Atleti al tuo fianco: Giovanni Zeni

Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Giovanni Zeni, atleta di wheelchair tennis, che sta costruendo l’obiettivo della partecipazione alle paralimpiadi.

Giovanni, con Atleti al tuo fianco la tua vita sportiva e personale diventa spunto per fermarsi a conoscere e riflettere sulla quotidianità di chi affronta un tumore. La prima domanda è introduttiva: presentati al lettore di questa intervista partendo dal presupposto che lui non sappia nulla di te. Raccontati attraverso le cose che ritieni sia indispensabile sapere per conoscerti meglio.

Ciao a tutti, mi chiamo Giovanni Zeni e sono molto felice di prendere parte a questa iniziativa. Io mi ritengo una persona semplice, normale, che può essere una parola inconsueta per descrivere una persona che si trova su una carrozzina a causa di un brutto incidente, ma tale mi sento. Il mio lavoro è un’attività amministrativa in ospedale, ma dedico molto del mio tempo libero al tennis, in quanto sto cercando di raggiungere l’obiettivo molto ambizioso di partecipare alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Credo che in questa breve sintesi, ci siano i cardini della mia vita.

Incominciamo a conoscere alcune situazioni dell’oncologia. Il linfedema è un accumulo di liquidi nei tessuti in cui sono stati rimossi i linfonodi nel corso di un intervento chirurgico, che causa gonfiore e limita le azioni. Principalmente è presente negli arti e, mentre lo si cura per limitarne la comparsa e i relativi disagi, le persone si devono riadattare a svolgere le azioni quotidiane in modo un po’ diverso, talvolta per esempio utilizzando un arto diverso da quello che si è sempre usato. Tu pratichi la disciplina del tennis in carrozzina nella quale, a differenza del tennis tradizionale, le braccia vanno usate sia per impugnare la racchetta sia per spostarsi all’interno del campo, direzionando le ruote. Come hai vissuto la necessità di riadattarti nell’utilizzo dei tuoi arti per poterti muovere sul campo?

Dal giorno in cui ho subito l’incidente sicuramente ho dovuto attuare un processo di riadattamento, questo ha riguardato tanto lo sport quanto la mia vita quotidiana. Nella mia disciplina sportiva, le braccia sono chiamate in causa per lo spostamento e per colpire la palla con la racchetta, due azioni ugualmente importanti. Immagino sia difficile per un osservatore esterno comprendere la complessità dello svolgimento di questi due gesti in maniera sincrona, perché effettivamente è un’abilità che richiede molto tempo anche per essere acquisita. In qualsiasi situazione che richieda il riadattamento, la pazienza e la fretta sono due elementi contrapposti che compaiono nel nostro animo. È stato importante per me chiarire che la fretta mi avrebbe allontanato dall’obiettivo e che la pazienza sarebbe stata mia alleata: dal giorno dell’incidente ho impiegato mesi ad imparare ad utilizzare in modo corretto la carrozzina nella mia quotidianità, così come, da quando pratico questo sport, ho impiegato mesi ad utilizzare la carrozzina in modo funzionale al gioco. Una condizione totalmente diversa dalle abitudini precedenti, che ha richiesto un percorso lungo ma dal quale sto raccogliendo ora concreti risultati.

Uno degli obiettivi principali di Atleti al tuo fianco è mettere in contatto due realtà diverse, avvicinando le persone che vivono con un tumore alla società civile, che non conosce la vita quotidiana mentre si affronta il cancro. Realtà tutt’altro che distanti che, avvicinandosi, possono generare un reciproco beneficio. Nel tennis esiste la possibilità di giocare sullo stesso campo sfide di doppio, con la presenza sia di persone in carrozzina, sia di atleti che possono muoversi sulle proprie gambe. Come funziona questa dinamica?

