Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro un tumore? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Marco Molteni, ex giocatore di pallavolo che nel 2000 ha vinto la World League con la Nazionale Italiana e che nella sua carriera ha giocato con le maglie delle migliori squadre italiane, tra cui Macerata, Modena, Montichiari e Roma.
Ciao Marco, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”. Oggi parleremo di pallavolo in un modo molto diverso dal solito, andando ad evidenziare alcune situazioni sportive nelle quali una persona che sta combattendo contro un tumore può trovare delle analogie da cui trarre spunti per affrontare al meglio la propria battaglia. È un percorso intenso, nel quale dobbiamo procedere per gradi, per cui prima di ogni cosa ti chiedo di presentarti ai lettori di questa rubrica come uomo al di fuori dallo sport: chi è Marco Molteni in tutto ciò che non riguarda la pallavolo?
Ciao a tutti, sono contento dell’opportunità di partecipare a questo progetto. Il mondo fuori dalla pallavolo è la mia attuale quotidianità, perché una volta terminata la mia carriera sportiva sono uscito dall’ambito del volley, e così mi sono catapultato in una vita normale come molte altre persone: sono un padre di famiglia che si sveglia alla mattina e saluta moglie e figli per andare al lavoro. In questo la pallavolo è uno sport particolare, perché ti fa fare una vita bellissima per 15-18 anni di carriera, ma una volta terminato il percorso da atleta non hai agi che concedono altri sport, così se vuoi uscire dal mondo sportivo devi essere pronto a ripartire da zero. Se devo però sintetizzare tutto questo per presentarmi, la parola che mi piace di più è “papà”, perché è quello che più amo essere e fare nella mia vita.
Cambiare vita da un giorno all’altro è una situazione molto conosciuta da chi si ammala di tumore, perchè l’ingresso della malattia nella vita quotidiana stravolge le certezze di ogni giorno che formano la nostra esistenza, e che si palesano in maniera evidente solo quando vengono a mancare. Quando tu hai lasciato la pallavolo, lo hai fatto a metà stagione spiegando che avresti iniziato un altro tipo di vita lavorativa. Come hai affrontato il cambiamento totale delle certezze che ti hanno accompagnato per 18-20 anni della tua vita sui campi da pallavolo?
Devo confessarti che ho sempre avuto nei confronti delle situazioni della vita un approccio molto personale, un po’ per la fiducia che nutro nei mezzi che ogni persona ha per affrontare le situazioni, un po’ per una leggerezza di pensiero che mi porta ad essere operativo prima ancora che analitico e razionale. Per arrivare a questo però ho imparato a gestire un’alta dose d’ansia che si genera in me in queste situazioni: una volta ben canalizzata, riesco a trasformarla in energia positiva, anche se per raggiungere questa abilità mi è servito impegno. La decisione di smettere l’ho presa in maniera improvvisa, perché subito dopo la nascita del mio secondo figlio ho capito che il posto mio più giusto doveva essere non su un campo di volley ma in casa, con un altro tipo di lavoro. Non posso neanche dire che mi sono dovuto riorganizzare: semplicemente mi sono trovato ad affrontare la nuova realtà, passo dopo passo ma camminando, senza pensare troppo. Il passato da pallavolista mi ha aiutato, perché io non sono mai stato il fenomeno della squadra, al contrario ero sempre un giocatore che ogni anno doveva rimettersi in discussione e dimostrare di valere lo spazio che mi veniva dato in campo. Questo mi ha senza dubbio aiutato nell’affrontare una situazione nuova, in cui le certezze andavano ricreate partendo da capo, ma fidandomi delle capacità che la natura ha messo in me come in ogni essere umano.
Il tumore è una malattia che coinvolge in maniera diretta non solo la persona a cui viene diagnosticato ma anche tutto il suo nucleo familiare; spesso ci sono parenti della persona ammalata che accusano la difficoltà in maniera più evidente rispetto al paziente stesso, recuperarli e aiutarli nel percorso di affiancamento al malato è fondamentale per mantenere il percorso in una direzione positiva. Nelle fasi finali della tua carriera, tu sei stato un giocatore che spesso affiancava il sestetto titolare, quello veniva mandato in campo per pochi punti ma in situazioni delicate, dovendo essere decisivo per far svoltare la partita in direzione positiva anche dopo aver magari semplicemente osservato la sfida per quattro set consecutivi. Come ti aiutavi per essere efficace per il raggiungimento dell’obiettivo partendo da un ruolo di affiancamento dei protagonisti principali della sfida?
