Lotta al cancro e sport si incontrano attraverso il dialogo con atleti professionisti che rivivono e raccontano le propria attività agonistica in un’ottica completamente diversa dal solito, che li avvicina a chi sta affrontando un tumore: questo è il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Dario Hubner, ex calciatore e capocannoniere della Serie A nella stagione 2001-’02 con 24 reti al pari di David Trezeguet.
Ciao Dario, benvenuto in questo progetto. Oggi parleremo di calcio in un modo diverso dal solito, sfruttando le situazioni che nascono nello sport per parlare della quotidianità delle persone che stanno affrontando un tumore, con l’obiettivo di rendere l’argomento “cancro” un tema socialmente dialogabile. Per avvicinarci a questo obiettivo, vorrei prima di tutto che tu ci parlassi di te, ma non tanto come il calciatore Hubner ma come Dario: raccontaci qualcosa di te che ci permetta di conoscerti meglio ma che non riguardi il calcio.
Ciao a tutti, sono Dario Hubner, nasco in provincia di Trieste ma vivo nella campagna cremasca, in un paesino di quattrocento persone, con molte mucche e zero delinquenza. Sono arrivato qui grazie al calcio, qui ho conosciuto mia moglie e mi ci sono fermato. Credo mi assomigli come paese, perché è silenzioso, ha anche certi aspetti del mio carattere solitario, non sono fatto per le grandi città. Ho una famiglia, sono papà di due figli e mi piace molto fare il padre, occupandomi di loro. Spesso mi trovo a condividere con loro partite alla Playstation, soprattutto a Fifa, ma mi piace molto anche Call of Duty. Cerco di tenermi in movimento nonostante la carriera finita, quando posso mi dedico al tennis con un amico e partecipo spesso ad amichevoli di beneficenza, nelle quali segno ancora qualche gol.
Nel calcio, un attaccante per fare gol deve allenare bene ogni fondamentale e gesto tecnico; anche quando affronti un tumore, ci sono tanti aspetti che devi conoscere e allenare bene per raggiungere l’obiettivo di mantenere il controllo di te nella malattia. Ci sono tre elementi, ad esempio, che ogni famiglia che entra in un percorso oncologico affronta: la speranza, la certezza e l’illusione. Sono tre componenti molto diverse ma che non è sempre facile riuscire a distinguere nelle emozioni convulse di momenti delicati: saperle riconoscere, anche nella loro coesistenza, è fondamentale per mantenere la guida di noi stessi. Nella tua vita sportiva, quando hai avuto la certezza che la tua speranza di diventare calciatore professionista non fosse un’illusione?
Io sono partito dalla prima categoria, facevo il fabbro ed il calcio occupava due ore e mezzo a settimana; poi dopo l’interregionale sono salito in C2 con il Pergocrema, dove prendevo uno stipendio leggermente superiore a quello che percepivo da operaio. Qui ho fatto un anno e mezzo e poi, ad ottobre, sono andato al Fano, sempre in C2, dove ho vinto il campionato e fatto bene per tre stagioni con mister Guidolin. Nel 1992, sono passato al Cesena, in serie B che, per me, era “il calcio che contava”. Io sapevo di avere ampi margini di miglioramento, mi sentivo ancora un po’ grezzo a 25 anni, ma al Cesena è stato il momento in cui ho sentito che potevo diventare davvero un giocatore professionista.
C’è mai stato un momento in cui hai smesso di credere di poter raggiungere quell’obiettivo, e per la sensazione di non avere più la postazione di comando del tuo percorso hai avuto la tentazione di mollare tutto?
Sì, quando giocavo con il Pergocrema ho subito un infortunio grave e ho faticato parecchio a recuperare. In quel momento sentivo la nostalgia di casa, del mare e di un lavoro fisso. Questa riflessione è durata per qualche tempo ma non troppo a lungo, dopodiché mi sono detto che preferivo scegliere una vita dove tiravo due calci ad un pallone piuttosto che quella molto più impegnativa di un operaio, perché non c’è paragone tra le fatiche che deve affrontare un calciatore e quelle enormi di tornare a montare finestre d’alluminio.
Nella quotidianità dell’oncologia vi sono momenti di crollo emotivo ed energetico e periodi nei quali, nonostante il tumore, si riesce a convivere con una buona dose di energia. È importante allenare il controllo dell’equilibrio delle emozioni affinché le persone ammalate non si trovino in balia di questi sbalzi molto pericolosi. Come ti sei rapportato tu con quei periodi da giocatore nei quali non riuscivi a segnare con assiduità e potevi avere la sensazione di sentirti improvvisamente incapace di gonfiare la rete?
Capisco cosa intendi, ogni tanto agli attaccanti capita di soffrire i periodi di astinenza realizzativa, durante i quali più cerchi di segnare e meno riesci a fare gol; in altri momenti invece ti puoi ritrovare la palla da spingere in rete a due passi dalla riga. Nella mia carriera sono sempre stato moderato sotto questo aspetto, alla fine di ogni partita io avevo solo la necessità di sapere di essermi impegnato a fondo in ogni pallone, senza avere l’assillo di dover segnare. Sembra strano, perché di gol ne ho fatti parecchi, ma è così: anzi, forse quello è stato proprio il segreto, stare semplicemente concentrato su cosa fare bene come attaccante, sempre con grandissimo impegno. Ho sentito sicuramente un po’ di pressione all’inizio della stagione, perché sai di portare il peso della squadra sulle tue spalle essendo quello che finalizza la corsa ed il gioco dei giocatori che hai dietro, ma poi entra in gioco la squadra: io sono stato capocannoniere della serie A, della serie B e della serie C e questo lo devo primariamente ai miei compagni che hanno lavorato per me. Se son riuscito a mantenere l’equilibrio emotivo anche quando non segnavo, è anche perché sapevo di poter contare su di loro.
