Atleti al tuo fianco: Anna Cavagnini

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La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Entra a far parte di questa squadra Anna Cavagnini, portiere della Leonessa Pallamano Brescia.

Anna, benvenuta nella squadra di Atleti al tuo fianco; la tua vita personale e sportiva diventa strumento di riflessione per avvicinare la realtà delle persone che affrontano un tumore maligno. La prima domanda è introduttiva: raccontati attraverso ciò che ritieni sia indispensabile sapere su di te per conoscerti meglio.

Mi chiamo Anna Cavagnini e fin dalla seconda media gioco a pallamano: stavo cercando uno sport di squadra da praticare quando sono entrata in contatto con la realtà della Leonessa Brescia, che mi ha subito accolto come in una famiglia. Ho iniziato quindi quasi per caso e, con il tempo, sono arrivata a giocare in prima squadra: lì ho capito che potevo davvero realizzare un percorso importante. Quando ero riuscita a ritagliarmi un posto di rilievo all’interno della formazione, è arrivata per me la diagnosi di un tumore raro. In quell’occasione mi sono resa conto dell’enorme importanza che lo sport rivestiva nella mia vita: inizialmente, ero più preoccupata dal pensiero di non poter più giocare rispetto al lungo percorso di cure che mi si prospettava di fronte! Oltre alla pallamano, nella mia vita un posto di rilievo è occupato dalla frequentazione della facoltà di Matematica e dall’impegno come catechista nel mio quartiere a Brescia. La fede cristiana mi è stata di grande supporto nel processo di cura dalla malattia, il pensiero di poter trasmettere questa fede ad altri è una cosa che mi arricchisce.

Una squadra è un gruppo di persone che condividono un obiettivo da raggiungere insieme. Durante il tuo percorso di cura, ti è mai capitato di riuscire a sentirti squadra con l’equipe medica multidisciplinare e con le persone che, a vario titolo, ti sono state vicine in questo tuo percorso?

Mi sono sentita parte di una squadra quando sono arrivata all’Istituto Tumori di Milano. Mi avevano inviata presso quella struttura dicendomi che la mia era una forma rara di tumore e che avrei trovato la migliore assistenza presso un grande centro specializzato come quello. In quell’ospedale sono entrata in contatto con un gruppo eterogeneo di oncologi, chirurghi e radioterapisti che lavoravano in sinergia come un vero team. È poi d’obbligo per me citare la mia famiglia, che è stato il principale sostegno durante la malattia, e la mia squadra di pallamano che, nonostante io non potessi giocare, ha sempre continuato a farmi sentire parte del gruppo, forse con un’intensità ancora maggiore di quella che avvertivo quando ero in campo.

È importante riconoscere i singoli obiettivi, per concentrarsi su di essi ed evitare che altre situazioni possano influire sullo stato d’animo di chi costruisce, un obiettivo alla volta, il traguardo della guarigione. Come hai visualizzato nel tuo percorso tre concetti diversi come la guarigione, il benessere fisico e la serenità?

L’obiettivo più grande per me è sempre stata la guarigione. Ricordo infatti il grande sconforto che mi prendeva ogni volta che, nel percorso che mi avrebbe portato alla guarigione, avvenivano dei momenti di stallo o addirittura dei passi indietro. Parallelamente a questo, sicuramente il mio sforzo più grande è sempre stato il mantenimento un certo livello di positività, per me più importante ancora dello stesso benessere fisico, anche per alleviare la sofferenza delle persone che mi stavano vicino, che certo avrebbero patito molto nel vedermi depressa e demotivata. Anche se di nuovo è importante chiarire una cosa: come in una squadra, si condividono gioie e difficoltà. Il mio intento è stato non solo evitare loro di vedermi affranta, ma di sfuggire io per prima alla crisi di fiducia.