Hai messo in luce un aspetto tanto delicato quanto decisivo: essere capaci di vivere una situazione a fianco, ma al tempo stesso avere la capacità di agire in maniera efficace nei momenti in cui si verifica una situazione di possibile intervento, è un tema di molte realtà; ciò che mi ha aiutato in quelle situazioni è l’idea di non lasciare mai la guida dell’evento nelle mani dell’improvvisazione. La preparazione alle eventualità di un istante in cui sei sotto forte pressione è fondamentale per riuscire ad essere efficiente in quel momento. Nella pallavolo, se fai mille bagher in allenamento pensando ai fatti tuoi, probabilmente non ne sbagli uno; in partita, se devi fare un bagher e ti rendi conto di quanto da quel bagher dipenda la gara, probabilmente lo sbaglierai. Ti devi preparare in allenamento non solo al gesto tecnico, fondamentale, ma anche alle condizioni di stress che possono influenzare la tua resa, ancor più se vieni chiamato ad essere decisivo in pochi minuti dopo aver osservato la sfida da elemento esterno. L’allenamento della mente è fondamentale per questo, perché non si deve rivelare un nemico ma il nostro primo alleato.
La fiducia nei confronti dello staff medico, chirurgico e psico-oncologico nelle cui mani un paziente si mette è fondamentale per mantenere il percorso in una direzione costruttiva; al contrario, se nasce un dubbio di inaffidabilità, il paziente vede vacillare immediatamente molti aspetti del suo tragitto clinico. Quanto è stato importante per te provare fiducia verso gli allenatori nelle cui mani ti sei dovuto affidare per la tua crescita agonistica?
Hai toccato un aspetto fondamentale: là dove io non ho trovato un feeling elevato con le persone che si prendevano cura della mia guida tecnica, io non mi sono espresso al meglio. Dopo così tanti anni di sport di squadra, mi sono reso conto che, anche nella vita, abbiamo bisogno di sentirci parte di un gruppo per poterci esprimere nelle nostre potenzialità: in famiglia, nel lavoro, nelle passioni, nello sport. In questa dimensione di gruppo, la fiducia che si prova nei confronti di chi guida la direzione, è basilare per permettere di stare bene emotivamente e affrontare al meglio sia i momenti in cui gli eventi hanno una direzione positiva, sia quando subentrano le difficoltà. Gli allenatori che mi rendo conto mi hanno saputo mettere nelle condizioni migliori di rendere bene sul campo sono quelli che, nei momenti di reale difficoltà, erano capaci di farti sentire che loro erano tuoi alleati, che stavano combattendo con te la stessa battaglia, lo stesso problema. In questo senso non mi stancherò mai di dire che Angelo Lorenzetti è il migliore allenatore del pianeta, perché è capace come nessun altro di porsi al tuo fianco e spingersi con te alla ricerca della soluzione che ti possa far superare la difficoltà. Se viene meno la fiducia nei confronti di chi ti guida, la tua testa vive in una situazione di totale disorientamento, e senza riferimento la direzione del tuo percorso individuale viene affidata al caso. Questo non deve succedere mai, nello sport come in qualsiasi altra situazione della vita, compreso secondo me il rapporto con il proprio staff clinico.
Tu sei una persona che può senza dubbio parlare di come l’effetto squadra, la sintonia del gruppo possa portare a raggiungere traguardi elevatissimi. Nel cancro, la squadra primaria è senza dubbio la famiglia, nella quale in queste situazioni le dinamiche non sempre sono lineari: affrontando un tumore infatti molte caratteristiche di differenza di carattere si acuiscono, ma se agli elementi della famiglia questo inizialmente sembra un ostacolo verso la compattezza, con del lavoro mirato la varietà diventa la base fondamentale su cui fondare l’unione del nucleo famigliare nella lotta verso la guarigione. Quanto è stato importante per te nella tua carriera sportiva poter contare su compagni che sopperivano a tue carenze e, allo stesso tempo, offrire loro caratteristiche in cui tu eccellevi e loro erano deficitari?
