Parlare di cancro in maniera libera con sportivi professionisti, ponendo la luce su aspetti della quotidianità di chi sta combattendo un tumore mentre si dialoga di sport: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Entra a far parte di questa squadra di atleti Flavio Carera, cestista italiano, medaglia d’argento agli Europei 1997 con la maglia della Nazionale Italiana di basket.
Ciao Flavio, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”. La tua esperienza nel mondo del basket diventerà qui uno spunto per raccontare alcune situazioni della vita delle persone che stanno affrontando il cancro. Per raggiungere insieme questo obiettivo, cerchiamo di conoscerti meglio. Raccontaci la tua personale storia, quella che ti ha portato a diventare un giocatore di basket.
Ciao a tutti, vi ringrazio di farmi partecipare a questa bella iniziativa, sono felice che la mia storia sportiva possa essere un tramite per avvicinarsi con serenità a persone in questo momento ammalate, ma che come tutti devono affrontare, oltre alla malattia, la propria quotidianità. La mia storia cestistica nasce in quel di Bergamo, città dove sono nato: qui tutti i ragazzi sognano di giocare con un pallone, poco importa di quale sport; a dominare è solitamente il calcio, io stesso ne ero innamorato e passavo ore e ore a giocare ovunque, sul marciapiede, in oratorio, per strada. Poi la statura che andava via via manifestandosi e la vicinanza di mio fratello più grande, che giocava a pallacanestro, hanno fatto sì che io seguissi quell’esempio e cominciassi con il basket. Ho intrapreso questo sport con grande amore e tanto impegno. L’obiettivo iniziale è giocare nella squadra del tuo oratorio, poi in quella della tua città, e successivamente, piano piano, quando capisci che quella potrebbe essere la tua strada, farlo diventare un lavoro divertente. I miei genitori mi hanno sempre dato un grande aiuto: oggi è molto più semplice e immediato uscire di casa, trent’anni fa non lo era affatto. Io ho avuto la fortuna di avere il sostegno di due persone straordinarie che mi hanno sempre aiutato, senza subire mai la pressione o l’obbligo di riuscire ad arrivare da qualche parte. La componente iniziale deve essere il divertimento, senza assilli: è giusto che un ragazzo sogni, però deve avere accanto delle persone che lo accompagnino senza pressione. La vita è fatta di promozioni e bocciature, lo sport è una vera e propria scuola di vita. È necessario, quindi, accettare le delusioni, reagire e anche quando si è raggiunto l’apice: sono arrivato in Nazionale vincendo scudetti, ma anche affrontando sconfitte. Questa è, in sintesi, la storia di come io sia diventato un giocatore di basket.
Una persona in un percorso oncologico, è spesso sottoposta a molti spostamenti. Day Hospital, centri di radioterapia, visite specialistiche, ricoveri, interventi chirurgici: sono tanti gli ambienti che si cambiano. Occuparsi di ricreare situazioni familiari per il paziente, in cui possa sentirsi a suo agio, conoscendo il personale medico e paramedico che si occupa di lui, è fondamentale per elevare la qualità della sua vita quotidiana. Dopo aver lasciato Bergamo, tu hai giocato per circa una decina d’anni a Livorno, segnando una pagina importante della storia della Libertas ma anche della tua carriera:per riuscire ad elevare il livello del tuo basket, quanto è stato determinante far parte di un ambiente che giorno dopo giorno, stagione dopo stagione diventasse per te familiare?
Vivere in un ambiente che conosci è una cosa fondamentale, e qui è necessario dare merito alle dirigenze e alle società di una volta, che riuscivano a tenere compatto un insieme di ragazzi. Il nostro gruppo è rimasto unito per molti anni e abbiamo affrontato molte sfide, alcune finite bene alcune male, ma cercando sempre di rimanere insieme: una cosa che oggi non avviene più, poiché la velocità di cambiamento prende il sopravvento sulla continuità. Per noi è stato un elemento fondamentale: siamo arrivati a giocarci una finale scudetto, lì si è visto il lavoro di tutti, tifosi, città e società, che ci ha fatto crescere per giungere a giocarci determinati traguardi. Stare insieme, conoscersi, condividere le emozioni, è la base per costruire obiettivi comuni da raggiungere. Quando vinci è più facile, ma quando attraversi delle delusioni come le retrocessioni o stagioni non altrettanto buone, il fatto di rimanere insieme, di ripartire tutti insieme, ci dava la carica e la voglia di migliorarci. Ed infatti la nostra traiettoria è stata costituita da un lento salire. Poi, come tutte le cose, i cicli finiscono e irrompono altre condizioni e ci siamo di nuovo separati. In seguito, io ho avuto la fortuna di inserirmi in una città come Bologna e sono ripartito anche lì, rimanendoci cinque anni e creando un vero e proprio gruppo. Per ogni persona che entra in relazione con un ambiente, ci vuole il tempo per conoscersi e non è semplice, ma se poi riesci ad arrivare a quell’amalgama a cui punti, sai che puoi contare su determinate certezze. Addirittura, i tuoi limiti vengono celati dai tuoi compagni che ti vengono incontro e tu, magari, aiuti qualcun altro in ciò che sai fare bene, creando la chimica giusta. La familiarità con l’ambiente, nella mia vita, è stata determinante perché io riuscissi ad esprimermi al meglio.
