La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Entra a far parte di questa squadra di atleti Mara Santangelo, campionessa del tennis italiano, vincitrice della Fed Cup 2006 e prima tennista italiana della storia ad aggiudicarsi un torneo del grande slam, in doppio al Roland Garros 2007.
Mara, benvenuta in Atleti al tuo fianco; il tennis e la tua storia sportiva diventeranno uno spunto per raccontare alcuni aspetti dalla quotidianità di chi sta affrontando il cancro, situazioni di cui si parla poco e non sempre sono conosciute da chi non convive con un tumore. Per avvicinarci a questo obiettivo, partiamo dalla quotidianità di una tennista professionista: raccontaci qualche dettaglio della vita quando sta affrontando un torneo. Tu ne hai vissuti molti: come vive le proprie giornate una giocatrice mentre non è impegnata per le gare sul campo?
Noi tennisti siamo molto metodici, ordinati e seguiamo dei rituali per trovare quel feeling che ci permetta di sentirci come se fossimo a casa nostra, anche se siamo in giro per il mondo. Il percorso di avvicinamento ad un match è costituito da due sessioni di allenamento intenso che si vanno ad alleggerire sempre di più, fino a giungere ad una semplice ora e mezza di rifinitura in preparazione della partita. Il resto della giornata si svolge abbastanza normalmente, tra un’abbondante colazione, un pranzo, un po’ di riposo ed una cena leggera prima di coricarsi presto. La vita del tennista segue delle regole abbastanza fisse e non c’è molto spazio per altre cose, che siano semplicemente la visita delle città in cui si svolge il torneo o le uscite con amici: tutto ciò non è consentito dal ritmo degli impegni agonistici. Questo vale anche quando ad esempio si è in ritiro con la Nazionale: anche se si sta in gruppo, la sera alle dieci si è già tutte a letto! Tutto ciò è fondamentale per dar modo al tuo fisico di recuperare energie dopo gli sforzi effettuati sul campo, in allenamento o in gara, e per preparare la mente a concentrarsi in maniera lucida sulla gara successiva.
Entriamo ora in tematiche mediche: in oncologia spesso si sente parlare di percentuali di sopravvivenza, in Italia attualmente sopravvive circa il 70% delle persone che ricevono una diagnosi di cancro (fonte: AIOM). Alcune volte però, ci sono diagnosi iniziali che mostrano percentuali di sopravvivenza poco incoraggianti. Quando si comunica una diagnosi di questo tipo ad una persona, con serietà e professionalità è importante farle capire che in quei dati, la sua storia non è ancora presente, che bisogna mettere da parte la statistica e concentrarsi su una situazione ancora da scrivere. È quindi necessario aiutare le persone a focalizzarsi sul proprio percorso, sull’unicità dello stesso, sulle reali ed esistenti possibilità di concretizzare sopravvivenze inattese. Tu hai scritto due grandi imprese della storia del tennis italiano mai avvenute prima: sei stata la prima giocatrice a vincere un torneo del Grande Slam in doppio (al Roland Garros) e, con la Nazionale, siete state le prime a vincere la Fed Cup. Mentre tu ti avvicinavi a questi traguardi, quanto sentivi dentro di te la forza data dal poter concretizzare qualcosa di nuovo, e quanto, invece, ti sei dovuta scontrare con il timore di una situazione che nessuno prima di te aveva realizzato e che quindi potesse sembrare impossibile?
Io mi sono sempre reputata una giocatrice molto atipica, sia sul campo, sia nella testa, poiché addirittura mi immaginavo già in previsione di un futuro post-agonistico quando ancora giocavo. Per quanto mi riguarda, io avevo costantemente la proiezione di ciò che avrei fatto “da grande”, avevo il pensiero di concretizzare la mia personale storia, del tennis e del mio futuro. Entrando in campo durante la finale della Fed Cup mai vinta prima, io mi dicevo “qui posso davvero scrivere la storia dello sport italiano e mondiale, lasciando un segno importante”. Questo pensiero, però, non ha influito sulla prestazione, non mi ha messo molta pressione: è stato senza dubbio un pensiero di fiducia, che mi ha infuso il desiderio di rendere reale qualcosa che fino ad allora pareva impossibile e che, se avessi concretizzato, da quel momento sarebbe diventato possibile per chiunque dopo di me si fosse misurato con l’idea. Al contrario, le 10.000 persone che avevo intorno mentre giocavo, me ne hanno messa parecchia di tensione: in quei momenti, un po’ di pressione è inevitabile che ci sia. E l’ho vissuta anche di recente nel mio ruolo da non giocatrice nell’attuale Nazionale di Fed Cup, al match d’esordio di Deborah Chiesa: lei era paralizzata prima di entrare in campo, mentre poi è stata bravissima a gestire al meglio le emozioni una volta in azione. Quando sei chiamato in causa, la svolta mentale avviene quando comprendi che sei fatto per quella sfida, che ti sei allenato una vita e che hai avuto sogni e progetti che non si possono fermare per le tue paure: in questo modo, esse svaniscono, permettendoti di giocare al meglio le tue chances.
Le emozioni che riguardano una diagnosi di tumore non coinvolgono solo la persona che ha ricevuto la diagnosi: ad esempio in una coppia, anche chi è al suo fianco lo vive profondamente ed intensamente. In questi casi, non esistono dei ruoli di sostegno prestabiliti tra le due persone: in alcuni momenti, è chi ha ricevuto la diagnosi che sostiene il partner, altre volte avviene il contrario. Ci si aiuta a vicenda, supportandosi giorno dopo giorno. In uno sport in teoria individuale come il tennis, tu hai vissuto una carriera da doppista di primo livello: per raggiungere i grandi traguardi che hai tagliato, quanto è stato importante per te saper sostenere la tua compagna e, al tempo stesso, poterti appoggiare a lei nei momenti di difficoltà agonistica?
