Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della propria carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Veronica Madia, trequarti del Rugby Colorno e della Nazionale Italiana.
Veronica, con Atleti al tuo fianco il rugby diventa strumento per approfondire le emozioni della vita quotidiana con un tumore. La prima domanda è del tutto preliminare, ti dà modo di presentarti raccontandoci le cose che ritieni sia necessario sapere di te per dire di conoscere un po’ meglio Veronica Madia.
Sono Veronica Madia, sono nata nel 1995, a gennaio compirò 26 anni. Nella vita ho iniziato a lavorare in una casa di riposo, proprio quella in cui in piena emergenza covid-19 ad aprile ho potuto distribuire le mascherine che avete donato con Atleti al tuo fianco e Arenbì Onlus. A breve, entrerò a far parte di un nuovo progetto di lavoro, sempre legato al mondo del sociale ed educativo. Gioco a rugby da quando ho 7 anni e ho sempre giocato a Colorno, sono cresciuta lì e da 5 anni faccio parte della Nazionale Italiana: questa è la mia più grande passione e la mia valvola di sfogo.
Entriamo nella tematica oncologica, prendendo spunto da questa tua presentazione. Un tumore sul piano clinico cerca di sottrarre la salute e la vita, ma si intuisce meno quanto tenti di annullare l’identità di una persona. Fa di tutto infatti per sottrarre le certezze nelle quali ci si è sempre identificati: cambia il corpo, fa provare emozioni mai sentite prima, muta le relazioni, altera i sapori e tante altre situazioni, che non rispondono più alle solite certezza. Bisogna lavorare molto per aiutare le persone a mantenere salda e riconoscibile la propria identità attaccata dal cancro. Tu a sette anni praticavi già il rugby: quanto in questa scelta c’è una manifestazione già nell’infanzia della tua identità?
Io ho iniziato a giocare a rugby all’età di sette anni perché durante le lezioni di educazione fisica a scuola sono venuti a presentarcelo e da lì mi sono da subito innamorata. È sicuramente stato un ambiente, sin da piccola, dove per lo più c’erano maschi, però questa forse è stata la cosa che mi è piaciuta di più, perché mi sono sempre trovata anche poi crescendo molto più in sintonia con gli uomini piuttosto che con le donne. Sicuramente non è stato facile farlo accettare in famiglia, c’è voluto del tempo perché si abituassero a questa mia idea. C’è stato anche un periodo nel quale per la mia età non c’era una collocazione per giocare, così ho fatto anche calcio e danza, un po’ seguendo le inclinazioni dei miei genitori. Quando avevo 15 anni però è nata la squadra che mi ha permesso di riprendere con la palla ovale, mia vera passione. Penso che il rugby abbia dei solidi principi, è uno stile di vita, con tanto rispetto ed è uno sport che ti crea una seconda famiglia con tanto, tanto sostegno. In realtà è un po’ quello che faccio anche nel mio lavoro, quello che cerco sempre di fare, aiutare e sostenere altre persone col massimo rispetto: io sto bene quando aiuto gli altri, in campo fondamentalmente faccio la stessa cosa. A maggior ragione nel mio ruolo di capitano, ho quella responsabilità in più che penso e spero di mettere in pratica tutte le volte che mi alleno con le mie compagne.
Parliamo di prevenzione. Con l’avanzare dell’età è importante seguire i programmi di screening di mammografia per il tumore al seno, ricerca del sangue occulto nelle feci per il cancro del colon-retto e il pap-test per il carcinoma del collo dell’utero. Tuttavia non è sempre facile affrontare un test da sani, perché si è abituati a pensare al corpo non come un elemento da preservare anche nella salute, ma più uno strumento da curare solo quando dia dei segni di malattia. Alcune persone evitano di sottoporsi agli esami di screening per paura di una cattiva notizia, ma l’esame mette in luce solo ciò che è presente e in oncologia rilevare la presenza di un tumore precocemente può salvare sia la vita, sia la qualità della stessa nel corso delle terapie. Nel rugby, ti capita mai di evitare un contatto fisico per prevenzione, perché temi la botta e il danno che potrebbe generarti?
La prevenzione esiste nel rugby come un po’ in tutti gli sport, perché comunque ti alleni, fai determinati esercizi proprio per prevenire problemi a livello muscolare e anche il colpo in campo, se tu fisicamente stai bene, sicuramente andrai ad accusare molto meno il colpo che riceverai. Sicuramente c’è sempre anche un aspetto psicologico che va allenato e in questo sport fin da quando sei bambina ti dicono che ti capiterà di cadere, di prendere dei colpi ma ti dovrai rialzare. Per tutti gli 80 minuti, qualsiasi cosa succeda, ti devi alzare e devi tornare a giocare perché c’è qualcuno che ha bisogno di te in campo. È un po’ una filosofia di vita in cui qualunque cosa succeda bisogna rialzarsi, in questo modo sai che devi affrontare anche i colpi per arrivare con le tue compagne agli obiettivi.
