Parlare di cancro in maniera libera con sportivi professionisti, conversando sulle loro difficoltà e abitudini nell’agonismo ma ponendo la luce su aspetti della quotidianità di chi sta combattendo un tumore: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus e da Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli. Oggi raccoglie a questa sfida Alice Balducci, tennista professionista che nel 2014 ha vinto lo scudetto della serie A a squadre femminile con la squadra di Genova e vincitrice di 8 titoli di singolare e 20 di doppio nel circuito internazionale ITF.
Ciao Alice, benvenuta nel progetto Atleti al tuo fianco, iniziativa che ci darà possibilità di parlare del tuo sport, il tennis, ma visto sotto un’altra ottica; metteremo infatti in luce nella nostra chiacchierata aspetti della quotidianità di chi sta affrontando un tumore ed elementi che ti possono avvicinare a queste persone. Per prima cosa partiamo dalle presentazioni: raccontaci qualcosa di te che ci dia modo di conoscerti meglio.
Ciao a tutti, io sono Alice Balducci, nasco a Chiaravalle l’11 settembre del 1986, in provincia di Ancona; già a 14 anni lascio casa e mi trasferisco per avere possibilità di coltivare il tennis, che diventerà il mio lavoro. Inizio così un giro d’Italia, perché faccio sei anni a Bologna dove finisco gli studi prendendo il diploma, poi mi trasferisco a Milano, dove comincio la facoltà di Scienze Motorie. Però non riesco a conciliare gare e studi, per cui sospendo l’università e vivo diverso tempo nelle città di Milano, Roma, Bergamo e Genova, dove sono tutt’ora. In questo modo riesco a seguire la mia passione, anche se l’età avanza e ho deciso che a 30 anni, è tempo di ultime partite: il mio fisico reagisce diversamente e questa condizione influisce su tutto il resto, soprattutto mentalmente.
Su quello che mi hai raccontato, c’è un elemento che chi affronta un cancro conosce molto bene: l’allontanamento da casa. Quando una persona vive una diagnosi di un tumore, non sempre ha la possibilità di curarsi vicino a dove vive, può essere necessario un trasferimento e dover convivere a lungo con le difficoltà nel ricevere la vicinanza familiare di cui necessita. Come hai affrontato tu, nella tua situazione sportiva, la convivenza con la distanza dai tuoi affetti già in un’età molto precoce?
A 14 anni in effetti sono andata a casa da mia mamma, io purtroppo ho solo mia madre, perché il mio papà è mancato per una leucemia fulminante, motivo per cui l’argomento oncologico mi tocca particolarmente. A 14 anni, figlia unica, sono quindi andata a casa da lei e le ho detto “mamma io mi trasferisco”. Il trauma iniziale è stato soprattutto per lei, perché probabilmente abbandonare subito l’unica certezza affettiva, l’unica ancora che rimane, non è facile. Fino ai 20 anni non ti rendi molto conto di questo, vedi solo quello che c’è davanti, o quantomeno diciamo che io ho guardato molto quello che c’era avanti e quello che poteva essere il futuro, non ho avuto paura di lasciare quello che avevo. Con gli anni, sento di più la mancanza di casa, della sfera affettiva primaria e di tutto ciò che la forma e circonda; quando sei più giovane, sarà che probabilmente sei meno cosciente, più inconsapevole, vai un po’ più sfrontato. La lontananza dei familiari ora si sente; mia madre è importantissima e ogni volta che è stato possibile, è stata presente anche sugli spalti per me, anche se non ha mai praticato sport. Nel momento in cui perdi qualcuno in casa, chi rimane diventa un valore aggiunto per saldare il legame in ogni difficoltà, ma di questo te ne rendi conto crescendo: a 14 anni non vedi l’ora di salpare, ma a 24 cominci a capire quale sia il tuo porto irrinunciabile. Ogni tanto mi fermo e penso, guardando dietro “ma come ho fatto?”. Prendere e partire da sola, a 14 anni neanche, a più di 200 km da casa, cambiare scuola, cambiare vita, cambiare amicizie. La clausola per poterlo fare era “vai, però tutti i weekend torni a casa”, quindi dal venerdì alla domenica in treno, arrivavo alle 22 ad Ancona, stavo il fine settimana e il lunedì presto alle 5 ripartivo perché c’era scuola. Io credo che in certi momenti un briciolo di irrazionalità aiuti per avvicinarsi ad obiettivi che, altrimenti, se troppo ben analizzati appaiono come irraggiungibili.
Nella tua vita sono stati di più i sacrifici o le gratificazioni in tutto questo?
Se ne analizzo la quantità, direi i sacrifici; però la qualità della gratificazione ripaga di tutto.
