Atleti al tuo fianco: Filippo Volandri

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Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in Psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della loro carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Prende parte a questa iniziativa Filippo Volandri, ex tennista italiano top 25 al mondo, oggi cronista sportivo per Sky Sport.

Ciao Filippo, siamo felici di averti con noi nel progetto Atleti al tuo fianco. Parleremo di tennis in un modo diverso dal solito, prendendo dallo sport lo spunto per raccontare alcuni aspetti della quotidianità delle persone che stanno affrontando un tumore. È un obiettivo importante che raggiungeremo insieme passo dopo passo in questa intervista, partendo da una domanda basilare: raccontaci un dettaglio della quotidianità che vivi tu, che senti centrale ora che hai concluso la tua carriera di tennista professionista.

Nella mia vita, adesso fuori dal tennis, sono prima di tutto un papà di una splendida bimba di nome Emma; la sto vivendo come un’avventura per la quale mi sento in partenza impreparato, ma ogni giorno imparo qualcosa e cerco di migliorarmi. La mia vita è cambiata completamente, adesso gira praticamente tutto intorno a lei. Mi sono sempre sentito bene solo quando ero certo di aver dato il massimo delle mie energie e delle mie capacità in ogni situazione mi si presentasse davanti; senza questa certezza, non sarei riuscito a dormire bene la notte: oggi vivo la stessa situazione con Emma da papà, anche se comunque proprio per questo dormo molto meno di prima, ma ne sono infinitamente felice.

In un percorso contro il cancro, è molto importante aiutare le persone a dare il massimo, sotto l’aspetto fisico ed emotivo. Ci sono momenti in cui questo è difficile, perché alcune volte si viene colpiti dal dubbio che le cure e tutti gli sforzi e sacrifici a loro abbinati, possano essere inutili. La psico-oncologia fornisce gli strumenti per superare questi momenti di dubbio che possono essere molto insidiosi. Ti è mai capitato all’inizio della tua carriera di vivere un momento in cui mettessi in dubbio tutto il percorso fatto per diventare un tennista e pensassi potesse essere stato tutto inutile?

Sì, mi è successo soprattutto tra i 16 e i 18 anni quando mi affacciavo per la prima volta alle soglie del mondo professionistico del tennis. Ho avuto la fortuna di essere sotto la guida di una persona competente ed esperta, un allenatore che per me è stato come un secondo padre: con lui sono infatti rimasto per 18 anni, che per uno sportivo significa un’intera carriera. Lui ha sempre creduto tantissimo in me, in certi momenti del percorso devo ammettere che forse lui ci credeva più di quanto ci credessi io: è una cosa che può succedere, ed è importante avere in quei momenti guide affidabili e sicure. Anche quando ero pieno di dubbi, lui mi spingeva sempre a dare il 110% e grazie a questo, il dubbio non scatenava il suo effetto deleterio sul mio percorso, fermandomi o facendomi regredire. Poi nella mia carriera ho conosciuto anche diversi infortuni seri che hanno messo in dubbio la mia prosecuzione nel tennis ad alti livelli, anche in questo caso la mia mente ha conosciuto l’invasione della messa in discussione delle certezze. In quei momenti, ho cercato di assorbire il più possibile da chi mi stesse vicino: il mio allenatore, la mia famiglia, la mia attuale compagna, in loro ho trovato sia la lucidità che a me veniva meno, sia lo stimolo per continuare a crederci, fidandomi anche quando dentro di me nascevano dubbi. Alla base di tutto deve però sempre esserci un motore: l’amore per il tennis, come l’amore per la vita, è quel che muove il tutto, aiutandoti ad accettare situazioni che non vorresti e a dare il 110% quando in realtà sei pieno di incertezze.

In che modo si manifestano le incertezze per un tennista?

Il tennis è uno sport di sensazioni: ci sono volte in cui il campo ti sembra infinito e la palla non esce mai, altre in cui ti sembra un coriandolo. Le sensazioni sono importanti, non è solo la realtà che conta perché, inevitabilmente, al centro ci sei tu, con le tue personalissime emozioni. Tu hai fatto lo stesso lavoro tecnico entrambe le volte ma, anche se la realtà è la stessa e il campo non cambia mai le sue dimensioni, tu sei variabile sotto tantissimi aspetti. È importante che trasformi queste sensazioni in azione, acquisendo esperienza e imparando a tenere la palla dentro e a colpire il coriandolo quando il campo ti sembra tale, perché se la sfida si gioca in pochi punti decisivi, tu in quel momento devi essere pronto con gli strumenti necessari per affrontarla e vincerla.

Una persona che incontra il cancro nella propria vita, su di sé o a fianco di un affetto, non si è allenata precedentemente e si trova catapultata improvvisamente in un mondo di emozioni tumultuose. La sensazione è di avere di fronte un nemico per il quale i propri mezzi a disposizione non basteranno mai. Di per sé credere di fronteggiare un avversario imbattibile è sufficiente per paralizzare completamente la mente, ed è uno degli aspetti primari che la psico-oncologia va a trattare. Nel corso della tua carriera, tu ti sei trovato come avversario agli Internazionali d’Italia Roger Federer, numero uno del mondo della classifica ATP. In quell’occasione giocavi davanti ad uno stadio pieno di italiani che facevano il tifo per te sapendo che probabilmente alla fine avresti perso. Tu hai vinto quella partita, mostrando a tutti che non conta chi è più forte ma chi vince la sfida. Ci aiuti a capire come si costruisca la vittoria contro l’avversario più forte che si possa incontrare sul proprio cammino?