Esiste una condizione diffusa ma poco conosciuta in oncologia che si chiama “fatigue”. Si tratta di una situazione che colpisce non solo le persone in terapia, ma anche quelle in fase di remissione, che comporta una stanchezza pesantissima fisica ed emotiva. Ogni minimo sforzo è spossante e perfino il pensiero risulta appannato e faticoso. È importante diffondere la conoscenza di questa condizione per evitare situazioni nelle quali persone in recupero clinico, si sentano in colpa o vengano addirittura colpevolizzate per non palesare alcuna energia né reazione. Nel rugby hai mai vissuto una condizione nella quale anche le più alte motivazioni mentali non erano sufficienti a far correre adeguatamente un corpo stremato?
Personalmente mi sono resa conto con gli anni che la testa fa tanto, ma ciò che conta più di tutti è il sostegno delle compagne. A livello psicologico se un errore ti butta giù, magari in quello stato emotivo ne fai un secondo e poi un terzo: non è facile perché bisogna essere bravi e allenati per cercare di controllare la mente. Un’ottima soluzione per questo è proprio il supporto delle mie compagne: come nella vita, le persone che si hanno a fianco fanno tanto, perché ti portano a scoprire che non sei sola. Lo stesso vale per te nei confronti delle altre: devi essere pronta a dare tutto per ogni tua singola compagna. In questo modo può succedere che le tue gambe in certi momenti siano completamente vuote e non vadano più, perché hai dato tutto: non è una vergogna. Però, personalmente, ho spesso scoperto quanto la testa riesca a comandarle anche quando loro non vorrebbero più correre e rincorrere: mi capitano entrambe le cose, ma quest’ultima sul campo è per me più frequente e dominante.
Una persona che vive una diagnosi di tumore sente tutto l’affetto intorno a sé e il desiderio che il suo percorso possa presto chiamarsi guarigione. È però importante aiutare il paziente a liberarsi dai sensi di colpa nei confronti di chi gli sta intorno quando, in un percorso che si riveli lungo e con momenti di peggioramento, si senta responsabile per non poter far gioire con lui le persone che gli vogliono bene. La guarigione è un obiettivo comune ma la responsabilità è nelle mani dell’equipe medico sanitaria, non in quelle del paziente, che si deve sentire alleggerito nella scoperta di quanta verità ci sia in questa affermazione. È una verità così potente da riuscire ad aiutare anche chi affronti un percorso terminale liberandolo da ogni eventuale senso di colpa per la sua condizione. Quando giochi con la maglia dell’Italia, riesci a provare un senso di orgoglio e appartenenza anche nelle sconfitte, liberandoti dal senso di colpa per una mancata vittoria?
Innanzitutto per me è sempre un onore indossare la maglia dell’Italia e non mi sono ancora abituata a questa cosa, anche se sono passati un po’ di anni dalla prima volta, l’emozione di scendere in campo è sempre la stessa. Quando si entra in campo ci si allena, si studiano la gara e le avversarie e si mette in conto che la partita potrà essere dura. Quello che ci diciamo sempre noi è di entrare in campo e dare il cento per cento, al di là di come andrà il risultato noi avremo vissuto quell’esperienza nel modo migliore possibile. Devo dire la verità, quando entriamo in campo non giochiamo tanto per chi ci guarda da casa o per chi ci segue sui social: noi giochiamo soprattutto per noi stesse, per noi 23 ragazze. Noi siamo ragazze che lavorano, studiano, fanno tanti sacrifici per raggiungere questo obiettivo che non è nemmeno un lavoro, essendo il rugby femminile uno sport non professionistico. Noi viviamo prima di tutto il percorso, la gioia per un traguardo che riguarda noi stesse prioritariamente, ancor prima del risultato. Sicuramente poi se avremo vinto ci regalerà un ulteriore soddisfazione da condividere con tutta la Nazione, ma il cardine di quella situazione siamo noi, con le nostre storie e le nostre emozioni da vivere insieme. Noi giocatrici diventiamo il centro della storia che stiamo vivendo e se facciamo squadra e diamo il massimo, il senso di colpa non può insinuarsi nella nostra compattezza.