Io, soprattutto d’estate, trascorro la maggior parte del mio tempo giocando a tennis con i miei amici tennisti cosiddetti “abili”. Non vengo trattato da loro come un disabile, ma come un atleta a tutti gli effetti. Semplicemente, quando si scende in campo in questa formazione mista, chi è sulla carrozzina usa le regole del wheelchair, quindi può colpire la palla anche dopo il secondo rimbalzo. Nient’altro che questo, e via alle partite insieme. Io d’altronde sono un tesserato della Federazione Italiana Tennis, quindi ho la possibilità di iscrivermi a tutti i tornei indetti dalla stessa. Gli altri atleti la prima volta che mi vedono entrare in campo non capiscono bene come comportarsi, ma appena iniziamo a giocare diventa evidente che lo sport può agire come un grande livellatore, rendendoci esclusivamente degli atleti, e non degli atleti abili o disabili. Questo è un messaggio che mi sta molto a cuore, che infatti ribadisco tutte le volte che ho la possibilità di parlare a dei ragazzi: noi siamo persone normali, chiediamo soltanto di essere riconosciute come tali. Non vogliamo essere guardati con compassione, ma nemmeno essere indicati come dei supereroi: siamo persone normali che fanno cose normali con gli strumenti che abbiamo a disposizione, esattamente come chiunque fa.

Molte persone quando si avvicinano ad una persona malata di cancro, avvertono la necessità di utilizzare un linguaggio edulcorato, nel timore di apparire indelicati e irrispettosi. In qualche modo si pensa che parole più dolci ammorbidiscano difficoltà reali: al contrario, ne acuiscono il contrasto. Questo atteggiamento contribuisce così a costruire una barriera di incomunicabilità tra la persona malata e coloro che la circondano. Quando si parla di disabilità, questa realtà è più che mai presente, spesso si fanno lunghi discorsi sul come sia più opportuno chiamare una persona disabile, rischiando di non preoccuparsi di come incidere attivamente nella realtà che questa persona vive. Qual è la tua idea in merito a questo?

Questo argomento mi sta molto a cuore, perché in effetti patisco la retorica ridondante che lo accompagna. A me per esempio la parola handicappato non infastidisce, racconta una realtà che esiste: io ho un handicap a tutti gli effetti. Come già detto prima, la cosa che mi sta a cuore e che ripeto tutte le volte che ho occasione di parlare in una scuola, è il desiderio di essere trattato come una persona, punto e basta. Io sono una persona, come lo è il malato di cancro, il malato neurologico o quello sano. Non chiediamo di essere trattati con compassione, perché certamente abbiamo delle difficoltà, ma ognuno ha le proprie difficoltà con cui deve fare i conti. Io ho perso mio padre diversi anni fa a causa di un tumore, ma ricordo che non mi sono mai approcciato a lui come a un malato oncologico, ma semplicemente come a mio padre. Vivere la mia situazione di handicap sicuramente mi ha portato ad essere più empatico nei suoi confronti di quanto forse non lo sarei stato in precedenza, ma certamente mio padre non ha mai cessato di essere per me mio padre per diventare soltanto un “poverino, ha il cancro”. Poverino lui non lo è mai stato, così come non lo sono io.

Un desiderio presente in un percorso di cura oncologico è la guarigione che riconsegni la vita che si aveva precedentemente alla diagnosi. Non è esattamente così, perché dopo una guarigione si ha vissuto un’evoluzione che rende esseri umani diversi da chi eravamo in precedenza. Che cosa, nella tua vita di oggi, ti fa resistere alla tentazione di desiderare di tornare la persona che eri prima dell’incidente?

Ciò che mi ha salvato, e continua a salvarmi tutti i giorni, sono gli obiettivi da raggiungere. Questo mi ha permesso prima di tutto di accettare quanto mi era successo ed in seguito di adattare la mia vita al mio nuovo stato di persona disabile. Pormi degli obiettivi è però stata la molla che mi ha dato uno scatto verso il senso di tutto: il primo obiettivo che mi sono posto dopo l’incidente è stato la ricerca di un lavoro, mentre quello odierno è la partecipazione ad un’Olimpiade. La cosa bella dei sogni è che non è nemmeno fondamentale che io riesca a raggiungerli, ma vivere con uno scopo e la consapevolezza di dare il massimo è qualcosa che mi dà un senso, a prescindere dal loro coronamento o meno. Trasformandolo poi da sogno ad obiettivo, aggiungerà una necessaria concretezza al meglio di me: a quel punto, quel che sono ora dominerà sul desiderio di tornare quel che ero, perché il mio presente è esattamente l’unico strumento per concretizzare il mio obiettivo nel futuro.

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