Ci sono momenti nella giornata di chi sta affrontando il cancro, ad esempio quando si cerca di prendere sonno la sera, in cui si è da soli con i propri pensieri, in una sfida 1 contro 1 con il tumore per impedirgli di invadere la mente, togliendo lucidità e seminando paura. Tu sei stato un calciatore che per caratteristiche di movimento si è spesso trovato 1 contro 1 con il portiere; mentre correvi verso la porta, riuscivi a mantenere la testa lucida senza che il pensiero di come toccare la palla correndo, dove, come e quando tirare potesse affollare la tua mente allontanandoti dall’obiettivo di segnare?
Devo dire che è l’istinto che spesso mi ha guidato, unito poi all’esperienza. All’inizio della mia carriera, quando ero un po’ più grezzo, davanti al portiere tiravo le bombe. A fine stagione però non erano poi così tanti i gol che ero riuscito a fare, così iniziai a pensare di dover studiare un nuovo modo di beffare il mio avversario. Al Cesena, in serie B, mi dissi che avrei potuto provare il pallonetto, variando la scelta semplicemente cercando di capire se il portiere avesse o meno l’intenzione di buttarsi a terra; così facendo iniziai a raccogliere molte più marcature. Non posso dire che fosse solo la testa a decidere, in qualche modo avevo il piede che poteva variare la decisione in un centesimo di secondo, cambiando completamente il modo di impattare la palla. Io e la mia mente dovevamo semplicemente osservare, era poi il piede a decidere all’ultimo momento.
Nelle situazioni quotidiane di chi è ammalato di tumore, i ricordi sono a volte un elemento di aiuto, mentre altre volte rappresentano un’insidia; in psico-oncologia lavoriamo molto sul ricordo perché esso sia un generatore di pace e non di inquietudine. Tu, ripensando alla tua carriera agonistica, hai dei rimpianti o anche dei ricordi che quando ti si presentano ti lasciano una sensazione di amarezza?
Sono un uomo fortunato perché ho avuto una carriera piena di soddisfazioni, sono stato in piazze che mi hanno amato e anche oggi mi sento una persona benvoluta da chi segue il calcio: tantissime volte mi capita di essere fermato per un abbraccio con le parole “non sai quanti Fantacalcio mi hai fatto vincere”. Però ho effettivamente due grandi rimpianti, o come dici tu due pensieri che non mi generano la stessa pace.Innanzitutto, non ho mai fatto una sola presenza con la Nazionale, anche semplicemente in un’amichevole. So che ho vissuto in un’epoca in cui avrei dovuto mettere a sedere campioni del calibro di Vieri, Totti, Inzaghi, Montella Del Piero, solo per citarne cinque. Però se vedo che al giorno d’oggi basta fare una buona stagione in serie B e qualche presenza in serie A per entrare nel giro della Nazionale, qualche rammarico mi nasce.
Il secondo rimpianto è più che altro temporale: se, anziché giocare a 20 anni in Prima categoria, mi fossi ritrovato a giocare a 15 anni nella Primavera del Brescia o del Piacenza, quanti anni avrei fatto di Serie A? Una volta era molto più difficile riuscire ad essere notato da un osservatore, poiché se giocavi su di un campo di provincia nessuno sapeva della tua esistenza. Sarebbe cambiato qualcosa? Devo concentrarmi su tutti gli aspetti positivi della mia carriera, che sono davvero molti, per non farmi danneggiare da questi due pensieri: anche se essi sono in numero minore, sono subdoli e si infilano nelle pieghe della mente e dell’animo, sono io a doverglielo impedire.
Ma a 20 anni pensavi che saresti stato capace di scrivere una storia tanto bella?
Assolutamente no, dalla prima categoria non avrei mai immaginato di poter essere capocannoniere della serie A a 35 anni. Essere pronti a prevedere cosa la vita ti riservi non è per forza la strategia migliore per riempire al meglio il libro della propria vita, a volte ci sono pagine ancora da scrivere di una bellezza impensabile nel momento in cui si prova a prevederle.
Grazie Dario per le tue parole, come ti senti ad aver partecipato a questa iniziativa?
Devo dire due cose: la prima è che mi fa un enorme piacere pensare che ci sia chi leggendo tutto questo possa trarne beneficio nella sua quotidianità. Voglio poi rivelare una sensazione di sorpresa: non pensavo che sarei arrivato a partecipare ad un’iniziativa di prevenzione dei tumori. Spesso mi indicano come emblema del calciatore che ha giocato a grandi livelli pur essendo un fumatore, non pensavo di poter essere d’aiuto sotto questo profilo perché mi son sempre visto come un modello da non imitare nell’ambito delle malattie oncologiche.
È proprio nel tuo insieme Dario che riuscirai ad arrivare nel profondo dell’animo di chi legge, perché hai partecipato senza manipolare nulla. Non ci servono modelli inarrivabili lontani dalla realtà: la tua sincerità e la tua sensibilità fanno di te uno straordinario testimonial di Atleti al tuo fianco, molte persone sapranno cogliere le tue parole per trasformarle in strumenti per migliorare la propria quotidianità nella malattia, basti questo per avere tutta la nostra gratitudine.