Atleti al tuo fianco: Daniele Garozzo

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La ricerca di una riflessione profonda sulla vita condotta dalle persone che ogni giorno combattono contro il cancro è l’obiettivo dichiarato del progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Il punto di partenza scelto per approfondire questo tema è rappresentato dalle emozioni vissute nelle loro sfide agonistiche dagli atleti che hanno scritto la storia dello sport italiano. Di questa speciale squadra di sportivi fa parte Daniele Garozzo, schermidore italiano, vincitore della medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro 2016 dell’oro al campionato europeo di Tbilisi 2017 nel fioretto individuale e tre volte campione del mondo nel fioretto a squadre.

Ciao Daniele, per avvicinarci agli obiettivi di questa iniziativa, in cui la tua esperienza nella scherma diventerà spunto per raccontare la quotidianità di chi combatte un tumore, permettici di conoscerti meglio raccontandoci qualcosa di te: chi è Daniele Garozzo nella sua quotidianità?

Ciao a tutti! Oltre ad essere uno schermidore, la mia occupazione principale nella mia vita quotidiana è lo studente di medicina; questa cosa è per me importante perché, data la mole del percorso universitario intrapreso, gran parte del tempo non occupato dagli allenamenti io lo dedico allo studio. Questi sono i due binari principali lungo i quali si svolge la mia vita. Oltre a ciò, sono un amante del calcio, del tennis e del surf. Sono cresciuto in una famiglia di sportivi, famiglia da cui mi sono dovuto allontanare quando, a solo diciotto anni, ho lasciato Acireale in provincia di Catania per inseguire il sogno olimpico.

La prima domanda, che introduce il discorso di ambito oncologico, riguarda la necessità di riconoscere l’unicità della persona che riceve una diagnosi di cancro. Va tenuto a mente che ogni singolo essere umano è un universo a sé per tutto quell’insieme di emozioni che vengono vissute in relazione alla propria vita con un tumore; non vi sono modelli standard a cui ambire, non vi sono emozioni da sconfiggere o evitare a priori: le situazioni della vita quotidiana hanno un impatto diverso e unico su ogni individuo e su ogni famiglia. Partendo dalla tua individualità, cos’ha portato il bambino che eri a sognare di diventare, tra tutti gli sport possibili, proprio uno campione della scherma?

Io penso che tutti i bambini vadano lasciati liberi di sognare il proprio futuro, senza porre limiti e senza fornire loro un sogno preconfezionato. Dal canto mio, sono stato fortunato ad avere alle spalle una famiglia che, allora come oggi, mi ha accompagnato sostenendomi sempre ma senza mai impormi un suo sogno. Troppo spesso purtroppo accade che i genitori proiettino sul figlio i propri desideri irrealizzati, determinando frustrazione e addirittura odio nei confronti di un’attività che, almeno durante l’infanzia, dovrebbe essere priva da ogni pressione emotiva e agonistica. Da quando ho ricordi, io già da bambino sognavo di vincere l’Olimpiade, ma quel momento non è che l’apice di un’intera vita trascorsa a dedicarsi a un’attività che si ama profondamente: il trionfo può arrivare oppure no, ma la passione, il lavoro e l’impegno sono ingredienti che devono essere presenti a prescindere dai risultati. Sono fiero della mia vittoria olimpica a Rio, ma lo sono ancor più della persona che sono diventato mentre lavoravo per rendere quel sogno una realtà.

Quando una persona riceve una diagnosi di tumore, orienta comprensibilmente la sua attenzione verso il desiderio finale di guarigione, che è l’ambito traguardo. È fondamentale aiutare la persona e la sua famiglia a comprendere la differenza che esiste tra traguardo e percorso, senza mai sovrapporli, altrimenti ogni giorno che presenti difficoltà viene percepito come un fallimento rispetto al traguardo. Per quanto riguarda il fioretto, in Italia ci si avvicina a questa disciplina specialmente in occasione delle Olimpiadi, dando quasi per scontato che porterà delle medaglie. Hai detto che la vittoria non è che l’ultimo eventuale tassello nella vita di uno sportivo: ci racconteresti quindi la differenza tra percorso e traguardo nella scherma?

Sotto l’aspetto sportivo, gli ostacoli presenti in un simile percorso sono senza dubbio numerosi e, se guardo alla mia vita, ho però affrontato volentieri i sacrifici che ho dovuto fare e che faccio tutt’oggi per restare ad alti livelli: sono parte di un viaggio che ho scelto di intraprendere e nel quale ogni giorno trovo la mia realizzazione. Magari mi ripeto, ma penso che la vera ricchezza di una vita dedicata allo sport non sia data dalle medaglie, che certo fanno piacere, ma piuttosto da tutto il lavoro, i sacrifici, le relazioni, le esperienze e la passione che vengono impiegati per conquistarle. I nostri traguardi sono a volte condizionati, nel bene o nel male, da singoli episodi, che non possono però mettere in discussione il valore di una persona; in questo senso io resto convinto che, nello sport come nella vita, il percorso sia molto più importante del traguardo.

