Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa sfida Tathiana Garbin, ex tennista e attuale capitano della Nazionale Italiana in Fed Cup.
Ciao Tathiana, benvenuta nel progetto Atleti al tuo fianco. Oggi la tua esperienza sportiva e tecnica scoprirà la nuova potenzialità di mettersi al servizio per parlare della quotidianità delle persone che stanno affrontando un tumore. Per avvicinarci a questo obiettivo, è necessario prima che tu ti presenti ai lettori e destinatari della nostra iniziativa, raccontandoci chi sei ma, soprattutto, chi sei grazie al tennis.
Mi chiamo Tathiana Garbin e mi piace definirmi una ragazza cresciuta, trovandomi oggi donna, grazie a valori importanti che il tennis mi ha trasmesso, aiutandomi a conoscermi meglio e lavorando sui miei limiti. Amo le sfide per natura, quando di fronte a me si presenta una difficoltà, ne intravedo l’aspetto di sfida: quando ci troviamo davanti ostacoli, credo che esista un modo per superarli, anche se magari serve molto tempo e grande lavoro. Senza dubbio, il tennis è stato determinante nella formazione di questa mia propensione, soprattutto insegnandomi che è fondamentale essere prima di tutto pronti mentalmente sotto il profilo del confronto con gli ostacoli e con i propri limiti, che possono entrambi essere superati.
In oncologia la prima difficoltà si ha nel delicatissimo momento della ricezione della diagnosi. Anche se la sopravvivenza in Italia raggiunge circa il 70%, dati AIOM, la diagnosi di cancro è sempre uno choc che spesso porta a pensare di dover affrontare un avversario invincibile. Solo in una fase di riorganizzazione mentale acquisisci la lucidità che ti porta a capire di avere strumenti per potercela fare. In un ambito prettamente sportivo, cosa ti ha aiutato dentro di te ad affrontare avversari che sulla carta parevano imbattibili?
Io nel 2004 mi sono trovata al Roland Garros, torneo parigino del Grande Slam, ad affrontare la numero 1 del mondo e campionessa in carica Justin Henin. Quando ho visto che il tabellone al secondo turno mi obbligava a questa sfida, devo essere sincera ho pensato che sarebbe stata una partita difficilissima. Invece non solo riuscii a battere la mia avversaria,ma in quell’occasione io ho coronato il sogno di guadagnarmi la partecipazione alle Olimpiadi di Atene. Bisogna crederci sempre e capire che sì, noi incontriamo molte difficoltà nella nostra vita, ma abbiamo la forza per poterle superare: sembrano parole ma poi è la realtà che ci obbliga a giocare la sfida per concretizzare il tutto. In alcuni casi la forza può giungere dalla fede, dall’affidamento a qualcosa di superiore a noi; però serve anche capire che il percorso è anche dentro di noi, bisogna dare fondo a tutte le nostre energie perché più scavi dentro di te, più trovi risorse per affrontare qualsiasi difficoltà.
Scavandosi dentro, si scoprono emozioni che non si pensava di possedere. Ad esempio, molti pazienti provano un fondo latente di rabbia nei confronti della vita che li ha obbligati ad incontrare il cancro. Come hai saputo gestire nella tua carriera sportiva le situazioni inopinate che ti hanno fatto conoscere dentro di te la capacità di generare grandi quantità di rabbia?
Innanzitutto, credo che sia necessario partire dall’accettazione delle emozioni. Ci sono cose che possono essere controllate, e si chiamano azioni; le emozioni, sono parte di noi, non le possiamo negare. Alcune volte nel tennis possono esserci delle situazioni di minimo valore che, se avvengono in un momento di tensione molto elevata, possono generare una quantità di rabbia potenzialmente pericolosa per la direzione della sfida. Ci sono delle cause esterne di questo, non dipendenti dalla nostra volontà, che non bisogna contrastare ma, al contrario, accettare per quello che sono. E lo stesso vale per quanto riguarda le emozioni, che sono delle cause interne. Al giorno d’oggi c’è una volontà di nascondere le emozioni, ma nella mia carriera da tennista e allenatrice, mi ha aiutato molto accettare questa vita interiore; di conseguenza cerco di trasmettere l’accettazione di queste sensazioni e queste paure anche alle mie allieve, anche quando sono una richiesta d’aiuto. Dire “me la sto facendo sotto” per me è il sintomo di una persona forte. Spesso si identifica la richiesta di aiuto come una grande debolezza ed invece secondo me non è affatto così.
