Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia, e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Fa parte di questa speciale squadra di atleti anche il pallavolista Antonio Corvetta, alzatore della Monini Marconi Spoleto e campione d’Italia 2017 con la maglia della A.s. Volley Lube.
Benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco, Antonio. Oggi parleremo della tua carriera e di pallavolo come spunto per raccontare alcuni aspetti della quotidianità di chi sta affrontando un tumore maligno. È necessario conoscersi meglio per raggiungere insieme questo obiettivo: raccontaci qualcosa di te che non conosciamo, di come si svolge la tua quotidianità quando non sei impegnato sui campi da volley.
Io sono fondamentalmente uno sportivo per passione, al di là della pallavolo sono una persona molto attenta all’alimentazione, soprattutto in questa fase della vita dopo i trent’anni. È uno stile di vita che ho voluto abbracciare indipendentemente dalla mia professione, anche se prima non praticavo questo stile di vita così attento. Sono un appassionato di musica, amo molto i cani e mi piacciono le motociclette. In questo momento, sono una persona realizzata e felice, con una famiglia alle spalle farcita di buoni rapporti e poggiata su valori solidi e importanti: sono stato fortunato a poter crescere nella mia famiglia. Fuori dalla palestra sono una persona che cerca di vivere la vita in maniera felice, combinando attenzione per la salute e qualche concessione sfiziosa. Un cardine della mia vita è senza dubbio il rispetto: cerco sempre di rispettare gli altri, facendo anche molto rispettare me stesso.
Per una persona che sta affrontando il cancro, il rapporto con l’alimentazione e con l’appetito vive un momento molto particolare rispetto al resto della propria vita. Non sempre si ha voglia di mangiare, non sempre si può mangiare quel che si vorrebbe; ci possono anche essere alcune complicanze, come un’irritazione delle mucose della bocca o un’alterazione della percezione dei sapori, che complicano il rapporto con il cibo e la nutrizione. Quando ci si riappropria della gioia di nutrirsi, è un momento molto bello nella storia oncologica di una persona: si riconquista una libertà godendone i benefici sotto ogni aspetto. Tu hai detto che curi molto la tua alimentazione: per te è una limitazione che ti imponi per essere più prestazionale sul campo o una scelta libera e felice sentendo il tuo corpo giovarne?
Senza alcun dubbio la seconda, per lo meno in questa fase della vita. Sono sportivo professionista da tantissimi anni e, in precedenza, vivevo l’alimentazione più come una limitazione imposta; ora ho vissuto l’evoluzione di questo pensiero e per me è un’abitudine consolidata, ben motivata dal fatto che scegliendo bene cosa e quanto mangiare, poi sto meglio. Io vivo l’alimentazione come se stessi immettendo benzina per il mio corpo: migliore sarà il carburante e meglio poi mi sentirò. Ciò non vuol dire non concedersi sfizi ed eccezioni, ogni tanto mi piace farlo e lo faccio con gioia. Però ho chiaro dentro di me che mangiare con attenzione sia un grandissimo investimento in termini di salute e gioia di nutrirsi, ne trovo giovamento dentro e fuori dal campo.
La convivenza con il dubbio di come evolverà la propria malattia è un aspetto delicatissimo in psico-oncologia: è fondamentale aiutare chi riceve una diagnosi severa a capire che essa non è forzatamente sinonimo di sconfitta futura. Si dovranno sopportare cure più intense e si potranno incontrare ostacoli maggiori, ma bisogna mantenere vivo l’obiettivo finale della guarigione: a volte lo si raggiunge nonostante la sfiducia che si prova inizialmente. Tu sei un pallavolista alto 1,88m: ti sei mai misurato con la sensazione di dover raggiungere l’obiettivo di diventare professionista del volley nonostante la tua statura potesse generare sfiducia rispetto a questa finalità?
Quando sono entrato a far parte della nazionale pre-juniores a 16 anni, il progetto di reclutamento dei giovani atleti si chiamava “piano altezza” e presentava dei requisiti minimi per farne parte. Io ero qualche centimetro fuori da questi standard, ma avevo delle qualità per le quali venni selezionato ugualmente. La sensazione di essere sempre “contro pronostico” per diventare un pallavolista professionista l’ho conosciuta bene. È per me sempre stata una medaglia a due facce: da un lato, mi sembrava di essere obbligato a dover lottare più degli altri per mostrare di poter farcela; dall’altro lato, aveva sviluppato in me un senso della sfida molto elevato, mi ha allenato profondamente la determinazione e la concentrazione verso un obiettivo, doti che mi sono diventate molto utili nel corso della mia carriera e della mia vita. Poi io sono cresciuto con il mito pallavolistico di Paolo Tofoli, alzatore della nazionale italiana e della “Generazione di fenomeni”, che non raggiungeva a sua volta il metro e novanta. Addirittura c’era anche il grandissimo Fefé De Giorgi che era alto 1,78m. Avere avuto davanti esempi che già ce l’avessero fatta contro pronostico mi ha aiutato molto a credere che il mio corpo non fosse in alcun modo una limitazione: ce la potevo fare, forse con più fatica ma ce la potevo fare anch’io.
