Atleti al tuo fianco: Emanuele Filippini

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Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro un tumore? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Oggi prende parte a questa iniziativa Emanuele Filippini, ex calciatore di serie A che ha vestito le maglie di Brescia, Parma, Palermo, Lazio, Treviso, Bologna e Livorno. Attualmente è l’allenatore del Ciliverghe, secondo in classifica nel girone B della serie D.

Ciao Emanuele, benvenuto nel progetto «Atleti al tuo fianco». Parleremo con te della tua storia sportiva e della quotidianità di chi sta affrontando un tumore, sfrutteremo le tue esperienze calcistiche per portare alla luce aspetti di vita quotidiana di chi combatte contro il cancro che non sono sempre conosciuti. Prima di cominciare questo percorso insieme, raccontaci qualcosa di te che riguardi la tua vita ma che non sia connesso con la tua carriera di calciatore per la quale tutti ti conosciamo.

Ciao a tutti, mi chiamo Emanuele Filippini e la prima cosa che mi sento di dire è che sono un gemello, questa è già una cosa particolare rispetto a tutte le altre persone. Dicono di me che sono una persona solare, socievole, in effetti non faccio fatica a legare con le altre persone. Nel tempo libero mi piace suonare la chitarra e mi piace giocare a tennis, il mio lavoro attuale è ancora nel calcio e faccio l’allenatore, questo per dire che mi tengo sempre in movimento; il mio ideale di vita è quello di non stare mai fermo, ispirandomi a un mio grande mito che è Bruce Springsteen: mi considero un «Born to run», nato per correre, perché non ci si deve mai fermare, questo è senza dubbio l’aspetto dominante che anima il mio spirito.

Ci avviciniamo ora alle finalità del nostro incontro e parliamo di una situazione frequente quando si affronta un tumore: i ricoveri lontano da casa. Ciò comporta un distacco forzato sia da alcune persone la cui vicinanza immediata farebbe bene, sia da aspetti anche materiali cui si è abituati, come ad esempio il proprio cuscino. Tu hai fatto, gran parte della tua carriera sportiva potendo vivere a casa, da bresciano a Brescia, con Antonio tuo gemello, quindi anche un elemento della famiglia nella condivisione sportiva; poi un giorno ti sei trasferito a Parma, da dove poi ti sei spostato in varie città italiane. Ti è mai capitato di vivere situazioni lontane da casa in cui sentivi che avevi bisogno di un familiare vicino, in particolare in momenti delicati, e ti sei in qualche modo arrangiare emotivamente per superare certe difficoltà?
Sì, è capitato in certe situazioni della mia storia agonistica perché inizialmente ero sempre stato vicino casa, ma quando mi sono trasferito, nei momenti di sconforto sportivo, ad esempio dopo una sconfitta imprevista, hai bisogno di qualcuno vicino anche se resta tutto confinato all’aspetto calcistico. Se non c’è devi cercare di reagire, nel vero senso della parola: agire in risposta. Devi fare quello che hai possibilità di compiere per impedire al tuo stato d’animo di colonizzarti totalmente: organizzare una pizza con un compagno di squadra, ascoltare buona musica, guardare un film capace di coccolarti un po’ il morale, io facevo così. La cosa importante è mantenere sempre la mente pensante, come un alleato che propone alternative di fronte alle difficoltà, secondo me questa è una strategia che ti può aiutare.

Una situazione su cui lavoriamo in psico-oncologia con le persone che sono ammalate di tumore è la ricerca delle proprie doti individuali, da mettere a frutto nella battaglia contro la malattia, per scoprire quali mezzi del nostro carattere saranno strumenti preziosissimi per affrontare una condizione, in cui ti sembra di essere meno forte del tuo rivale nella sfida. Nella tua storia sportiva, c‘è una costante: quando ad inizio stagione venivano pronosticate le formazioni della tua squadra, eri spesso segnalato in panchina; se si va ad osservare le statistiche di fine stagione, in realtà sei poi stato schierato ogni anno in almeno trenta gare, un ottimo bottino per un calciatore. Quali sono stati i tuoi personali mezzi che hanno permesso di riuscire a fare trenta presenze l’anno in serie A, anche quando qualcuno ti vedeva come meno forte rispetto ai compagni ai quali contendevi il posto?
Per quanto riguarda la mia storia calcistica, abbino sempre due caratteristiche che mi hanno accompagnato in queste situazioni: la determinazione e la costanza. Determinazione non solo nei confronti degli avversari, ma anche verso l’apprendimento di nuove cose, ascoltando sempre l’allenatore per affrontare tutte gli aspetti sportivi che mi si presentavano. La costanza durante tutti gli allenamenti, durante tutte le partite, farmi trovare pronto quando il mister mi chiamava per giocare in qualsiasi situazione. Se lo fai una volta, dopo due giorni non lo fai, poi riprendi e interrompi di nuovo, non riesci a raggiungere gli obiettivi che ti poni. Ho cercato di impiegare al meglio queste due caratteristiche che fanno parte della mia indole, che mi ha aiutato a conquistare tutti gli anni il posto da titolare ottenendo obiettivi che per alcune persone esterne avrebbero potuto sembrare irraggiungibili.

