sempre fatta”. Effettivamente, espressioni di questo tipo non aiutano chi si trova a confronto con emozioni spaventosamente intense mai incontrate prima e non fa che appesantire l’obbligo di essere forti, quando in realtà ci si sente infinitamente piccoli rispetto all’avversario che ci si trova davanti. Tu nel 2014 hai vinto la coppa Davis di tennis con la squadra della Svizzera, al fianco di Roger Federer, Stan Wawrinka e Michael Lammer; da tutti, venivate indicati come i favoriti, con un’occasione irripetibile per la vostra nazione di vincere la sua prima Coppa Davis. La sensazione di dover vincere perché più forti è stata per voi un incentivo a raggiungere il traguardo finale o un ulteriore ostacolo lungo il percorso?
Non è semplice per me rispondere a questa domanda, perché nel corso di quella coppa Davis sono sceso in campo per due volte ma non ho giocato nel corso della finale contro la Francia, momento nel quale la tensione era massima. Io ho disputato i match di doppio ed entravo in campo con la sensazione che, anche qualora avessi perso la gara, l’indomani negli ultimi due match di singolare della sfida avremmo schierato Roger Federer e Stanislav Wawrinka, non proprio una cattiva squadra. Per cui essere all’interno di un team considerato fortissimo, per me che non ero il cardine della forza della squadra, è stato un vantaggio. Prima delle sfide che sono stato chiamato a giocare ero senza dubbio nervoso, ma al tempo stesso sapevo che la massima pressione non gravava su di me. Nella prima partita che abbiamo giocato in casa, effettivamente la pressione era molta e non posso dire che sentirsi in dovere di vincere ci abbia aiutato a sentirne meno: essere forti e avere il dovere di mostrare a tutti che lo si è, è cosa complicata. Ritengo infatti un vantaggio aver giocato la finale in Francia: ci ha dato modo di essere completamente concentrati sulla sfida, che poi abbiamo effettivamente vinto facendo gioire tutta la nazione. Essere considerati forti non è alcun modo garanzia di vincere una partita; sottolineare la forza di qualcuno come probabilità di successo secondo me non si fa altro che mettere in luce l’incertezza del risultato nonostante la forza stessa. Tuttavia, chi ti sta dicendo che sei forte, vuole ricordarti che hai degli strumenti dentro di te, che li hai mostrati più volte in altre situazioni e che te li ammira. Questo è ciò su cui ci si deve focalizzare, questo è ciò che può aiutare: essere forti non basta a vincere né la Coppa Davis né la sfida contro un tumore, ma la forza è un elemento fondamentale per poter scrivere la storia di un successo. Se qualcuno ti ricorda che ne disponi, è perché fa il tifo per te, perché tu possa vincere attraverso le tue doti.