Una persona che riceve una diagnosi di cancro deve affidarsi nelle mani di un’equipe di specialisti che si prenderà cura di lei, ma molto spesso le figure che lo accompagneranno nel percorso terapeutico, saranno persone nuove, non conosciute in precedenza. È molto importante curare il rapporto tra il medico e il paziente, affinché quest’ultimo possa provare quella fiducia indispensabile per fare un affidamento sereno nelle sue mani. Quando tu sei arrivato a Bologna, sponda Virtus, hai vinto tre scudetti consecutivi: quanto è stata importante la fiducia in Ettore Messina e Alberto Bucci, i due allenatori che ti hanno guidato in quelle imprese, per vincere quei campionati?
Ettore Messina è stato importantissimo per me perché mi ha sempre dimostrato stima. Lui era un allenatore molto giovane, quando ci siamo incontrati a Bologna era agli inizi della sua carriera, e non mi chiedeva di fare niente di più né di diverso di quello che facevo a Livorno. Io ho lavorato un anno solo con lui nel club, mentre il rapporto con lui è proseguito poi in Nazionale; i due scudetti successivi con Bologna sono stati vinti con Alberto Bucci, che era stato mio allenatore già a Livorno. Quando tu hai a che fare con un allenatore che ti conosce, lui sa tutti i pregi e tutti i tuoi difetti, riesce a stimolare i punti giusti. Entrambi questi allenatori sapevano come prendermi e mettermi nelle condizioni ideali per il loro modo di giocare. Tutto si basa sulla stima reciproca, perché se anche tu non hai stima nei confronti dell’allenatore, quei due passi in più non li fai e io per loro mi sarei gettato nel fuoco pur di far bene. Ho avuto anche tanti altri allenatori con i quali ho sempre cercato di fare bene ma, forse loro stimavano un po’ meno me o forse io non ho avuto un gran rapporto con loro. E certo, è semplice parlare bene di allenatori che ti facevano giocare e male di quelli che non ti facevano giocare. Poi vengono fuori le emozioni che hai dentro e con qualche allenatore lo fai di più e con qualcun altro inconsciamente lo fai di meno. Ma quando hai la passione per il basket, e ti senti una cosa unica con il tuo allenatore e i tuoi compagni, entri in campo e dai sempre tutto. È la situazione ideale.
Un tumore rimette in discussione tutte le tue certezze: ti porta a sentirti debole in situazioni che hai sempre dominato, ti offre situazioni che, se ben affrontate, faranno di te una persona capace di abilità nuove. Con la tua Virtus Bologna, nelle stagioni in cui avete vinto i tre scudetti consecutivi dominando il campionato italiano, quando giocavate in Europa vi misuravate con squadre di livello più alto, che vi hanno impedito di trionfare. Come ci si sente quando le proprie qualità vengono totalmente rimesse in discussione dalla forza dell’avversario con cui le si misura?
Noi sportivi abbiamo la “fortuna” di vivere in una sorta di ambiente ovattato. Poi, se non sei attento, ti scotti con la realtà. Se cedi, vai via in un attimo, ma se lotti, entri a pieno titolo nelle sfide, sia agonistiche, sia della vita. Quando a livello europeo dovevamo batterci con gente fisicamente e tecnicamente più forte, le nostre certezze diminuivano. In Italia sapevamo di essere forti e dovevamo semplicemente confermarci. In Europa avevamo dei deficit ben più ampi, incontrando realtà sportive molto più importanti di noi, ma ci provavamo lo stesso. A Bologna, purtroppo, io non ho vinto la coppa Campioni, ma anche lì è stato un lungo percorso di avvicinamento fatto di lotta costante stagione dopo stagione. La Virtus è riuscita a vincerla l’anno in cui io sono mi sono trasferito da Bologna: per riuscirci, il percorso fatto nelle stagioni in precedenza è stato fondamentale, anche se mi sono mangiato le mani per essere andato via proprio quell’anno, ma la mia era una sana invidia. Grande staff, grandi giocatori, una grande città: tutto ciò ha permesso di arrivare nel 1998 ad una coppa lungamente sognata, ma il percorso di crescita nella lotta degli anni precedenti secondo me è risultato determinante.