Per definizione medica, il tumore è una malattia familiare poiché non riguarda solo chi riceve la diagnosi ma tutto il nucleo della famiglia viene coinvolto. Le emozioni vengono quindi condivise spesso nella coppia, tra chi riceve la diagnosi e chi supporta a fianco. Nella tua carriera da doppista, quanto è stato importante poterti appoggiare alle solidità della tua compagna nei momenti difficili e, al tempo stesso, offrirle la tua solidità nei suoi momenti di difficoltà?
Si tratta di qualcosa che ho notato ancora di più quando ho smesso di giocare e ho rivestito un altro ruolo totalmente diverso da quello di protagonista in campo. Offrire il proprio sostegno a qualcuno è la cosa più bella che si possa fare perché si dona, certo, ma in realtà si riceve moltissimo; questo il tennis me l’ha insegnato molto bene. Condividere le proprie emozioni con qualcun altro, offrire aiuto quando il tuo compagno è in difficoltà, è un atto di bene che diventa investimento, perché ti viene restituito un punto di riferimento più forte per le tue difficoltà. Anche da allenatrice è bellissimo poiché lì capisci il giocatore, perché sai cosa sta attraversando e puoi intervenire aiutandolo; ma proprio questa cosa poi aiuta te, allenatore, nel capire ancora di più te stesso: è una situazione che ti arricchisce moltissimo. Siamo in continua esplorazione interiore, poggiare su qualcuno e offrire a qualcuno il nostro supporto è un’esperienza straordinaria, nello sport e nella vita.
In questo senso, spesso chi vive a fianco di chi è ammalato vorrebbe farsi carico di una parte delle sofferenze per alleviare il peso a chi affronta il tumore in prima persona. Ti capita mai di voler essere in campo al posto delle tue ragazze in Fed Cup per evitare loro le difficoltà sportive di certi momenti carichi di tensione, aiutandole con la tua esperienza?
No, sinceramente credo di aver vissuto bene la transizione da giocatrice ad allenatrice, e in questo caso, molto diverso rispetto alla malattia, quella difficoltà è un momento di crescita. È così anche per la nostra squadra di Fed Cup: siamo in una fase di transizione e l’evoluzione è possibile solo grazie al lavoro, affrontando anche le difficoltà sul campo. Credo che il mio contributo “da seduta” sia fondamentale per la crescita del gruppo ma a patto di crescere insieme come squadra. Questo sport non ti dà molte occasioni di crescere come equipe e proprio per questo motivo la Fed Cup è un momento importante che accumuna e che offre molto. Ritengo che già in passato io e altre giocatrici abbiamo giovato degli impegni in Fed Cup, crescendo così molto anche per le sfide individuali. Per tutte queste motivazioni sono molto felice ed onorata di essere stata incaricata di questo ruolo, perfettamente consapevole che si tratti di una grandissima sfida ma è una scommessa che mi piace e che affronto quotidianamente con grande energia.
Grazie Tathiana per averci permesso di fare questo viaggio nella tua predisposizione alle sfide. Le tue parole creeranno nuovi stimoli in chi legge; tu rappresenterai questo progetto e con esso molte persone che come te sanno che devono affrontare una sfida nel modo migliore possibile per vincerla. Atleti al tuo fianco siederà con te ogni volta che ti accomoderai sulla panchina della Nazionale Italiana in Fed Cup, saremo tutti orgogliosi di questo.