La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare le difficoltà della quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire a queste persone la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Questa è la testimonianza di Fabio Soli, ex pallavolista e oggi allenatore della Vero Volley Monza.
Benvenuto Fabio nel progetto Atleti al tuo fianco. Insieme parleremo di pallavolo in un modo diverso dal solito: gli aspetti emotivamente intensi di questo sport saranno uno spunto per raccontare le difficoltà quotidiane di chi sta affrontando un tumore maligno. Approfondiremo la tua storia, da palleggiatore e da allenatore, perché tu possa condividere con noi alcuni aspetti della tua storia personale e sportiva. Per raggiungere insieme questo obiettivo, è necessario conoscerci meglio: raccontaci qualcosa di te relativo alla tua quotidianità fuori dai campi di pallavolo: chi è Fabio Soli quando rientra a casa dopo il proprio lavoro nel volley?
La mia vita è molto incentrata sull’attività lavorativa nella pallavolo, perché reputo che il tempo dedicatole sia una necessità per raggiungere risultati soddisfacenti. Quando poi esco dal contesto pallavolistico, emergono le mie origini molto semplici: i miei genitori sono agricoltori e mi hanno trasmesso una cultura molto legata alla campagna e soprattutto alla famiglia, alla quale dedico quasi tutto il mio tempo libero. Io sono il terzo di quattro figli e ho una moglie con la quale sono sposato dal 2009. Credo molto nei legami del nucleo familiare: mi piace andare a trovare i miei genitori, anche se vorrei farlo più spesso. Il mio lavoro mi ha condotto molto spesso distante da casa e questo ha comportato l’impossibilità di coltivare legami di amicizia storici nel corso della mia vita, le persone intorno a me che non fanno parte della mia famiglia sono poche ma devo dire comunque attaccatissime. Si chiamano legami ma io amo considerarle a tutti gli effetti delle passioni, perché la congiunzione con queste persone che mi circondano è per me viscerale.
La famiglia è un nucleo fondamentale per una persona che sta affrontando un tumore: in essa risiede la più profonda condivisione delle emozioni che si incontrano in un percorso oncologico. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il cancro una “patologia familiare”, perché le emozioni investono non solo la persona che riceve la diagnosi, ma con lei tutti i suoi parenti più stretti. Doversi allontanare da casa per affrontare le terapie è quindi un ostacolo molto complicato e il riavvicinamento a casa è visto molto spesso come un ritorno ad una dimensione che aiuta ad affrontare le difficoltà. Quanto è importante per un atleta che cambia spesso posto in cui gioca e allena, individuare un posto da poter chiamare casa?
Io mi reputo molto legato alla mia terra pur avendoci vissuto pochissimo tempo della mia vita. Io provengo da Baggiovara, un paese poco distante da Modena e, pur essendo legato a questi posti, penso in realtà di poter chiamare “casa mia” il luogo in cui vi sono i miei affetti. La presenza di certe persone è per me sufficiente per ritenere un posto la mia casa. Il mio lavoro mi ha obbligato a trasformare la visione in questo modo perché mi sono trovato spesso per lunghi tempi a latitudini variabili, in Italia ma non solo. Per me è stato importantissimo, per esempio, poter considerare casa mia Lamezia Terme quando mia moglie si è trasferita in pianta stabile lì con me mentre vi giocavo.
Quanto è stato ed è importante per te avere vicino il tuo nucleo familiare in certi momenti della tua carriera?
È fondamentale, perché arricchisce tutto quello che di bello tu riesci a raggiungere e perché solleva e rende meno penosi i momenti di difficoltà. La fatica di quando per giorni e giorni non ottieni risultati, se la condividi con chi nella tua vita rappresenta la tua certezza affettiva, si trasforma. Per questo ritengo fondamentale garantire la vicinanza fisica di almeno un familiare al fianco di chi affronta momenti delicati della propria vita: lo sport è solo un riduttivo esempio di una situazione ben più complessa come la battaglia contro un tumore.
Uno dei nemici più immediati che si conosce nell’incontro con il cancro è la perdita della lucidità: improvvisamente ci si trova disorientati, senza quei riferimenti certi che facevano parte della abituale vita quotidiana precedente alla diagnosi. Chi sta affrontando un tumore conosce bene la sensazione di dover prendere delle decisioni importanti con una sensazione di incertezza al proprio fianco. Tu da pallavolista hai svolto il ruolo di alzatore: a quali strumenti ricorrevi per gestire la lucidità delle tue scelte nei momenti decisivi per il raggiungimento dell’obiettivo finale, la vittoria del set o della partita?