Nella mia carriera, gli anni in cui ho raccolto con la mia squadra le soddisfazioni maggiori sono stati quelli in cui si è verificata al meglio la situazione di cui tu hai parlato: sapersi integrare in maniera perfetta con caratteristiche molto differenti l’uno dall’altro. Nessuno di noi era bravo in tutto, anche perché nella pallavolo c’é una specializzazione evidente a seconda del ruolo che ricopri; ma in quelle situazioni, le nostre carenze individuali non erano motivo di vergogna perché sapevamo che erano spazio perché tutti potessero rendersi utili sopperendo alle lacune di un altro. In certi momenti, sapevamo di cosa avessimo bisogno e sapevamo a chi chiederlo; contemporaneamente, sapevamo quando toccava a noi offrire qualcosa al resto del gruppo. Questo valeva sia sul piano tecnico, sia sul piano emotivo. La richiesta di essere perfetti in tutto genera solo la frustrazione di confrontarsi con le proprie inadeguatezze, offrire i propri limiti e i propri pregi agli altri permette di integrarsi come squadra, come gruppo di persone che combatterà insieme per raggiungere un obiettivo.
Nel 2000 a Rotterdam in World League giochi l’ultima partita del girone a 6 contro la fortissima Jugoslavia per l’accesso alla finale: dallo svantaggio 1-2 riuscite a vincere 3-2 andando in finale. Affrontate la Russia, corazzata dell’epoca, e dallo svantaggio di 1-2 ribaltate la partita vincendo 15 a 13 nel tie-break decisivo di quella che resta l’ultima World League vinta dalla pallavolo italiana. Un aspetto molto delicato dell’oncologia è l’abilità di distinguere obiettivi e risultati parziali: per raggiungere la guarigione, molto spesso si passa attraverso fasi di sofferenza enorme, fisica ed emotiva, che minacciano le capacità di paziente e familiari di mantenere la fiducia verso la concreta possibilità di raggiungere l’obiettivo finale. Raccontaci come hai e avete fatto in quel frangente sportivo a mantenere l’equilibrio per poter ottenere il vostro risultato nonostante i parziali mettessero in pesante dubbio la vostra capacità di riuscirci.
Guarda, so che la mia risposta ti potrà sembrare strana, ma non mi piace focalizzare su emozioni gestite da me, perché secondo me non è mai stata la mia caratteristica forte, però ti posso rispondere tracciando un parallelo sulla tua domanda verso chi mi ha insegnato molto in questo. Tanti anni nella mia carriera mi sono trovato a giocare momenti decisivi di una stagione, che per un pallavolista significano o i playoff o le coppe; molte volte la sfida decisiva l’ho giocata contro la Sisley Treviso, trovandomi dall’altra parte della rete Papi, Cisolla, Fei, Farina, Vermiglio solo per fare alcuni nomi di quella squadra. Spesso è successo che nelle serie lunghe dei play off noi vincessimo le prime sfide in maniera nettissima, eppure mi ricordo l’incredibile sensazione di vedere le loro facce in gara 3 sotto 0-2 sempre straordinariamente impassibili, senza alcun segno della paura di perdere tutto. Anzi, al contrario ti facevano pensare che loro fossero così tranquilli perché, comunque si fosse messa la sfida, alla fine avrebbero vinto loro, e questo dentro mi demoliva. In una battaglia, la paura che incuti dentro al tuo avversario è fondamentale, perché lo condizionerà nei momenti decisivi: io ero condizionato, loro no. E anche se devo riconoscere che io non sia mai riuscito a raggiungere il loro livello di freddezza, loro mi hanno insegnato quanto sia importante quello che dici tu, di impedire alla paura di penetrare nei pertugi della tua mente per impossessarsene, perché nei momenti decisivi tu devi riuscire ad essere performante con la testa al massimo, devi rimanere lucido. E anche se ho vinto una World League nel modo raccontato prima, quello che mi hai chiesto io l’ho imparato non tanto dalle sfide che ho vinto, ma piuttosto da quegli avversari che sono riusciti a insegnarmelo, spingendomi faccia a faccia con i miei limiti e con le loro straordinarie capacità.
Grazie Marco, oggi tu ti sei di nuovo messo la divisa da giocatore con un’umiltà straordinaria, hai accettato di condividere da sportivo e da uomo le tue riflessioni per offrire spunti a chi sta combattendo un tumore. Da oggi tu sei un Atleta al fianco di chi sta affrontando il cancro, che tu possa essere fiero di questo titolo tanto quanto chi lotta nella malattia è fiero di sentirti vicino.