Lotta al cancro e sport si incontrano attraverso il dialogo con atleti professionisti che rivivono e raccontano le propria attività agonistica in un’ottica completamente diversa dal solito, che li avvicina a chi sta affrontando un tumore: questo è il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Stefania Rubini, tennista italiana di grande talento e dal gioco spettacolare.
Ciao Stefania, benvenuta nel progetto Atleti al tuo fianco. L’obiettivo di questa intervista è raccontare la quotidianità di chi sta affrontando un tumore maligno, partendo però dalle situazioni presenti all’interno della tua vita sportiva. Prima di tutto, per entrare in questa esperienza di relazione e dialogo molto particolare, aiutaci a conoscerti meglio: raccontaci il percorso che ti ha portato a diventare una tennista professionista.
Ciao a tutti, mi chiamo Stefania Rubini, sono una tennista e vengo da Bologna. La storia è lunga perché ho 24 anni ma ho iniziato a giocare a quando ne avevo otto, per divertimento, come per tutti i bambini. In famiglia c’era già mio padre che giocava a tennis e questa è stata la ragione principale che mi ha spinto a provare questo sport, anche se lui in realtà proviene dal mondo del basket. Così ho iniziato a prendere delle lezioni con i corsi SAT, continuando comunque a frequentare la scuola. Mi ricordo ancora che, non appena finite le lezioni della mattina, mia madre mi veniva a prendere per portarmi al campo e consumavo il pranzo in macchina per ottimizzare i tempi. Dopo l’allenamento, c’erano i compiti da fare, la cena e poi mi fiondavo a letto. E il giorno dopo la storia si ripeteva. Non ho voluto mai abbandonare gli studi, ma ho dovuto cambiare istituto ed iscrivermi ad un insegnamento privato che meglio si adattava al mio ritmo di vita. Dopo il diploma, la mia vita si è concentrata totalmente sullo sport e da tennista sono sempre in viaggio, visito posti nuovi, spesso lontani da casa, dove alcune volte si è obbligati a stare anche se si ha perso una partita. Nella mia carriera ho attraversato anche dei momenti difficili nei quali sono arrivata a mollare tutto per un po’, alcune volte per scelta, altre per problemi fisici, ma non mi sono persa d’animo e ho trovato la forza di ricominciare. Ed ora eccomi qua!
Tuo padre è stato quindi la ragione principale del tuo incontro con questo sport che ora è principalmente la tua vita. Molti persone che stanno affrontando il cancro raccontano come la famiglia diventi il bunker dei sentimenti: non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il tumore come “malattia familiare”, coinvolgendo direttamente tutti i membri della propria famiglia. Non sempre però è facile convivere nel proprio nucleo familiare, perché questi sentimenti sono spesso coinvolti in maniera accentuata, a volte anche esasperata: la famiglia è senza dubbio un’enorme risorsa ma in certi momenti presenta anche alcune difficoltà relazionali, è una situazione che si può presentare in chi affronta il cancro. Nel tuo percorso sportivo, respirare tennis in casa è stato più un vantaggio o un soffocamento, una mancanza di libertà individuale nelle decisioni di crescita?
Premetto che mio padre ha giocato in serie A di basket nella Virtus Bologna, quindi è sempre stato uno sportivo all’ennesima potenza. In seguito, per ragioni di studio e di lavoro, nel suo tempo libero si è dedicato al tennis, arrivando ad essere un giocatore di seconda categoria. Lui mi ha caricato senza dubbio di responsabilità, positive ma anche di un certo peso per quanto riguarda la mia carriera. Io ho sempre cercato di calmare questo suo entusiasmo alcune volte eccessivo per avanzare passo dopo passo con la calma e lucidità che ritenevo necessarie. Però posso soltanto dire che la mia famiglia mi abbia sempre aiutato moltissimo, sia sotto il profilo emotivo per il quale sono il mio riferimento insostituibile, ma anche a livello economico, perché se si resta indietro nella classifica WTA non è facile riuscire ad essere un’atleta professionista. Devo ammettere che comunque in certi momenti fa bene ad entrambi mettere un po’ di distanza tra noi e, con la complicità della programmazione geografica di alcuni tornei, in certe gare è presente solo il mio allenatore.
Tu sei figlia unica?
No, ho un fratello più piccolo, sportivo anche lui. Ha giocato nella squadra di calcio del Bologna per diversi anni. Dopo aver lasciato l’attività agonistica, si è concentrato maggiormente sugli studi e sulla musica. Un percorso ammirevole.
Chi si trova a fare terapie contro il cancro va incontro a percorsi molto lunghi; con la difficile sopportazione degli effetti collaterali delle terapie in certi giorni si viene toccati dalla tentazione di mollare tutto, nonostante dati alla mano di AIOM, in Italia il 70% di chi si sottopone alle terapie convenzionali del cancro raggiunga la sopravvivenza. Tu prima mi hai confessato che c’è stato un momento della tua vita nel quale hai deciso di mollare il tuo percorso sportivo: cosa ti ha spinto a tornar sui tuoi passi e riprendere il percorso che avevi intrapreso fin da bambina?
