Il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus, lancia una sfida culturale: possono sportivi professionisti far sentire la propria vicinanza a chi sta lottando contro il cancro parlando di come nella vita affrontino la propria quotidianità, le sfide e gli avversari difficili dentro e fuori dal campo, gli infortuni e altri aspetti particolari del proprio lavoro? Questa sfida è stata raccolta oggi da Alberta Brianti che nella vita fa la tennista, è nata nel 1980 e viene dalla provincia di Parma. Durante la sua carriera ha giocato più di 1700 partite fra singolare e doppio, e nel 2011 ha raggiunto la posizione numero 55 della classifica mondiale femminile WTA.
Alberta, grazie di aver accettato questa sfida. Presentati a chi sta leggendo la tua testimonianza: chi è Alberta Brianti al di fuori dei campi da tennis?
“Sono una ragazza di 36 anni, sono una persona molto pacifica, anche se avendomi visto in campo qualcuno potrebbe pensare il contrario, ma lì mi trasformo; mi piace prestare attenzione a ciò che mi può aiutare a stare bene: scelgo con cura cosa mangiare, vado a letto presto, soprattutto nelle giornate prima di una partita. Mi piace visitare città ma, anche se il tennis mi ha portato in giro per il mondo, non ho avuto molta possibilità di esplorare i paesi dove mi recassi per giocare: ho conosciuto per lo più alberghi e campi da tennis, questo un po’ mi dispiace. Spero una volta terminata la carriera di avere altre opportunità.”
Avendo speso molto tempo lontano da casa, un elemento che ti può avvicinare a chi sta lottando contro il cancro è la distanza forzata. Quando all’interno di una famiglia fa la propria comparsa un tumore, succede spesso che la persona che lo affronta si debba allontanare da casa e dai propri affetti per poterlo curare, alcune volte anche molto distante e per parecchio tempo; è una situazione difficile ma che è importante dominare sia per chi si sta curando, sia per i familiari che restano a casa. Ti è mai capitato nella tua carriera di sentire il bisogno di un tuo affetto forzatamente distante o di essere nella situazione di non poter stare vicina a chi a casa avesse bisogno di te?
“Io sono nata nel parmense e ho lasciato casa a 13 anni per andare a vivere a Latina nel centro della federazione italiana tennis; per due anni ho vissuto là, tornando a casa una volta al mese. E’ stata un’esperienza in cui sono dovuta crescere molto in fretta, perché soffrivo la mancanza dei miei genitori e dei miei fratelli. Immediatamente dopo a 15 anni mi sono trasferita a Milano per poter continuare sia gli studi sia il tennis, perché a Parma non c’era possibilità di potersi allenare con continuità, e ho vissuto in un collegio di suore per quattro anni: ho conosciuto diverse persone, ma effettivamente la mancanza della famiglia si faceva sentire spesso.”
Ti è mai capitato di pensare che i sacrifici potessero essere vani e quindi avere la tentazione di mollare tutto e tornare a casa?
“Sì, più di una volta, però nella mia carriera ho avuto anche parecchie gratificazioni, che senza sacrifici non avrei potuto conoscere. Io sono nata praticamente giocando a tennis, ho iniziato a sei anni e ho sempre fatto questo, spesso ho pensato: e se mollo, dopo cosa faccio? Ci ho pensato tante volte con qualche infortunio rognoso che mi è capitato, ma ho sempre trovato le energie e gli stimoli per reagire a questa tentazione. Ancora adesso sono qua che gioco in mezzo a queste giovani che stanno arrivando, io sono la più vecchietta però ancora mi diverto, finché ho gli stimoli e finché il fisico me ne dà la possibilità, continuerò a giocare e a vivere esperienze e palcoscenici come lo stadio Pietrangeli del Foro italico nel 2016 ad esempio.”
Dover combattere quando si sta male e si è terribilmente stanchi, dover credere in un risultato del quale spesso non si hanno certezze, doversi fidare che il percorso che si sta svolgendo servirà per raggiungere un traguardo importante sono situazioni molto ben conosciute da chi lotta ogni giorno contro un tumore maligno. Ti è mai successo di raggiungere un traguardo perché sei stata capace di crederci anche quando in alcuni momenti non erano positivi al riguardo?