La relazione con il proprio corpo che reagisce in maniera imprevedibile alle terapie è un aspetto importante in psiconcologia. Molti conoscono e presagiscono la perdita dei capelli (che non sempre avviene), ma possono essere molti i modi in cui il corpo cambia: alcune volte si può gonfiare e altre si smagrisce fortemente, ci sono poi interventi chirurgici che possono lasciare delle limitazioni da recuperare nel tempo o con cui dover convivere. È fondamentale riappropriarsi di una serena convivenza con ciò che il proprio corpo concede nel corso e alla fine delle terapie. Tu sei un pallavolista di 40 anni: nell’ambito delle prestazioni sportive, come convivi con le limitazioni che il tuo corpo ti impone in una fisiologica evoluzione avanzando con l’età?
Devo confessare che nonostante l’avanzare degli anni, il mio corpo è abbastanza in linea con ciò che è sempre stato. Ovviamente è diversa la strada necessaria per arrivare a mantenere i miei standard agonistici: quindici anni fa era necessario un allenamento che ora non sarebbe più sufficiente. Un allenatore mi ha passato un grandissimo insegnamento su come affrontare le situazioni: quando ti trovi davanti un problema, esso per definizione presenta una soluzione. Potrà essere molto difficile, ma la soluzione c’è. Se non esiste la soluzione, allora non stiamo parlando di un problema ma di un dato di fatto che va accettato. Se io continuo a trovare soluzioni su questo corpo vuol dire che sto affrontando i problemi che esso può presentarmi, ma quando non potrò trovarne più significa che sarò davanti al momento di smettere di giocare a questi livelli. A tutt’oggi, ci convivo comunque in maniera serena ma anche professionale: tutto ciò che c’è da fare per raggiungere il livello minimo necessario, lo faccio. Se serve mezz’ora di anticipo in palestra per scaldarmi i muscoli e preparare meglio le articolazioni al lavoro, lo faccio.
Tu hai parlato di relazione con la tematica “problema”, molto ben conosciuta in oncologia: le persone che combattono il cancro sono spesso sommerse da diversi, piccoli e grandi problemi. La psiconcologia fornisce strumenti per identificarli singolarmente, impedendo loro di invadere la capacità di compiere scelte serene. Il tuo ruolo nella pallavolo è di alzatore e devi costantemente compiere delle scelte perché la squadra possa raggiungere i propri obiettivi: come fai ad isolare le tue scelte quando il peso delle situazioni, dell’importanza di un punto decisivo o di un errore precedente provano ad infiltrarsi nella tua mente?
È umano in un certo senso che eventi negativi o intensi rappresentino un peso psicologico; secondo me l’obiettivo non deve essere annularlo, ma imparare a gestirlo. Ognuno deve trovare il proprio strumento per mantere la lucidità per compiere scelte e azioni positive nonostante la presenza di questo peso. Proprio di recente mi è successo di iniziare molto male una partita: mi sono reso conto che mi stavo radicando in alcune situazioni forzando delle scelte in modo del tutto inefficace. Poi la pallavolo è uno sport di squadra e alcune volte il problema me lo risolve un compagno che trasforma la mia forzatura in punto per la squadra, camuffando la situazione. Sbagliare invece in prima persona un’alzata è una situazione molto più evidente e può metterti in crisi sulla palla successiva. Il mio personale strumento di supporto in questi casi è figlio della scuola dei grandi allenatori degli anni ’90: per loro il lavoro ripetuto era la base insostituibile. Per cui, la mia mente è abituata a fidarsi del lavoro fatto con grandissima intensità in palestra durante la settimana, che rappresenta una certezza nei momenti difficili sul campo. Poi ho avuto modo di conoscere anche altri allenatori che mi hanno insegnato ad alleggerire la tensione nei momenti decisivi, devo dire che anche loro avevano ragione nel proporre questa come un’alternativa percorribile. Io in campo mi concentro però sulla tecnica, sul gesto allenato: si ha bisogno di certezze, nella mente e nelle mani. Ciò su cui mi sento preparato è la mia base e durante ogni allenamento ci lavoro proprio perché, nel momento di difficoltà, io possa avere una certezza sulla quale poter poggiare il tutto con sicurezza. Le tue certezze, nei momenti più intensi, sono in grado di salvare il tutto, te compreso.