Quando questo pensiero si è palesato, e successivamente concretizzato, mi sono sempre detta che non avrei mai voluto buttare via anni di sacrifici e di sfide. Mollando, tutti i miei sforzi sarebbero improvvisamente diventati ufficialmente inutili. Certo alcune volte ci sono giornate totalmente storte, in cui gioco malissimo e perdo. Allora vado a coricarmi e il giorno dopo sono in campo e gioco otto ore di fila, allenandomi senza sosta per il torneo successivo. Ecco, questa è la mia reazione: dopo un piccolo fallimento, io mi sveglio e sono caricata come non mai. Oggi ho maggiore fiducia e sicurezza in me stessa e nei miei mezzi, sto lavorando per il mio obiettivo e non voglio arrestare questo processo per nessun motivo.
Però hai dovuto conoscere la sensazione di doverti poi fermare per un infortunio: come hai affrontato emotivamente l’accettazione di una situazione limitante e immeritata in un momento nel quale stavi facendo progetti diversi per la tua vita?
All’epoca ero circa 1000 del mondo e, allenandomi duramente con mio padre e con un altro allenatore, ero riuscita a scalare la classifica fino a raggiungere circa la 460. Durante una finale in Marocco però, mi sono infortunata appoggiando male il piede in una scivolata, rompendomi crociato e cartilagine. Devo essere sincera: all’inizio non pensavo fosse una cosa molto grave, non pensavo di dover affrontare un intervento. Certo, quando sono tornata in Italia avevo il ginocchio gonfio, avevo molto male, ma ero anche molto tranquilla. Quando il medico mi visitò e mi annunciò che era necessario un intervento, io mi misi a piangere, perché vedevo tutti i miei sforzi, i punti, i tornei, svanire improvvisamente. Tra l’altro, inizialmente io dovevo essere operata solo al crociato ma, durante l’operazione, il chirurgo notò un buco nella cartilagine. Dopo l’operazione, mi annunciarono un periodo di riabilitazione più lungo del previsto. Personalmente, non avevo mai accantonato la speranza di tornare in campo. E dopo cinque mesi il chirurgo, guardando la mia risonanza, parlò di vero e proprio miracolo. E da lì mi ripresi tutto, passo dopo passo.
C’è qualcosa di positivo che l’esperienza dello stop forzato ti ha lasciato?
Sicuramente una maturità a livello mentale: non avevo ancora compiuto 23 anni. Oggi, in campo, io mi sento carica di una grande esperienza, vuoi per l’operazione, vuoi per molte altre cose che mi sono capitate. Chiuso un anno, se ne riapre un altro e lo si affronta con ancor maggiore entusiasmo. Quell’infortunio mi ha lasciato qualcosa di estremamente positivo, nonostante le emozioni profondamente destabilizzanti che ho conosciuto mentre lo affrontavo.
Alcune volte le persone che affrontano un tumore raccontano di vederlo come un avversario impossibile, che condiziona pesantemente ogni azione che prima era abituale, come ad esempio allontanarsi da casa. Nel tuo ambito sportivo, hai mai visto il tuo gioco influenzato dalla caratura dell’avversario dall’altra parte della rete?
Nel tennis vi sono moltissimi fattori e quello psicologico è determinante, a maggior ragione secondo me in ambito femminile. Di fronte a sfide che paiono come impossibili, io entro in campo con ancora più forza, accompagnata anche da grande serenità, perché so che posso concentrarmi su me stessa, cercare di fare il mio meglio possibile da offrire come opposizione al mio avversario. In questo modo la mia maniera di giocare non ne risente, perché la tensione potrebbe modificare pesantemente il gesto tecnico ed è un nemico da tenere lontano. Più sciolto scendi in campo e migliore sarà l’esecuzione dei gesti tecnici. Solitamente, quando mi trovo contro un avversario difficile, mi sento invasa di pensieri positivi, perché in qualche modo sono chiamata a fare l’appello di tutte le mie doti per giocarmi la sfida. Io ho giocato anche contro Eléni Daniilídou, tennista greca top 15 al mondo in passato, battendola 6-3 6-4 in un torneo in Sardegna. Perché se ci pensi non puoi lavorare sul nome del tuo avversario, ma sulle tue doti da opporgli sì. Quella è la sfida, ed è da lì che puoi costruire la partenza del percorso della tua vittoria.
Grazie Stefania, da oggi sei un’atleta al fianco di chi combatte contro il cancro, attraverso le tue parole ma anche con tutto il tuo vissuto. Ogni volta che scenderai in campo, nelle tue sfide sportive, rappresenterai anche chi sta affrontando un avversario forte e insidioso ma battibile: la tua carica agonistica sarà fonte di ispirazione ed esempio per chi avrà letto e amato questa tua testimonianza.