Io l’ho sconfitto con l’amore per il tennis, con la voglia di far bene, soprattutto davanti a così tante persone che avevano pagato il biglietto per veder giocare Roger Federer e me contro di lui. Sicuramente sapevo che avere le persone intorno a me dalla mia parte avrebbe potuto aiutarmi, ed è stato un elemento determinante perché io riuscissi effettivamente a sconfiggerlo. Io ho giocato una partita sopra le mie possibilità, credo che nessuno prima del match avrebbe potuto sperare che io giocassi la sfida in quel modo. Anche questo rientra sicuramente nelle sensazioni di cui parlavamo prima: la voglia di fare bene davanti a così tante persone che ritenevano la mia vittoria un sogno mi ha spinto là dove non credevo di poter arrivare. Non è solo legato ad aver giocato bene il dritto e il rovescio, è qualcosa che va ben oltre a questi aspetti prettamente tecnici. Quando ti trovi davanti ad un ostacolo che sembra insormontabile, senza dubbio la prima reazione che incontri è lo shock che ti fa dire “E adesso, come posso pensare di superare tutto questo?”. Al tempo stesso però c’è una parte di te che ti spinge nelle condizioni di ricercare una soluzione, una strategia, una chiave. Questa parte di te nei momenti di shock è una vocina rispetto a tutto il resto, ma devi ascoltarla perché ti dà la voglia di trovare delle contromisure, di capire su cosa puoi contare e soprattutto di non abbandonare la volontà di provarci, fino in fondo.

Tu hai conosciuto nella tua carriera infortuni molto gravi: non trovi il tutto più difficile quando è il tuo corpo ad avere un avversario da affrontare?

Fermo restando che non posso minimamente paragonare un infortunio serio all’incontro con una diagnosi di cancro, è effettivamente più difficile quando ad essere messo in discussione è il tuo corpo e la tua salute. Però se risaliamo al principio del concetto che abbiamo appena raccontato, la sua validità non cambia. Mi ricordo che nel 2008 non riuscivo nemmeno a salire le scalette dell’aereo per il dolore alle ginocchia e mi dissero che le mie cartilagini si erano totalmente usurate, che non vi erano le condizioni per pensare di continuare a giocare. Sicuramente per uno sportivo questa è una situazione molto difficile e la mia reazione non è stata immediata. Però ho cercato piano piano di fare ogni cosa lo staff medico mi chiedesse di fare per ritornare ad avere delle articolazioni utilizzabili e, piccolo passo dopo piccolo passo, sono ritornato a giocare a tennis fino a riprendermi la posizione numero 40 al mondo. All’inizio di tutto sarebbe parso impossibile a chiunque. Poi come tutti i tennisti, sono invecchiato e ho smesso di giocare, però quell’ostacolo che pareva insormontabile lo abbiamo superato. Le persone che mi sono state vicino sono state determinanti in questo cammino di reazione, di ricerca di una soluzione al problema: mi hanno aiutato a capire che volevo continuare a fare qualcosa di buono, pagando qualsiasi costo in termini di fatica, dolore e lavoro.

Un paziente oncologico può dirsi guarito a cinque anni dal termine delle terapie. In questo momento del percorso ci sono due emozioni dominanti: la gioia di allontanarsi da una situazione costata fatica e il timore che essa si possa ripresentare. È importante apprendere, attraverso la psico-oncologia, gli strumenti necessari per affrontare le paure che rimangono negli angoli della mente anche una volta terminate le cure: inevitabilmente si è persone nuove, per certi aspetti limitate da alcune emozioni o in alcuni ambiti fisici, ma per molti altri evolute nelle proprie capacità. Nelle fasi finali della tua carriera, con infortuni alle spalle e tante stagioni nel curriculum, hai mai dovuto fare i conti con la sensazione di dover in qualche modo evolvere per convivere con le limitazioni che il tuo corpo ti imponeva?

È difficile quando ci si rende conto che non si hanno a disposizione gli stessi strumenti di una volta: non significa necessariamente in minor quantità, ma questa variabilità mette in discussione le tue certezze e non è facile questo per la tua serenità. La tendenza dentro di me in certi momenti era anche di pensare al peggio, che non ce l’avrei fatta con queste nuove risorse; però io ho sempre sognato nella vita di giocare a tennis, ed ero ancora, di nuovo lì sul campo. Magari a soffrire, ma io ero lì. Ero così felice, che non posso nemmeno dire che nella mia vita per tutto questo abbia fatto dei sacrifici: preferisco chiamarle rinunce, ma non erano certo sacrifici perché per me stare in campo mi rendeva una persona felice, anche quando mi accorgevo che non ero al 100%, anche quando il mio corpo aveva ridotto la propria capacità di performance. Ero su un campo da tennis, non mi serviva nient’altro: quel che il mio corpo non era più in grado di fare non poteva permettersi in alcun modo di inquinare la gioia che provavo per stare ancora lì con la racchetta in mano.

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