Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Brescia con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Corrado Barazzutti, gloria del tennis italiano e capitano della squadra di Coppa Davis, da lui vinta nel 1976.
Benvenuto Corrado nel progetto Atleti al tuo fianco, sfrutteremo insieme le tue esperienze sportive per parlare di cancro e di come lo sport possa essere presente nella lotta contro i tumori. Prima di cominciare vorrei che tu ti presentassi, raccontando qualcosa di te, del tuo carattere, della tua personalità.
Devo dire che non amo molto parlare di me, è molto più facile chiedere agli altri come sono fatto. Il giudizio su di una persona si dà attraverso il suo comportamento di tutti i giorni, di tutti i momenti, quelli difficili e quelli allegri, come anche nell’ambito dell’amicizia o del lavoro, nella capacità di rispettare le persone. Diciamo che io, per riassumere, do molta importanza ad una parolina che si chiama “rispetto” e parto sempre da lì: ciò mi permette di sentirmi molto meglio e a comportarmi sempre nel modo più giusto. Quando si ha rispetto per le persone e si ha rispetto per le cose, per la natura, veniamo portati a vivere molto meglio, soprattutto in una società dove si è dimenticato un po’ il senso di questa parola, dove le persone dicono di comportarsi con rispetto ma fanno spesso il contrario. Credo molto in valori come l’amicizia e la famiglia e non mi piacciono le persone stupide o bugiarde. Alla fine, credo di essere una persona con molti difetti, ma anche con qualche pregio.
All’interno di una famiglia in cui una persona sta combattendo il cancro, tutti i componenti hanno una parte operativa importante, ognuno a modo proprio, secondo caratteristiche uniche che, anche se centellinate, possono risultare determinanti sotto il profilo emotivo. Tu sei capitano di Davis e sei stato per molti anni, con quattro trofei vinti, capitano anche di Fed Cup. Ti sei mai sentito in qualche modo “papà” nelle situazioni in cui andavi con la squadra e dovevi fungere da persona più esperta, capace di far stare a proprio agio giocatori e giocatrici che dovevano riuscire a dare il massimo grazie a questa condizione?
Sì, direi di sì. Mi sono sentito “papà” tante volte e ciò mi ha aiutato ad entrare in questo stato di empatia con questo gruppo di ragazze e ragazzi, ma credo che questo sia legato, soprattutto, ad una questione di età poiché hanno l’età delle mie due figlie. E proprio il fatto di avere avuto due figlie mi ha aiutato molto nel rapporto con le ragazze di Fed Cup, per comprenderle meglio nei loro aspetti caratteriali, anche in quelli più spigolosi, cercando di entrare in sintonia e empatia con loro. Insomma, in certi momenti mi sono sentito, oltre che loro capitano, anche loro papà.
Quando si affronta una diagnosi di cancro, la prima reazione è di shock, avviene cioè una paralisi improvvisa a livello mentale, che coinvolge chi riceve la diagnosi e tutte le persone che gli stanno intorno: immediatamente il nome “cancro” ti sembra un avversario per il quale tu non hai mezzi a sufficienza per affrontarlo. Ti è mai capitato nella tua carriera di tennista di avere un avversario che, quando ti trovavi di fronte a lui, improvvisamente ti sembrava di perdere tutte le tue capacità e ti sentissi paralizzato e incapace di giocare il tennis su cui ti allenavi ogni giorno?
Sì, sicuramente, ma credo che la parte psicologica abbia qui, una certa importanza, perché non è la stessa cosa: è difficile, se non impossibile, paragonare quello che tu puoi provare dentro il campo da tennis rispetto ad una notizia “shock” come il cancro, che puoi avere tu o un tuo parente. Questo lo posso dire perché ho vissuto un caso in famiglia e conosco la differenza tra le due esperienze: per quanto tu possa avere situazioni di grande sofferenza, di grande stress su un campo da tennis, non si può paragonare alla paura che si vive con una diagnosi di tumore.
Qual è l’elemento profondo che porta queste due emozioni ad essere imparagonabili?
Anche se sono stati fatti dei grandi passi in avanti, soprattutto per la prevenzione, il fatto di poter morire scombina ogni similitudine. E per fortuna che c’è la prevenzione! Quando ti arrivano notizie di questo genere, la paura di morire, di perdere tutti i tuoi affetti e rischiare di soffrire, ecco, questa cosa non ha niente a che vedere con il tennis, con qualsiasi prova di sforzo io abbia mai affrontato nella mia vita sul campo. Quando si parla di cancro, secondo me diventa fondamentale focalizzarsi sulla comunicazione, sull’informazione, sulla speranza: è la situazione in cui uno si ritrova disperato che fa perdere ogni possibilità di rimanere calmo e lucido per affrontare la situazione.
In che modo secondo te il mondo dello sport può concretizzare la propria presenza per abbattere le barriere di isolamento a cui spesso il cancro confina e incentivare la possibilità di comunicazione e dialogo sul tema?
Io non ti saprei dire. Io credo che l’isolamento sia una questione individuale, personale. Ho conosciuto delle persone che, per me, sono degli eroi, che avevano questa grande capacità di lottare, ma immagino che quando tu arrivi lì, con le tue emozioni e le tue paure, tu non vuoi smettere di lottare. Non so se però è così per tutti ed è per questo che dico che è una cosa personale. Quello che può fare il tennis, è diventare uno strumento di promozione e di informazione per la prevenzione, che continua a rimanere lo strumento più importante per poter guarire e salvare delle vite. Bisogna veicolare più informazioni possibili. Ci vorrebbe, inoltre, per tutti la possibilità di fare degli esami e controlli, con le istruzioni del servizio che si riceve, poiché ci sono tante persone che non hanno la possibilità di capire di cosa si parli e di sottoporsi ai necessari controlli: parlare di esami del sangue per il controllo della salute, capire perché fare una colonscopia o una gastroscopia, sapere cosa significhi fare la ricerca del sangue occulto nelle feci, o la mappatura dei nei. Va fatta molta informazione in più e in questo lo sport può scendere in campo, come strumento di divulgazione, creando un binomio con i medici e gli specialisti. Ci sono persone, non solo sotto il profilo economico, che non sono in grado di capire e sostenere la prevenzione necessaria: è qui che dobbiamo fare di più secondo me, non puoi vivere sperando di avere la fortuna che non ti capiti mai un tumore. Bisogna sapere come prevenire, come controllarsi e offrire a tutti i mezzi necessari per farlo: lo sport ha molte risorse per raggiungere un obiettivo simile.