Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro un tumore? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Nicolas Burdisso, difensore centrale e capitano del Genoa, che nel corso della sua lunga carriera calcistica ha vestito anche le maglie di Boca Juniors, Inter e Roma. Con la divisa della nazionale Argentina, indossata per 49 volte, ha vinto l’oro olimpico e i mondiali di calcio under-20.
Ciao Nicolas, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”. Oggi parleremo di sport e di tumori, cercando punti in comune per offrire spunti di interpretazione e reazione alle difficoltà ai lettori di questa iniziativa, che stanno lottando in prima persona o al fianco di un parente. Prima di inoltrarci nella profondità di questi temi, vorrei però che tu ti presentassi ai nostri lettori in una veste umana prima ancora che sportiva. Quel che ti chiedo è quindi: chi è Nicolas Burdisso in tutto ciò che non è il calcio?
Sono prima di tutto un padre di famiglia, parto da questo punto perché posso dire di essere chiamato in causa su entrambi gli aspetti di questo progetto. Infatti se è vero che nella vita faccio il calciatore, io sono stato anche dall’altra parte, quella dei lettori di questa iniziativa, perché ho avuto una bambina che ha dovuto combattere, e noi con lei, contro una forma di leucemia. E questo lo dico senza eroismo, perché ci sono tanti papà che stanno affrontando questa situazione, e posso dire che sei sempre chiamato ad essere padre in tutto il percorso della malattia, trasmettendo fiducia e sicurezza, continuando il tuo lavoro, cercando di mantenere unita tutta la famiglia con l’aiuto delle altre persone. Io ho la fortuna di avere una famiglia bellissima, quindi alla tua domanda “ cosa sei al di fuori del calcio”, io non trovo niente di più bello che risponderti, semplicemente, un papà.
Tu hai messo la tua famiglia al centro della tua vita; anche per chi affronta un tumore il nucleo familiare diventa immediatamente la cosa più importante che esista. Ti chiedo però questo: tu sei argentino, e quando a tua figlia è stata diagnosticata una leucemia, eri da poco arrivato in Italia. Quali sono stati i tuoi riferimenti dentro di te per riuscire ad affrontare la situazione dovendo rinunciare ad alcuni affetti di cui probabilmente in quel momento avevi un bisogno altissimo ma si trovavano dall’altra parte del mondo?
Quando abbiamo ricevuto al diagnosi di tumore per nostra figlia, ero da poco arrivato in Italia e abbiamo scelto di svolgere la prima parte delle terapie, quella più aggressiva, tornando tutti in Argentina; questo è stato importante per me e anche per mia figlia perché io sentivo i benefici di avere vicini i miei genitori, i miei fratelli e anche se la mia bambina aveva solo due anni, anche lei percepiva il mio stato d’animo ben supportato e ne giovava. È molto importante capire che tutto quello che si può fare per il proprio stato emotivo, va fatto fino in fondo perché prima si aiuta se stessi, poi la cosa ricade su chi è ammalato in maniera positiva; e sono convinto che alla fine di tutto, è più quello che loro danno a noi rispetto al contrario. Io lo posso dire perché ci sono passato, anche se all’inizio sembra che si spenga la luce e che tutto sia buio. Ricordo benissimo le parole che ci disse il nostro oncologo nel comunicarci la diagnosi: “Vi lascio due giorni di lutto personale, ma poi si guarda in avanti e non più indietro, perché qui una soluzione c’è e la troveremo insieme”. Io e mia moglie dopo queste parole eravamo già pronti a combattere, difendere il proprio stato emotivo con la vicinanza dei familiari e l’aiuto dei medici è fondamentale, irrinunciabile.
Nel periodo delle terapie di tua figlia, da calciatore e quindi persona molto a contatto con la gente, sono più le foto che hai dovuto concedere sorridendo controvoglia o le pacche sulle spalle che hai ricevuto per incoraggiamento?