Le persone che affrontano un tumore devono allenare costantemente la capacità di adattamento al concetto di tempo perché sono molte le situazioni imprevedibili possono condizionare le giornate. Costruirsi anticipatamente delle certezze può diventare un sistema nefasto, perché spesso rimesso in discussione dalla realtà. Nel fioretto, quando un avversario attacca l’atleta è costretto a parare l’attacco prima di poter provare la stoccata a sua volta. Ti è mai capitato in gara di aver pianificato nella tua testa l’attacco e di dover improvvisamente cambiare i tuoi piani in seguito ad un’improvvisa mossa dell’avversario, che ti costringesse invece a doverti difendere?

Questa situazione si verifica quasi ad ogni assalto. Bisogna farsi trovare pronti, allenati e preparati anche allo scenario completamente opposto rispetto alla pianificazione della nostra mente. La capacità di reagire alle difficoltà penso sia il punto cardine di ogni atleta importante. L’imprevisto è una variabile sicuramente presente durante i minuti del match ma anche, volendo ampliare un po’ la visuale sulla vita di uno sportivo, nella possibilità di andare incontro ad un infortunio o a difficoltà di altro genere nel corso di una stagione. È un costante rapporto tra la realtà e il tuo pensiero: bisogna allenarsi profondamente alla capacità di riadattarlo secondo quanto e come la realtà effettivamente poi si presenti.

Da studente di medicina, tu hai ormai avuto modo di sperimentare la pratica clinica con i tirocini in ospedale previsti dal piano di studi: quali sono i valori che hai appreso dal fioretto e che riterresti utile poter trasmettere ad un paziente in un percorso di cura?

Sicuramente uno sportivo impara a confrontarsi con un percorso fatto di vittorie e di sconfitte, questa cosa è fondamentale: anche la carriera dello sportivo più vincente è costellata di sconfitte e io mi considero un ragazzo molto fortunato perché ho vinto molto ma ho perso ancora di più. Lo dico con il massimo rispetto per le persone che stanno affrontando un difficile percorso di cura: il piano sportivo e quello oncologico non vanno confusi in questo senso, perché vi è una differenza abissale tra di essi. Intendiamo perciò il termine sportivo “sconfitta” con il significato umano di “caduta”. Lo sportivo è una persona abituata a cadere, e pertanto obbligata ad imparare a rialzarsi. La forza di rialzarmi, se guardo alla mia vita, mi è stata data in parte dalla mia volontà interiore, ma in parte forse ancora più consistente dalle persone, preparate e volenterose, che mi stavano attorno. Dovendo raccogliere tutto ciò che lo sport mi ha insegnato in una frase direi perciò semplicemente: la sconfitta è parte integrante della vita, ciò che fa la differenza è il modo in cui si reagisce ad essa.

È basilare aiutare chi battaglia contro un tumore a trasformare il tempo di cura in tempo non di sopravvivenza ma di vita. In un percorso di terapia i momenti tristi e di scoramento sono presenti, ma ogni giorno si può provare a prendere delle briciole di bene per se stessi e la propria vita: una lettura, un incontro, una canzone, un’attività amata, a volte si può anche pensare di pianificare un viaggio. La valorizzazione della vita è l’elemento irrinunciabile per una cura che guardi alla persona nella sua interezza, non soltanto alla malattia. La coesistenza di terapia e qualità della vita è possibile, ogni sforzo deve essere speso per la loro compatibilità. Tu che sei atleta e studente di medicina, ti sei mai trovato a pensare che sport ad alti livelli e studi fossero incompatibili fra loro?

No, questo non l’ho mai pensato. Sono sempre stato consapevole che questa sarebbe stata una scelta molto difficile ed impegnativa, però credo anche che, con la giusta propensione al sacrificio, si possano raggiungere traguardi importanti. Qualcuno potrebbe obiettare che il tempo dedicato allo studio, oltre al mio lavoro, è tempo che potrei impegnare in maniera più rilassante e soddisfacente, ma la verità è che a me fa stare bene studiare medicina, come mi fa stare bene praticare sport ad alti livelli: sono due mie grandi passioni a cui non ho voluto rinunciare. Lo faccio con il sorriso.

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