Non è facile però per una persona trovare le motivazioni per lottare quando i risultati tardano ad arrivare, quando la guarigione sembra farsi attendere. Tuttavia, la psiconcologia serve anche per capire che la svolta di un lungo percorso di terapia contro il cancro può arrivare in qualsiasi momento: per questo è fondamentale continuare a curarsi secondo le linee guida nazionali, impedendo alla mente di scoraggiarsi. Con la maglia della Nazionale, hai vinto la medaglia d’argento agli Europei nel 1997 dopo ben 4 europei consecutivi senza raggiungere il podio. Ti ha mai sfiorato il dubbio che non ci saresti mai riuscito?
Il fatto di avere fatto cinque europei è per me un motivo di orgoglio, perché significa che non ho mollato mai; non solo quando non arrivavamo a podio, ma anche quando, in altre competizioni, sono stato escluso dai convocati. C’è stata un’alternanza di situazioni belle e piccole delusioni. L’Europeo della medaglia, io l’ho fatto da capitano non giocatore, perché non ho giocato moltissimo, ma l’impegno che ho profuso in quell’occasione è stato sicuramente pari se non addirittura superiore a quello degli anni precedenti. Ero lì a 35 anni, sapevo benissimo che la mia carriera cestistica era nella sua fase finale, ero preparato a non giocare moltissimo, ma stare insieme a quel gruppo di ragazzi che stava crescendo è stato bellissimo. Mi sarei certamente meritato qualcosa di più negli anni precedenti, quando ero nel pieno della mia potenzialità fisica e sono stato premiato proprio quando il mio fisico iniziava a cedere, scontrandomi con giovani più preparati: chi avrebbe potuto prevederlo? Ma esserci è stato importante: devo ringraziare lo staff tecnico e quello medico, che molte volte mi hanno incitato a non mollare. Quel traguardo lo devo anche a loro.
Guarire è senza dubbio l’obiettivo primario di ogni persona ammalata di cancro. Attualmente, ci riesce più del 60% delle persone che hanno ricevuto una diagnosi di tumore maligno. Ma, nonostante l’obiettivo sia stato raggiunto, molte persone guarite faticano a riprendersi in mano la propria vita. Ci vuole pazienza, impegno e tanto esercizio mentale per entrare in totale sintonia con la propria esistenza post-malattia. Tu hai giocato per 21 anni in serie A di basket, poi la tua lunghissima carriera è finita. Come hai affrontato la fase della riorganizzazione della tua vita, senza allenamenti, gare e carichi di lavoro da sostenere?
Lo dico sinceramente: è stata un disastro! Nel momento in cui ho smesso di giocare, mi è crollata una parte della mia vita: non solo ha avuto fine la mia storia sportiva, ma ho avuto anche alcune vicissitudini personali che mi hanno fatto precipitare in un profondo stato depressivo. Ho passato degli anni un po’ incasinati, dove perdi delle certezze e ti senti smarrito, disorientato. Ho cercato riparo nell’ambiente in cui mi sentivo ancora più a mio agio: la pallacanestro. Mi sono mantenuto vivo lavorando nei settori giovanili: cercare di trasmettere la passione ad una generazione che ha tanti input da fuori dal campo, che ti portano lontano dalla pallacanestro, non è una cosa facile ma è tuttora un grandissimo stimolo. Io cerco di trasmettere le emozioni che ho avuto sul campo e che mi hanno permesso di fare 21 anni di serie A. Se riesco in questo mio intento, sarò stato capace di dare un senso ad una nuova fase di vita che ha perso delle certezze acquisite, ma che offre opportunità nuove. Il negativo ed il positivo ci saranno sempre nelle nostre esistenze: il negativo anche quando le cose vanno bene, così come c’è del positivo quando le cose vanno male. Oggi ritorno in palestra con i ragazzini, cercherò di fare del mio meglio, come mi auguro, sia così per tutti quelli che hanno letto questa mia testimonianza.