È fondamentale avere degli strumenti pronti e ben allenati a cui poter ricorrere nei momenti in cui la lucidità vacilla, ed è una situazione che ho conosciuto non solo nel ruolo di alzatore ma anche ora da allenatore. Io mi affido ad un’analisi attenta e approfondita della statistica, dei numeri e della storia delle situazioni precedenti, ragiono molto sulle probabilità. In campo, mi basavo sull’efficenza dei miei giocatori facendo in modo che l’improvvisazione avesse un peso il più ridotto possibile nella scelta definitiva. Tuttavia da giocatore, la parte istintiva è sempre stata pronta ad intervenire perché non fosse soltanto la logica a dominare le mie scelte: non stiamo parlando del caso, ma piuttosto di una nota di colore che racconta qualcosa di te su una base costituita dalla logica. Una volta fatti bene tutti i conti per stabilire la direzione più opportuna, si può affidare all’istintualità la valutazione di un’alternativa alla scelta più evidente: in base alla forza con cui questa voce istintiva si manifestasse, compievo la mia scelta. Ma se avessi dato spazio a questa voce senza prima un’attenta analisi delle situazioni e della statistica, sarebbe significato affidarsi soltanto all’improvvisazione e al caso. L’istinto è una risorsa, perché è il tocco della tua personalità che nasce dai vissuti, dai sentimenti e dai presentimenti ed ha una ragione fondata, ma in assenza di lucidità può manifestarsi in maniera casuale ed estemporanea: per questo, quando la pressione aumenta e mette a repentaglio la lucidità, è l’analisi lo strumento fondamentale per stendere una base d’appoggio certo. Su di essa si può lasciar esprimere poi l’istinto, sia in accordo sia in contrasto con l’analisi stessa.
Approfondendo il tema delle pressioni, nella complessità delle dinamiche familiari è fondamentale aiutare chi sta affrontando un tumore a liberarsi dalla sensazione di dover soddisfare le esigenze di chi lo circonda attraverso le condizioni del proprio stato d’animo. Avere giornate nelle quali non si ha alcuna voglia di alzarsi dal letto o in cui si sente il costante e ininterrotto bisogno di piangere è un diritto sacrosanto dell’ammalato, offrire gli strumenti per liberarsi dalle pressioni esterne è un obiettivo importante in psico-oncologia. Tu hai svolto il ruolo di secondo alzatore a Modena: come riuscivi ad entrare in campo nei momenti di difficoltà della squadra nella pressione del PalaPanini, davanti ad un pubblico indicato come tra i più caldi e competenti d’Italia?
Il sentimento primario che mi ha guidato nell’esperienza modenese è stato il rispetto, perché ho sempre reputato oltre che un dovere un onore poter servire una piazza come Modena. Pur avvertendone la grande pressione, non mi è mai capitato di viverla in senso negativo, perché come tutte le cose per cui nutro grande rispetto, l’ho vissuta in modo servile. Ho sempre messo tutto me stesso in qualsiasi gesto o situazione abbia vissuto, con la consapevolezza che quando non sono stato all’altezza del palcoscenico su cui ero chiamato a giocare, avevo comunque dato tutto me stesso. Essendo il palleggiatore di riserva, io svolgevo un ruolo di contorno e le poche volte in cui sono stato chiamato in causa entravo in situazioni di difficoltà della squadra; non mi è capitato molto spesso di riuscire a sovvertire la tendenza per la quale venivo chiamato ad intervenire, anche se in alcuni frangenti questo mi è riuscito, e me li tengo stretti nel cuore. Tutti sogniamo di essere gli eroi della situazione e di salvare quel che sta andando male, a Modena ci sono riuscito pochissime volte; la certezza però di essere arrivato in fondo avendo dato tutto quel che avessi da offrire, è stato di grande sollievo quando l’obiettivo non veniva raggiunto. Anche se non si è contenti in certi momenti di fallire un obiettivo posto, quel che fa la differenza è il modo in cui hai cercato di raggiungere quell’obiettivo: se all’analisi delle energie e risorse impiegate ti rendi conto che le hai investite tutte, devi concederti la possibilità di aver sbagliato in pace con te stesso. La mia fallibilità è una caratteristica innegabile, fa parte di me come di ogni essere umano, me la tengo stretta.
