La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Con l’intervista che segue, curata da Stefano Rinaudo, studente di Medicina e Chirurgia e collaboratore di Atleti al tuo fianco, si propone un approccio all’iniziativa diverso dal solito, incontrando e intervistando Stefano Morandi, professore e maestro di tennis, che ha vissuto sulla sua pelle la realtà della malattia oncologica con una diagnosi di Linfoma Non-Hodgkin IV stadio di tipo B.
Ciao Stefano, la prima domanda che ti faccio è una domanda introduttiva fondamentale: presentati al lettore di questa intervista partendo dal presupposto che lui non sappia nulla di te. Raccontati attraverso le cose che ritieni sia indispensabili sapere su di te per conoscerti meglio.
Ciao a tutti, mi chiamo Stefano Morandi e di mattino lavoro come insegnante di italiano e latino in un liceo, mentre di pomeriggio sono impegnato come maestro di tennis. Queste sono le due passioni che ho sempre portato avanti parallelamente nella mia vita, e che considero complementari.
Tu hai vissuto sulla tua pelle la realtà della malattia oncologica, ed in quel momento ti sei trovato, da maestro ed insegnante che eri, a dover vestire i panni dell’alunno, cioè a doverti fidare della competenza di un altro professionista che ti trovavi di fronte, esperto in una materia che tu non padroneggiavi come le altre con le quali eri sempre stato in contatto. Come hai vissuto questo cambiamento di ruolo?
Devo dire che, fin dall’inizio, ho vissuto in modo molto sereno il percorso terapeutico, però, senz’altro, questa inversione di ruoli ha creato in me inizialmente un po’ di smarrimento. Mi trovavo all’improvviso a farmi gestire le giornate e gli impegni settimanali da altre persone, mentre fino a quel momento ero sempre stato io a gestire il mio tempo. L’oncologia è una disciplina molto complessa, per cui è fondamentale affidarsi a chi detiene questo tipo di sapere medico e seguire le loro indicazioni. L’esperienza sui campi da tennis mi ha insegnato che, quando un atleta segue con precisione gli insegnamenti del maestro, i risultati positivi arrivano con più facilità: partire da questa consapevolezza ha senz’altro facilitato la mia disponibilità ad accettare l’aiuto di altre persone.
Quando un paziente riceve una diagnosi di cancro scopre una fragilità che prima non conosceva, ed è fondamentale che la persona in questione non si trovi ad affrontare questa nuova dimensione in solitudine, ma che al contrario possa contare sulla vicinanza della famiglia, degli amici e di uno staff medico valido anche dal punto di vista umano. Da questo punto di vista la metafora dello sport è calzante: quando un atleta affronta una gara non è mai da solo, ma al contrario è sostenuto da compagni, allenatori, tifosi, staff tecnico e sanitario. Tu, nella doppia veste di sportivo e paziente oncologico, come hai vissuto questa dimensione della malattia?
Un concetto che mi sta molto a cuore e che mi accompagna nei vari contesti della mia vita è quello del fare rete: la relazione con le altre persone mi ha permesso mi farmi trovare un passo avanti rispetto alla malattia e, analogamente, mi permette tutti i giorni di dare il meglio tra i muri della scuola come tra quelli del palazzetto in cui alleno i miei ragazzi. Oggi la ricerca in ambito oncologico ha fatto passi da gigante rispetto ad alcuni anni fa, ma bisogna comunque tenere a mente che la percentuale di guariti, quando si parla di queste malattie, è ancora molto lontana dal 100%, per cui, purtroppo, nell’orizzonte di chi affronta un percorso di cura analogo a quello che ho affrontato io esiste la possibilità di morire. Dal mio punto di vista però, questo creare relazioni, questo sapersi far aiutare, ci fa trovare vivi e vitali di fronte la malattia, e fa sì che noi possiamo definirci vincitori di fronte alla patologia, anche qualora quest’ultima riuscisse a determinare la nostra stessa morte. Nel mio percorso terapeutico ho potuto contare su uno staff medico eccezionale, sulla possibilità, qualora lo avessi desiderato, di poter effettuare dei colloqui con uno psicologo, su persone disponibili a rispondere a tutte le mie domande, e poi ovviamente sul supporto insostituibile di famiglia e amici.