“Sì, nel 2011 ho vissuto un’esperienza molto particolare. Ero a Mosca per giocare per la prima volta nella mia vita la Fed Cup, la competizione femminile per nazioni. Italia contro Russia, neve dappertutto, si giocava indoor su cemento. Appena finita la sfida, mi sarei dovuta imbarcare per andare a giocare in Marocco un torneo WTA su terra rossa al caldo; avevo già deciso di cancellarmi da quel torneo, non c’erano le condizioni per arrivare e disputare una manifestazione decente. Ad un click dalla cancellazione sul sito dell’organizzazione, decisi di ascoltare il consiglio di alcune persone fidate che mi dissero di andare comunque. Feci un viaggio travagliatissimo, tra ritardi e coincidenze mancate arrivai a Fes, sede del torneo marocchino, alle 4 di notte. Poche ore dopo ero in campo per la partita del primo turno, sotto 5-0 nel primo set contro la spagnola Laura Pous Tiò, di nuovo ad un passo dal ritiro, barcollante di stanchezza. Decisi che avrei finito la gara semplicemente cercando di fare il meglio di quel che potessi in quelle condizioni, in ogni singolo punto, senza pensare al risultato né al torneo: rimontai e vinsi quella partita in due set 7-5 6-2. Nei giorni successivi continuai a tenere nella mia testa solo quel pensiero, e partita vinta dopo partita vinta mi ritrovai in finale contro Simona Halep. Non avevo mai vinto in tutta la mia carriera un torneo WTA, avevo già più di trent’anni e credo che molti avrebbero pensato che a quel punto mai ci sarei riuscita; giocai una partita impeccabile e per la prima volta nella mia vita sollevai un trofeo WTA, ed era un trofeo mio. Non ci volevo credere, soprattutto pensando alle premesse di quel torneo; ancora oggi penso che se mi fossi cancellata su internet, se non avessi accettato di stare in campo nella prima gara con tutte le avversioni esistenti, non potrei avere questa gioia nella mia vita da ricordare e da raccontare.”
Le grandi imprese però a volte hanno percorsi travagliati ed imprevedibili, spesso in oncologia e psiconcologia per arrivare ad alzare le braccia al traguardo finale, il paziente deve passare attraverso anche momenti molto delicati, affrontando periodi in cui pensava fosse tutto superato e invece gli viene comunicato che le terapie vengono prolungate, che ci sono nuovi controlli da fare, che il cancro ha dato nuovi segni di vita. Avere gli strumenti psiconcologici per superare queste situazioni è fondamentale per riprendere a combattere dopo aver avuto la sensazione che l’obiettivo della vittoria fosse imminente. Ti è mai capitato di vederti sfuggire di mano un grande traguardo quasi raggiunto?
“Sì, nel 2012 al torneo del Roland Garros, il maggior torneo su terra battuta, sono stata sorteggiata al primo turno contro Viktoria Azarenka, numero uno del mondo. Sono scesa sul campo centrale di Parigi con prima una grande tensione, poi la sensazione di potermi godere quella gara, perché non partivo certo con i favori del pronostico. Punto dopo punto, mi sono ritrovata in vantaggio 7-6 4-0 con la palla per il 5-0. Da campionessa quale è, Azarenka ha ribaltato la situazione e ha vinto la partita 7-6 4-6 2-6, lasciando a me il rimpianto per quell’impresa sfiorata e non compiuta. Non è stato facile riprendere a giocare nei tornei successivi, con palcoscenici minori: quella partita nella mia testa l’ho giocata e rigiocata giorno e notte; non ti dico che sia stato un incubo ma quasi, tuttora a volte ci ripenso e dico “che occasione”. La forza di un tennista però sta nel dimenticare le occasioni perse e di ripartire già dalla settimana successiva per giocarsi le nuove chance che vengono concesse, resettare qualsiasi cosa passata e focalizzarsi su quel che ti aspetta davanti, puntando a ricostruire nuove occasioni e opportunità da giocarsi. Basti vedere la forza di un atleta come Djokovic, come dopo un errore sia già completamente resettato e sintonizzato sul punto successivo.”
Nella tua vita, hai mai vissuto da vicino quali situazioni e difficoltà un malato di cancro debba affrontare?
“Sì, quando ero già grande e giocavo a tennis da parecchio tempo, una mia zia molto giovane si ammalò di tumore maligno; io ho continuato il mio lavoro ma avrei voluto condividere molto più tempo con lei, perché andavo in ospedale a trovarla per incoraggiarla e ne uscivo con la sensazione che lei avesse trasmesso forza a me. Una donna pazzesca, pur soffrendo non l’ho mai sentita lamentarsi, mi chiedeva sempre dei miei risultati, una volta le portai la maglietta con una dedica per lei che avevo mostrato sul campo al terzo turno degli Australian Open contro Samantha Stosur e ne fu felicissima. A lei ho dedicato la mia vittoria nel torneo di Fes, a lei ho portato ricordi da ogni zona del mondo in cui giocassi un torneo. Di tanti allenatori e maestri che ho avuto, gli insegnamenti più grandi me li ha passati lei in questa sua battaglia.”
Grazie Alberta per aver partecipato, da oggi sei un’atleta al fianco di chi sta sfidando il cancro.