Atleti al tuo fianco: Stefano Lucchini

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Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa sfida Stefano Lucchini, calciatore in serie A con le maglie di Empoli, Atalanta, Sampdoria e Cesena che quest’anno ha chiusto la sua carriera alla Cremonese.

Ciao Stefano, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”. Oggi parleremo di calcio e della tua carriera agonistica in un modo diverso dal solito, sfruttando le situazioni che nascono nello sport per parlare della quotidianità delle persone che stanno affrontando un tumore. L’obiettivo è trasformare il cancro da tema medico-clinico ad argomento sociale, di cui parlare serenamente per approfondire la conoscenza delle situazioni quotidiane che incontra chi lo sta affrontando. Per avvicinarci a questo obiettivo, prima di tutto raccontaci qualcosa di te come presentazione, senza però mai parlare di calcio: chi è Stefano Lucchini quando è fuori dal campo?

Ciao a tutti, io mi chiamo Stefano Lucchini, se devo pensare a quel che sono fuori dai campi di calcio, sicuramente partirei dicendo che ho una famiglia, con Elena mia moglie e Matteo mio figlio; senza dubbio gran parte del mio tempo libero è condiviso con loro, ogni volta che posso seguo Matteo nelle sue passioni che sono il calcio e il tennis. Nelle attività extra calcistiche, ci tengo molto a raccontare che dal 2011 ho un’associazione di volontariato che si chiama “Il volo degli angeli”, fondata con una mamma del mio paese che ha un figlio con una malattia metabolica rarissima, l’encefalopatia etilmalonica. L’intento con cui siamo nati era aiutare i bambini, i disabili e gli anziani sul territorio lodigiano; poi passo dopo passo la nostra finalità è diventata più mirata alle donazioni per gli ospedali, soprattutto di pediatria e terapia intensiva. Questa associazione per me è una grande soddisfazione, perché ti fa rendere conto che completando dei progetti, con la collaborazione di moltissimi amici e colleghi, puoi essere d’aiuto per persone che nella vita sono state meno fortunate e che in questo modo possono trovare forza e risorse dalla vicinanza concreta che riusciamo ad esprimere.

La forza per affrontare una malattia, come stai giustamente dicendo tu, non è solo data dalle condizioni del corpo: davanti a una diagnosi di tumore, la sensazione di non avere la forza emotiva per contrastare l’avversario e vincere una sfida simile è spesso presente. È fondamentale acquisire consapevolezza della propria forza per affrontare il percorso opponendosi al tentativo di annullamento di identità che il cancro cerca di operare. Lavorare sulle proprie doti individuali è quindi un passaggio determinante, perché esse devono diventare la risorsa primaria. Quanto è stato importante per te quando eri un ragazzino accorgerti che si poteva diventare dei grandi calciatori anche se non si era i goleador della propria squadra ma si avevano altre doti personali da valorizzare, ma meno immediate da apprezzare come quelle di un difensore? C’è stato un momento in cui la consapevolezza delle tue doti individuali è diventata il tuo punto di forza?

Guarda, ti faccio un esempio vissuto nel settore giovanile: all’inizio nei giovanissimi-allievi ero centrocampista, poi arrivò un ragazzo che giocava nel mio stesso ruolo e vissi con lui una competizione per trovare spazio in campo; per giocare venni arretrato a terzino con delle grosse difficoltà iniziali. Avevo circa 14 anni e mi accorgevo di non rendere quanto avrei potuto, ed ero in enorme difficoltà emotiva, avevo la sensazione che la mia strada non avrebbe avuto alcuno sbocco; in realtà alla fine di quell’anno così tribolato venni riconfermato dalla società, contro ogni mia aspettativa. Da lì capii che era stata apprezzata la mia capacità di rendere in allenamento e di impegnarmi molto nonostante le avversità del ruolo e mi convinsi che, visto quanto avevo saputo resistere in un anno intero di intoppi e impedimenti, avrei potuto puntare sull’impegno, sulla perseveranza e sulla resistenza per diventare calciatore. Oltretutto quelle stesse difficoltà mi avevano reso piano piano più uomo, mi avevano migliorato: è stato anche grazie a loro che ho potuto poi raggiungere il mio obiettivo, ovvero di una carriera da calciatore nel ruolo di difensore che non avrei certo previsto all’inizio.