Senza alcun dubbio quello che ho ricevuto. Io mi rendo conto che partecipare al progetto “Atleti al tuo fianco” è esattamente quello di cui io ho avuto bisogno allora: ricevere coraggio da tutti, soprattutto da chi già era passato dalla mia situazione, è stato un aiuto straordinario. In quei casi, non esiste calciatore o impiegato, non c’è classe sociale, nazionalità, colore della pelle: tu sei un uomo con una figlia ammalata, e la vicinanza di un altro genitore è ciò di cui forse hai più bisogno, persino più di una parola di un medico alcune volte. Sapere che c’è chi ci è già passato, che ti infonde coraggio, che capisce quello che stai affrontando, che ti avvisa di alcuni momenti delicati, è un aspetto che mi ha dato davvero tanto. È incredibile quello che moltissime persone hanno fatto per me in quel periodo, io posso solo cercare di ricambiare ora raccontando la mia storia e parlando di me.
Doversi affidare nelle mani di un professionista fidato è un aspetto fondamentale di chi affronta una battaglia contro il cancro, e se si insinua il dubbio che qualcosa non sia affrontato con la migliore professionalità e competenza possibili, è difficile proseguire il percorso con la lucidità necessaria per salvaguardare la quotidianità. Nel 2010 tu hai giocato i mondiali di calcio con la maglia dell’Argentina e la vostra intera nazione vi chiedeva di vincere il trofeo poiché eravate affidati a Maradona come allenatore e a Messi come leader in campo. Le cose però non andarono come si sperava, e dopo alcune vittorie nelle quali però il vostro capitano non ha brillato né segnato, siete stati eliminati nei quarti di finale dalla Germania. Come vive un atleta momenti di grande pressione in cui percepisce che le persone che rappresentavano per lui certezze non si stanno rivelando tali?
In realtà noi sportivi siamo abituati a questo genere di situazioni, perché spesso si devono affrontare dei dubbi in una squadra, magari perché l’allenatore non trasmette le stesse certezze che si avevano all’inizio, o il tuo leader in un determinato momento non fa più la differenza come prima; questo non accade solo quando perdi, nella mia vita mi è capitato anche di vincere trofei importanti, e anche in quei casi succede di fare una partita negativa o una prestazione molto al di sotto delle aspettative. In questi casi, c’è una parola fondamentale che è necessario ripetersi nella testa che è “convinzione”. Questo vale anche nelle malattie, in particolare nell’oncologia: continuare a mantenere la convinzione che è possibile raggiungere l’obiettivo è determinante; certo non da soli e comunque con l’aiuto delle persone che ti attorniano, ma questo deve succedere anche quando emergono le perplessità. Un dubbio non vuol dire sconfitta, però se ti fa vacillare la convinzione diventa un avversario pericoloso. Bisogna avere moltissima forza interiore, cercare di mantenere la lucidità anche quando intorno a te qualcosa non va bene, perché l’obiettivo finale resta comunque alla portata.
Una persona che affronta un cancro spesso si sente addosso la responsabilità dell’umore di molte altre persone intorno: se sta bene, gli altri sono felici; se sta male, è causa della tristezza di chi la circonda. Questo è un problema su cui lavorare, perché una persona ammalata ha diritto di avere giornate particolarmente difficili senza sentire su di sé ulteriori responsabilità. Tu sei stato il capitano di squadre come Inter, Roma e Genoa: come hai vissuto le situazioni in cui tu da sportivo hai commesso degli errori in campo pur rivestendo un ruolo di responsabilità nei confronti della squadra e dei tuoi tifosi?