In ambito oncologico, è molto diffusa l’abitudine di riportare ai pazienti percentuali di sopravvivenza ad una diagnosi, analizzando le storie precedenti riguardo ad un determinato tumore. Tuttavia, esistono molti pazienti che hanno scritto straordinarie storie di sopravvivenza e guarigione in situazioni in cui i numeri sembravano offrire poche speranze. Focalizzandoci sul tuo percorso di crescita calcistica giovanile, ti è mai capitato di sentirti dire «beh, Emanuele Filippini è forte, però è piccolo, non può diventare un calciatore con questo fisico», riuscendo poi a ribaltare questo affrettato pronostico?
Sì, mi è capitato molto spesso da ragazzino, sia a me sia a mio fratello Antonio perché eravamo effettivamente piccolini e lo siamo tutt’ora. Tanti dicevano «ma sì, riusciranno ad arrivare a giocare a bassi livelli»; poi facevamo la C2 e dicevano «eh, se non fossero così piccoli giocherebbero a livelli più alti», l’anno dopo in C1 «eh, vabbè, potranno giocare solo in C1». Tutto questo trovandomi poi ad aver totalizzato a fine carriera più di 200 presenze in Serie A. Queste persone non guardavano noi fino in fondo, ci confrontavano con le probabilità di altri; ma quando tu sfrutti le tue qualità, le tue caratteristiche, le metti al 100 percento sul campo, essere piccolo o grande significa poco, perché fortunatamente nel calcio possono giocare quelli grandi di 1.90 ma anche quelli un po’ più piccoli. Quindi è fondamentale mantenere equilibrio interiore di fronte ai numeri che raccontano storie di altre persone, capire che sono sì indicativi ma che non comprendono la tua singola capacità di scrivere la tua storia e trasformarla in un sogno che si concretizza.

Nella tua carriera sportiva, hai vissuto una storia particolare legata alla scomparsa di Vittorio Mero, tuo compagno di squadra e di stanza nei ritiri con il Brescia, morto in incidente stradale nel gennaio del 2002. Nella prima partita disputata dopo la tragedia in quel di Lecce, tu che eri particolarmente coinvolto per il legame che avevi con lui e per aver condiviso con Vittorio gli ultimi istanti prima dell’incidente, hai segnato il tuo primo gol in serie A, quello che nel finale certificava la vittoria allo stadio Via del Mare. Il video di quel momento, con te in lacrime sdraiato in terra e tutti i tuoi compagni ad abbracciarti, è una delle emozioni più forti della storia del calcio italiano (link video: http://www.youtube.com/watch?v=pRRzfs7hmVI&t=6s). Ci racconti come hai vissuto quella delicata esperienza personale e di come hai trasformato quel dolore in energia?
Mi ricordo che, quando ci siamo trasferiti a Lecce in ritiro, era il giorno dopo il funerale di Vittorio Mero; ho preferito stare da solo in camera, perché Vito era stato sempre il mio compagno di stanza e avevo bisogno di riflettere su certe cose, da solo nel mio mondo interiore. Il giorno della partita, io continuavo a ripetermi solo una cosa: «Vorrei cambiare mille situazioni di tutta questa vicenda, ma se c’è una sola cosa che è in mia possibilità di fare, è giocare con lo spirito che aveva Vittorio.» Mero era un tipo solare, un energico ma al tempo stesso una persona spiritosa, con una grossa vitalità. E quindi quando sono entrato in campo mi sono detto «lascio fuori il dolore e cerco di trasformarlo in ciò che lui era, perché nell’assurdità di tutto ci possa comunque essere un modo per rendergli onore e giustizia». In tutto quello spirito, nel dolore che comunque non poteva cambiare, abbiamo raccolto una vittoria importante unita per me ad un’emozione straordinaria, il primo gol in serie A. Non è facile provare ad mettere in disparte il dolore, perché sembra quasi di fare un piccolo torto a chi si vorrebbe riportare vicino a noi; eppure, che sia un amico o un familiare a cui si era legati, ciò che si può fare è di pensare a quali cose positive ci ha lasciato e provare a metterle in pratica. Il dolore rimane, ma in qualche modo così si celebra non la morte ma la vita: io con Vittorio ci sono riuscito, grazie soprattutto a lui e alla sua capacità di mostrare i suoi valori positivi.

Grazie Emanuele per la tua testimonianza. Sei sempre stato un esempio di determinazione e tenacia, da oggi sei un Atleta al fianco di chi combatte contro il cancro: le tue doti e le tue parole saranno spunto ed esempio per chi prova a trasformare una grande difficoltà della vita in una sfida da vincere quotidianamente. Noi siamo felici di averti nella nostra squadra.

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