Credere che la guarigione sia un obiettivo impossibile è un pensiero che sfiora la mente di chi riceve una diagnosi iniziale severa; tuttavia la riduzione della probabilità di guarigione non è sinonimo di impossibilità di guarigione. Ti è mai capitato di raggiungere obiettivi sportivi che, se fossero stati pronosticati ad inizio stagione, ti sarebbero apparsi come impossibili?

Ci sono state due stagioni nella mia carriera nelle quali abbiamo raggiunto dei traguardi che erano decisamente superiori alle aspettative iniziali: con l’Empoli un anno ci qualificammo per l’Europa League mentre nel 2009-’10 con la Sampdoria arrivammo quarti in campionato e disputammo i preliminari di Champions League. In entrambi i casi all’inizio non avremmo certo pensato di poter concretizzare risultati del genere; poi però passo dopo passo ci siamo accorti che, mentre avvivinavamo il traguardo, diventavano ogni giorno obiettivi più raggiungibili. Quando poi stai bene nella testa, e ti rendi conto che quello che ti sembrava impossibile in realtà è un traguardo difficile ma concretizzabile, allora sei davvero pronto per raggiungere quell’obiettivo, anche ribaltando partite nelle quali ti trovi inizialmente in svantaggio. Il tuo corpo, se la testa sta bene, dà quel qualcosa in più per raggiungere obiettivi che inizialmente ti apparivano come fuori portata.

Affrontare il cancro significa anche fronteggiare una lotta costante tra rinunce e opportunità: tutte le proprie attività, mansioni e passioni vengono messe in discussione e, se l’obiettivo è riuscire a compiere quello che le condizioni fisiche concedono, alcune volte è obbligatorio accettare di dover rinunciare a cose ambite ed amate. Nel preliminare di Champions League contro il Werder Brema con la Sampdoria, hai dovuto saltare per squalifica la decisiva gara di ritorno: quanto è stato difficile per te osservare da fuori una sfida che non ti è stata data possibilità di giocare?

Parto dalla sfida di andata, a Brema: la gara iniziò anche bene, ma dopo aver preso un gol nella ripresa, l’arbitro fischiò un rigore molto fiscale a mio sfavore, assegnandomi pure la seconda ammonizione e conseguente espulsione. Questo episodio mi segnò tantissimo dentro perché quella gara finì 3-1 per i nostri avversari e mi sentivo in qualche modo responsabile per avere quasi compromesso le possibilità di raggiungimento dei gironi di Champions League. Tutta la settimana mi allenai con la sensazione che la squadra potesse scrivere un’impresa storica, perché li vedevo tutti ben orientati, anche se dentro di me stavo male per non poter scendere in campo. I miei compagni giocarono la partita perfetta fino a due minuti dalla fine, quando dopo due gol di Pazzini e uno di Cassano il Werder Brema segnò una rete portando la gara ai supplementari. Lì è stato il momento per me più difficile, perché avrei voluto essere in campo con l’esperienza dei miei trent’anni per aiutare i ragazzi a reagire. Invece poi prendemmo il secondo gol e passarono i tedeschi. Il rammarico più grande non è stato tanto pensare che se io fossi stato in campo sarebbe cambiato l’esito, di questo non sono sicuro; ciò che mi ha causato più difficoltà è stato non poter dare il mio contributo ai miei compagni, non mettere a loro disposizione la mia età e la mia esperienza: questo mi ha fatto male.