È opinione comune considerare guerriero chi affronta un tumore, come se dovesse attaccare con forza le difficoltà generate dal cancro. La situazione va analizzata anche sotto una luce diversa, affinché la stanchezza e la desolazione che fisiologicamente possono palesarsi non vengano vissute come una sconfitta. L’azione da porre in campo è più simile a una parata che a un attacco, per cercare di neutralizzare le opzioni non prevedibili. Essere un portiere di pallamano, è stato in qualche modo d’aiuto per neutralizzare le difficoltà di ogni giorno mentre affrontavi il tuo percorso oncologico?

Forse il parallelismo tra lo sport e la lotta alla malattia, nella mia esperienza, è stato rappresentato dalla mia visione alla guarigione futura con lo stesso spirito e la stessa convinzione con cui prima mi battevo, durante ogni allenamento, per garantirmi un posto in prima squadra. Le indicazioni che mi davano i medici assumevano per me la stessa autorevolezza di quelle che, fino a pochi giorni prima, mi forniva l’allenatore in campo. In entrambe le situazioni ho sempre cercato di dare il massimo, dopodiché subentrano variabili che sfuggono al nostro controllo, ma la nostra parte dobbiamo farla tutta.

Nella pallamano il portiere si trova alcune volte ad affrontare l’attaccante in stacco verso l’area per concludere a rete, in una sorta di uno-contro-uno volante. In qualche modo, ci si esercita a trasformare la paura di un evento che potrebbe fare anche male, qualora si venisse colpiti dalla palla, in azione per parare il tiro. Come allena un portiere della pallamano la trasformazione dall’istinto naturale a “pararsi” e proteggere il proprio corpo, a quello di “parare” e proteggere lo specchio della porta?

Come spesso succede anche al di fuori da un campo da pallamano, il controllo della paura è sicuramente una questione di testa. È una situazione particolare, che si conosce giorno dopo giorno sul campo, e l’ho vissuta nuovamente quando sono tornata ad allenarmi dopo la convalescenza. Essendo reduce da un intervento chirurgico importante, la paura di “parare con la cicatrice” è presente ancora oggi. Il mio suggerimento, nel profilo sportivo, è di porre tutta la concentrazione sulla palla e distoglierla dalla paura, che è normale che esista ma non deve mai prendere il sopravvento. È un modo per permettere alla mente di non subire la paralisi del timore ma, al contrario, comandare l’azione della parata in maniera determinata e coordinata.

In psiconcologia un obiettivo fondamentale la sincronizzazione del paziente con il momento presente, in quanto il futuro si presenta in maniera incerta in seguito ad una diagnosi di cancro. Quanto, per una sportiva come te, il timore che nel futuro non potessi più tornare a giocare ha segnato il presente del tuo percorso di cura?

Quella paura purtroppo è stata presente nella mia testa durante tutto il tempo impiegato a curarmi. In quella fase è stato fondamentale per me il supporto del mio allenatore, che si è dimostrato tale anche quando non mi esercitavo sul campo. Se penso alle sensazioni che provo quando entro in campo oggi la prima cosa che mi viene in mente è la consapevolezza di essere fortunata: se prima allenarmi era per me una cosa normale, quasi scontata, oggi ogni allenamento lo vivo come un regalo. Il mio tumore si è preso probabilmente parte della mia forma fisica, ma mi ha lasciato una maturità e una consapevolezza maggiori.

Oggi tu alleni anche i portieri delle squadre giovanili: cosa insegni loro della tua storia in oncologia tramite lo sport?

Il valore che spero di tramandare loro è primariamente l’impegno, la disciplina verso la persona competente: sul campo di gioco è rappresentato dall’allenatore, ma nella mia vita questa figura è stata anche incarnata dal medico. Fidarsi della competenza di chi conosce meglio un determinato argomento è fondamentale. Oltre a questo, mi piacerebbe trasferire loro la mia voglia di sognare: dal raggiungimento di un traguardo sportivo alla guarigione da un cancro, sono tante le situazioni che si possono sognare, ma la cosa più importante è non mettere mai fine alla nostra capacità di generare sogni: tutto questo può dare una direzione significativa alla vita, propria e di chi ci sta intorno.

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