La sfida contro il cancro per una persona diventa immediatamente un percorso di affidamento: con l’equipe sanitaria che ti segue si forma una relazione di squadra, in cui si deve dare il massimo insieme per raggiungere l’obiettivo della guarigione. I medici da soli non bastano e tu paziente da solo non sei sufficiente, il rapporto di fiducia reciproco è la base su cui costruire l’efficacia del percorso. Tu Alice sei una tennista che ha raccolto e raccoglie grandi risultati nel doppio, specialità nella quale si è obbligati a contare sul proprio compagno per raggiungere un traguardo, facendo i conti con i suoi errori e giovando in certi momenti del suo intervento. Come convivi da atleta con la necessità di porre la fiducia totale in un’altra persona per raggiungere un obiettivo?
Nel tennis, il concetto di fiducia è basilare se vuoi raggiungere buoni risultati attraverso il doppio: non è assolutamente facile doverti affidare ad una persona che magari non conosci ancora bene, che reagisce alle situazioni in un modo diverso dal tuo, che magari gioca anche un tennis diverso da quello che giochi tu. Rispetto al singolare, in cui fai i conti con i pregi e i difetti solo tuoi, qui devi creare un insieme virtuoso, capire che le differenze possono completare, sapere che al tuo compagno puoi chiedere collaborazione ma la devi anche offrire. Affidarsi completamente è un percorso fatto di tappe, di singole partite, ma è anche una necessità perché da solo non puoi arrivare. In queste situazioni, non sempre il tempo è alleato perché per conoscersi e trovare un’intesa ci vogliono sicuramente periodi lunghi, ma nel corso dei quali i risultati devono comunque arrivare. L’affidamento è un concetto importante e profondo, perché funziona solo se lo effettui completamente: se lo fai a metà non è efficace, devi cercarlo e offrirlo contemporaneamente. È l’unica strada verso il raggiungimento di un traguardo di coppia e di squadra.
Anche nella relazione allenatore-tennista vi sono delle necessità fondamentali di affidamento. Qual è secondo te una caratteristica che sia il medico che si prende cura del paziente, sia l’allenatore che permette ad un atleta di crescere devono assolutamente essere in grado di offrire?
L’ascolto. Secondo me è fondamentale, ho sempre cercato un allenatore che potesse ascoltarmi e capirmi. Il mio modo per farmi capire dal mio tecnico è comunicare, parlare, e visto che un domani sarà il mio lavoro, la cosa che cercherò di fare io è ascoltare il più possibile chi avrò dall’altra parte. A mio parere questo vale allo stesso modo per il paziente, non si può pensare di curare senza creare una relazione attraverso l’ascolto, è ciò che individualizza una persona, che la fa diventare da malattia ad essere umano. Purtroppo si sta perdendo nel mondo d’oggi la capacità di comunicare e ascoltare gesti e parole. Siamo sempre di fretta, non capiamo che, se non abbiamo gli stessi obiettivi, gli stessi principi, gli stessi concetti, non possiamo creare un percorso comune.
Nella mia esperienza medica, mi è capitato più volte di lavorare con persone per le quali la letteratura medica nutriva pochissime speranze e invece il corso degli eventi ha mostrato una realtà sorprendentemente diversa ed imprevedibile, al punto che loro sono poi diventati casi di studio. A te da sportiva, è mai capitato di vincere una partita che a tutti dall’esterno appariva come una sfida impossibile da ribaltare?
Sì, purtroppo e per fortuna. Nel mio gioco ci sono tanti alti e bassi, molte partite già vinte sono riuscita a perderle, tante partite già perse sono riuscita a vincerle. In campo, una delle mie caratteristiche è quella di lottare molto, quindi anche quando il punteggio non è favorevole o le condizioni non appaiono agevoli, l’ultima cosa che faccio è mollare. E quindi questa cosa aiuta le probabilità di ribaltare un evento avverso. Forse l’impresa meno prevedibile in assoluto l’ho realizzata con la mia grandissima amica Alberta Brianti tre anni fa, quando con i colori del tennis Genova abbiamo vinto la serie A ribaltando ogni pronostico. Ad essere sincera, sono legatissima anche all’esperienza vissuta l’anno successivo, quando per una serie di infortuni siamo rimaste solo io e Alberta a difendere i colori del nostro club, e senza che nessuno potesse minimamente credere in ciò, arrivammo fino in finale nuovamente. Lì perdemmo, ma è davvero bello avere la sensazione di star scrivendo qualcosa di unico; certo non succede per caso, devi essere pronto a cogliere le situazioni favorevoli in un percorso ostico: se non lo sei, ti passano vicino senza che esse possano diventare momenti di svolta positiva. La mentalità vincente in qualsiasi situazione, anche la peggiore, fa di te una persona che può sfruttare anche l’unica occasione positiva che ti si presenta sul percorso. Chi si prepara in questo modo, può scrivere pagine straordinarie nel libro delle eccezioni alle regole.
Grazie Alice per la tua testimonianza, personale e sportiva. Ci hai dato possibilità di parlare di cancro non solo sotto il profilo clinico ma mettendo anche in luce alcuni aspetti della quotidianità, che ha una valenza elevatissima nella qualità della vita di chi è ammalato. Da oggi sei un’Atleta al fianco di chi combatte un tumore, non dimenticarlo.