Mantenere un equilibrio emotivo non è facile ma è molto importante, non solo nella difesa dal pessimismo ma anche quando arrivano segnali clinici positivi: la sfida è sempre lunga e ci possono essere passi indietro e passi avanti, bisogna difendersi anche dai contraccolpi emotivi dopo i primi progressi. La stagione in cui la Samp arrivò ad un passo dalla Champions League, si concluse addirittura con una retrocessione in serie B: quanto influì in questo non aver saputo reagire al contraccolpo dell’eliminazione??

A dire la verità, quella stagione poi iniziò anche bene: andammo comunque in Europa League e in campionato non si andava male; poi però a fine girone di andata accaddero alcuni episodi che cambiarono gli equilibri della squadra: Pazzini venne ceduto, Cassano ebbe un litigio con il nostro presidente e venne escluso dalla rosa, arrivarono alcune sconfitte inaspettate. Noi nella nostra testa ci reputavamo comunque più forti rispetto a quel che stava succedendo, eravamo convinti di poterne uscire da un momento all’altro: per la svolta era sufficiente una partita, ma quella vittoria non arrivava mai. Non ci era rotto nulla fra noi giocatori, si era semplicemente persa la capacità di rendere concreto un obiettivo che pareva alla portata. Sarebbe stato molto importante riunire meglio le idee, mantenere le menti molto più pronte alla concretizzazione: forse anche per la stanchezza dovuta alle tante partite giocate, compreso il preliminare perso, ma ciò che ha influito in maniera determinante è stata proprio la perdita di questa lucidità nel momento decisivo della stagione.

In alcuni momenti della vita, il mantenimento della lucidità mentale è in effetti fondamentale per raggiungere obiettivi. Nella somma delle difficoltà che una malattia come il cancro presenta, alcune persone raccontano di come abbia anche presentato l’opportunità di trovare pace interiore sistemando alcuni rapporti personali che si erano guastati, spesso in legami familiari vicini. Quest’anno tu hai posto fine alla tua carriera agonistica da calciatore: quanto è stato importante per te poterlo fare contribuento alla promozione in serie B della Cremonese, squadra che ti ha cresciuto ma che avevi lasciato ad inizio carriera dopo due retrocessioni consecutive nelle serie C1 e C2, chiudendo così positivamente un cerchio che era rimasto in sospeso?

In realtà devo dire che l’anno in cui dalla serie B retrocedemmo in serie C1, io esordii come giovane della primavera nelle partite in cui la squadra era già retrocessa. La stagione successiva invece raccolsi 31 presenze e per un giovane come me era un traguardo importante, anche se contemporaneamente per la squadra arrivò una ulteriore retrocessione decisamente inaspettata. La Cremonese aveva problemi societari sotto il profilo economico e la mia cessione di allora contribuì a rimpinguare le casse della società; però mi ricordo che già allora promisi che un giorno sarei tornato per restituire il dovuto alla società che mi aveva cresciuto come calciatore e come uomo. Essere ritornato quest’anno e aver contribuito alla promozione in serie B, seppur con qualche problema fisico durante la stagione, è stato esattamente la chiusura di un cerchio aperto molti anni fa che mi rende felice. Avrei un altro anno di contratto in questo momento con la Cremonese, ma ho preferito dire basta ora con il calcio giocato proprio perché sono riuscito a rendere reale la mia gratitudine attraverso un risultato raggiunto sul campo, ripagando società, tifosi e città per avermi cresciuto sotto ogni profilo. Di questo sono molto felice.

Grazie Stefano per la tua testimonianza, hai accettato di metterti a nudo con noi nei tuoi successi, nelle tue difficoltà ma, soprattutto, nelle tue emozioni. Come già sei un fantastico testimonial del Volo degli angeli, da oggi sei anche un atleta al fianco di chi sta combattendo contro un tumore: la tua forza e la tua esperienza saranno un aiuto concreto per chi vuole raggiungere un traguardo fondamentale, sia che arrivi nei tempi regolamentari, sia che possano servire anche quelli supplementari. Con te al fianco, si sentiranno più forti.

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