È un momento molto delicato, perché succede, e può succedere spesso, anche nelle piccole partite all’interno di una partita. Bisogna capire che tipo di sbaglio stai commettendo: se si commette un errore “sportivo”, tecnico, quello ci può sempre stare e non si deve dare nessuna spiegazione, perché una volta lo fa uno e un’altra volta un altro. Ma quando sei capitano, sei un condottiero e dai l’esempio, con il tuo comportamento: su quell’aspetto non puoi sbagliare, perché dietro di te c’è una squadra che guarda quello che fai, come e quando scegli di parlare, e vive di questo. Ecco, quello è l’ambito in cui un capitano non si può permettere errori. Anche nella malattia, è importante quello che trasmetti: io ho vissuto con una bambina ammalata, ma ciò che era più importante nella relazione con lei era ciò che noi riuscivamo a trasmetterle. Quando ci si preparava per una chemioterapia particolarmente aggressiva, cercavamo di comunicarle l’idea che fosse quasi un gioco, molto difficile ma in qualche modo un gioco, anche se contemporaneamente noi sapevamo benissimo di cosa si trattasse: in quel momento eravamo i suoi capitani, e non potevamo permetterci l’errore di passarle la nostra angoscia. Quando stavamo in ospedale, intorno a noi c’erano anche dei ragazzi grandi ammalati, di 15 o 18 anni: loro avevano consapevolezza di quanto stesse accadendo. In quei casi ho potuto vedere quanto fosse importante che i familiari si facessero carico di mantenere la convinzione riguardo alla possibilità di farcela, senza farsi scoraggiare dai momenti di debolezza di chi era ammalato. Avere un clima di positività intorno a sé è fondamentale: crearlo non spetta a chi è malato, ma a chi gli sta intorno, guidato dai medici e dai professionisti. Questo vuol dire essere veri capitani.
Nei primi momenti di una diagnosi di tumore, è fondamentale riportare famiglia e paziente nella dimensione della realtà: la prima domanda che una persona si fa è sempre “Ma quindi sopravvivrò o morirò? E quanto tempo mi resterà?”. Questo è normale e comprensibile, ma distoglie dai dati reali sui quali bisogna poggiarsi per costruire la quotidianità combattiva necessaria per vincere la sfida. La stessa situazione si verifica anche quando un esame di controllo di uno step intermedio ha dato esiti positivi: l’eccesso di trionfalismo diventa un nemico insidioso in un percorso lungo come la battaglia contro il cancro. In questo momento il Genoa è primo in classifica, ma sono passate solo due giornate: da capitano, come riesci a gestire l’euforia che vi circonda al fine di mantenere i piedi per terra in direzione dell’obiettivo a lunga distanza?
In questi casi c’è un concetto che aiuta moltissimo, sia nello sport sia nella medicina: il suo nome è “esperienza”. Avere davanti un medico che ti spiega con chiarezza tappa per tappa cosa si va ad affrontare, quale sia l’obiettivo finale, cosa è necessario incontrare per raggiungerlo è fondamentale per chi è malato: ti dà la sicurezza di essere con qualcuno che ti mantiene equilibrato per tutta la durata della battaglia. Per me che ho fatto con mia figlia la parte di chemioterapia più aggressiva in Argentina è stato così, e grazie ad un oncologo straordinario che spesso mi ripeteva “vedrai, non ti spaventare se adesso i valori scendono, poi succederà che si riprendono ma ci vuole questo tempo” mi ha sempre aiutato per mantenermi nella realtà senza darmi in pasto alle paure di qualcosa che, in effetti, poi non si è realizzato. Insieme a questo, mi è servita tantissimo la mentalità sportiva a cui tu hai fatto riferimento nella domanda: tutti noi sappiamo che il bilancio dopo due giornate non ha alcun senso, proprio perché abbiamo esperienza. La soluzione quindi è semplicemente stare concentrati su quanto ci sia da fare in ogni singolo momento, senza trarre bilanci parziali. Ci saranno momenti buoni e anche situazioni difficili, ma ognuno di noi deve mantenere la concentrazione su quanto possa fare di buono per la squadra, per il Genoa, che è il nostro grande obiettivo comune.