La vita di un paziente oncologico è costellata di visite, interventi, esami e terapie talvolta anche fisicamente impegnative, che portano nella vita della persona interessata un carico di tensione e ansia di non facile gestione. Per certi versi, con le dovute proporzioni, questi appuntamenti possono essere paragonati a quelli che uno sportivo deve affrontare nel momento in cui disputa una gara. Il tuo essere stato, prima che paziente, un atleta, ti ha aiutato in questa gestione della tensione?
Senza dubbio! Non esito a dire che in questo caso lo sport mi ha salvato la vita! L’essere abituato a gestire la tensione, l’ansia pre-gara, così come la famosa notte prima di un appuntamento sportivo particolarmente importante, si è rivelato fondamentale nel momento in cui mi sono dovuto confrontare con tutta la trafila di visite, esami strumentali, biopsie, interventi chirurgici ecc…Ovviamente la posta in gioco era ben diversa, ma l’approccio umano resta il medesimo. Fondamentale poi, anche in questo caso, è stato il confrontarmi con le altre persone che, come me, stavano affrontando la malattia: come avviene nello sport infatti, durante queste conversazioni non mancavano gli scambi di suggerimenti e di veri e propri trucchetti riguardo a come far fronte a questo o a quell’effetto collaterale. Oltre a ciò, il praticare sport prima e, nei limiti del possibile, durante la terapia, mi ha permesso di sentirmi vivo e non privato del mio essere me stesso fino in fondo, e questo è stato fondamentale!
In questo periodo storico, ci stiamo confrontando con la conoscenza di una situazione molto conosciuta in oncologia: l’isolamento protettivo. Difendere la probabilità di sopravvivere è una situazione che la nostra mente non è allenata ad incontrare, finendo così per subirne più l’aspetto della limitazione forzata che priva della libertà abituale. Come vivi tu questa nuova forma di isolamento nella tua vita, questa volta dovuta all’emergenza coronavirus: quanto hai affrontato in passato ti aiuta a patire meno la privazione della libertà o riemergono emozioni inquiete che speravi di non incontrare più nella tua vita?
Nella mia esperienza oncologica l’isolamento protettivo è stato parte integrante della terapia. Essere immunodepresso è stato uno dei tanti step del percorso di guarigione. All’inizio è stato disarmante: indossare la mascherina e i guanti abitualmente come prassi fra le mura domestiche, io mia moglie e mio figlio, non avere contatti con i miei genitori, con amici e parenti non è stato semplice, siamo dovuti passare tutti attraverso il passaggio dell’accettazione come necessità. Penso che mi abbiano aiutato due cose: da una parte avere un figlio piccolo mi ha spinto ad usare guanti e mascherine quasi come un gioco per non spaventarlo; dall’altra la pratica sportiva spesso comporta accettare sacrifici per un fine più alto. Devo dire che questo mio vissuto oggi mi ha aiutato ad accettare con serenità e pazienza questo forzato isolamento causato dal Covid-19. Certo non mancano attimi di sconforto, talvolta emergono ricordi di periodi che avrei preferito non rivivere, neanche col pensiero. Ma è vero che la mia esperienza di paziente oggi in remissione mi porta a aver elaborato che certi passaggi sono necessari per il fine superiore della guarigione e a guardare a questo isolamento con ottimismo e sempre con il sorriso. Perché il sorriso è compagno di viaggio indispensabile in qualsiasi percorso umano e medicale.
Ultima domanda: c’è qualcosa, di quello che hai imparato e fatto tuo nel corso del tuo percorso di cura, che oggi tieni in modo particolare a trasmettere ai tuoi allievi, indipendentemente che siano sui banchi di scuola o sui campi da tennis, perché importante come insegnamento di vita?
Guardandomi indietro oggi riconosco che, prima della malattia, ero molto focalizzato sul concetto di vittoria, di voto, di risultato. Con la malattia, e con il percorso che ne è conseguito, ho imparato che non si può ridurre tutto al risultato: alcune battaglie necessariamente si perdono, perché intervengono varianti che non sono completamente sotto al nostro controllo, ma è fondamentale considerare il lavoro che ha preceduto quella battaglia. Oggi, come professore, insegno ai miei alunni che una verifica può andare male, ma essa non mette in dubbio il valore di un ragazzo che si è sempre impegnato ed è abituato a dare il massimo. Lo stesso discorso vale sui campi da tennis: guai a ridurre la passione, il sudore e la fatica di mesi interi ad un semplice numero su un tabellone!