Nel mondo dell’oncologia esistono delle persone fondamentali: si chiamano “Survivors”, sono coloro che hanno superato il cancro nella loro vita e decidono, attraverso il volontariato, di mettersi al servizio delle esigenze di chi sta ancora affrontando un tumore. Essendo passati direttamente attraverso la malattia, non esiste specialista che possa conoscere certe sensazioni meglio di loro. Tu da alcuni anni sei diventato da giocatore un allenatore: quanto è importante per te quello che hai appreso direttamente sul campo per essere oggi un coach valido e competente?
Quando vivi un’esperienza dal suo interno, è completamente diverso ciò che impari rispetto a quando la vivi da fuori. La possibilità di comprendere fino in fondo cosa stia provando chi sta in campo in un determinato momento della gara è molto importante per un allenatore, ed è una grande differenza tra gli allenatori che hanno giocato e quelli che non sono stati giocatori nel loro passato. Io ho anche la fortuna di non essere stato un grandissimo giocatore: questo mi aiuta tantissimo nell’andare incontro a certe mancanze che possono presentarsi nel gioco della squadra. Certo ho affrontato la pallavolo professionistica ad alti livelli, ma devo lucidamente analizzare che sono stato un grande giocatore soprattutto nei fallimenti: essere stato un giocatore fallibile, mi aiuta moltissimo oggi nel comprendere il possibile fallimento di un mio giocatore durante le partite. Sembra un paradosso, ma alcune volte la conoscenza nella propria vita di grandissime difficoltà può diventare una risorsa utile se messa a disposizione di chi affronta a sua volta quella stessa situazione. Penso che questa sia proprio la marcia in più anche dei Survivors: nessuno quanto loro può conoscere la profonda difficoltà di certi momenti.
Quando una persona si affaccia all’inizio delle terapie oncologiche, vive un momento molto delicato perché i chemioterapici presentano precocemente alcuni effetti collaterali di non facile sopportazione, mentre i loro benefici possono essere appurati solo in una seconda fase quando si effettuano esami di controllo. È importante ricevere gli strumenti necessari per gestire le emozioni nei momenti di difficoltà iniziali in attesa di conferme successive, anche se l’attesa di un tempo variabile non è un alleato. Quando da allenatore ti affacci ad una stagione pallavolistica, come gestisci le avversità quotidiane e settimanali in una fase lenta come la regular season in funzione di un grande obiettivo finale e distante come i playoff, quando ogni gara diventa determinante?
Io inizialmente ho impostato il mio ragionamento in questo modo: fisso un obiettivo, per quanto sia lontano lo tengo di mira e lavoro ogni singolo giorno per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Alla luce dell’esperienza maturata negli anni, oggi reputo fallimentare questo sistema di ragionamento: la strada è talmente eterogenea nella sua variabilità e imprevedibilità che porsi un unico obiettivo ad otto mesi di distanza e lavorare in funzione di quello non è il modo efficace per raggiungerlo. Da qualche anno a questa parte, io personalmente non mi pongo un obiettivo finale: lavoro ogni giorno ponendo degli obiettivi individuali e di squadra, siano essi tecnici, tattici o di natura prettamente personale; ogni obiettivo è studiato individualmente sul singolo per sé e sul singolo nei confronti della squadra. Ad oggi, questa è la modalità che mi ha dato maggiore riscontro di crescita e, di conseguenza, di risultato. Il raggiungimento di obiettivi mirati a breve distanza nell’individuo e nella squadra porta il gruppo ad un miglioramento; l’efficienza di questo percorso sarà l’elemento determinante nel conseguimento del risultato finale a lunga distanza. Porsi un obiettivo distante e lavorare solo in funzione del raggiungimento dello stesso non è efficace: c’è bisogno di micro-tappe, perché il rischio di perdersi all’interno di un percorso del genere è molto elevato. Chi ha ottenuto risultati stupendo, ha stupito quotidianamente. Noi dobbiamo lavorare sul miglioramento dei nostri strumenti, giorno dopo giorno: alla fine, guarderemo dove il lavoro ci avrà effettivamente condotti, e saremo soddisfatti se avremo lavorato bene.