Bella domanda. Io credo molto nel gruppo e nella forza delle persone che hai al tuo fianco, ho scelto uno sport singolo, individuale, dove la maggior parte delle volte giochi da sola, ma c’è sempre quella che a me piace definire “squadra invisibile”, che ti dà quel supporto fondamentale anche se non si vede. Il tuo allenatore, il preparatore, la famiglia, gli amici: tutte queste persone sono determinanti e ti fanno capire che, nonostante questo sia uno sport singolo, dove sono il tuo nome e la tua faccia ad apparire, in fondo non è proprio un’attività agonistica solitaria. Quella “squadra invisibile” ti accompagna sempre, non ti lascia mai da sola. Ed è fondamentale, anche nella vita di tutti i giorni, attorniarsi di persone che ci aiutino, che ci sostengano, che possano fornire un supporto nei momenti difficili ma che ci siano anche nei momenti di gioia, perché così facendo, la condivisione delle cose belle assume un valore maggiore. Spartire una vittoria della maglia azzurra con un team fantastico come il nostro, con 15 persone che ruotano intorno alla nostra squadra, ha un valore aggiunto inimmaginabile, che ti dona un’energia pazzesca, che si trasmette nella tua vita individuale. A chi vive a fianco di chi abbia ricevuto una diagnosi di tumore, a me viene da consigliare di circondarsi di persone che possano dare a loro stessi aiuto e sostegno, donando l’energia e la positività necessarie per continuare, affinché poi possano trasmetterla a chi è al loro fianco. Ma anche di concedersi dei momenti dove, da soli, possano ricaricarsi e trovare forza. Io sono cattolica praticante e per me ci sono momenti di meditazione e di preghiera che mi danno quella forza che poi potrò trasmettere a chi mi sta a fianco. Quegli istanti sono estremamente preziosi, in loro assenza, io posso resistere una o due settimane, ma poi mi spengo. Sono come una fiammella, che va alimentata, o una piantina, che necessita di cure per crescere.
La fede può essere uno strumento di aiuto fondamentale quando si riceve una diagnosi di cancro. In quanto strumento, però, la fede non è di per sé una risorsa per forza di cose positiva: ne è esempio il caso di persone che la vivono come un contratto, “io prego e mi comporto bene ed, in cambio, ho delle garanzie da Dio di una vita sana e felice” e che si sentono tradite dall’incontro con il cancro. La domanda “Perché questo a me?” è spesso intrecciata con percorsi religiosi e spirituali che fanno della fede uno strumento che mette la mente in difficoltà. Vorrei che tu ci raccontassi in quale modo il tuo rapporto con la fede, nel campo personale e in quello sportivo, ha potuto essere per te uno strumento e una risorsa positiva.
Questa domanda necessiterebbe di un grande approfondimento, cercherò di essere sintetica. La mia fede è qualcosa di ereditario, nel senso che io vengo da una famiglia credente che mi ha sempre abituato alla preghiera. Nonostante ciò, io ho vissuto un periodo nel quale ero molto arrabbiata con Dio, imputandogli le colpe delle mie numerose sofferenze, come la drammatica perdita di mia madre in un incidente stradale quando avevo solo 16 anni, oppure il mio problema congenito ai piedi che mi ha profondamente segnata, impedendomi di esprimere quel talento che, a detta degli esperti del settore, avrebbe potuto dare maggiori e più prestigiosi risultati. Con il tempo, con le esperienze, una maggiore maturità ed un viaggio importante a Medjugorje, ho capito che, quando vivi quelle situazioni, non puoi rispondere a quel quesito “Perché? Perché a me?” poiché le ragioni solo successivamente saranno comprensibili. Io non credo nelle casualità, mentre credo in un piano di Dio ben definito, nell’unire i “puntini” come diceva Steve Jobs nella lectio magistralis agli studenti della Stanford University. La comprensione di quel piano e di quel disegno diviene possibile solamente con il distacco dovuto all’esperienza e al tempo, che donano significato al tuo percorso e ai tuoi incontri. Quei puntini, io li ho uniti con una grande serenità e ciò mi ha permesso di divenire la donna che sono oggi, avendo perseguito il mio sogno di diventare una tennista professionista, arrivando quasi a “benedire” questi piedi malandati perché grazie a loro, ho potuto tirare fuori qualche cosa in più che avevo in me e di capire molte cose. Tutto ciò non mi ha solo permesso di vincere, ma anche di capire che cosa c’è dietro ogni vittoria, di non concentrarmi solo sulla punta dell’iceberg ma di andare a vedere cosa c’è sotto. Con un pizzico di presunzione, posso dire che ho scavato profondamente dentro di me, capendo molte cose. Oggi posso accettare serenamente tutto il mio percorso di sofferenze e di gioie, poiché ho capito che anche la perdita di mia madre rappresentava una tappa fondamentale nella mia vita e che, in qualche modo, anche ciò ha partecipato al coronamento di quello che era anche un suo sogno: quello di vedermi tennista professionista a determinati livelli. Io le feci quella promessa ed è molto grazie a lei se ho avuto la forza di perseguire questo sogno comune, nonostante tutta la sofferenza. Allo stesso modo, posso accettare anche aver perso mio padre a causa di un tumore, che se l’è portato via in meno di tre mesi, nonostante questo mi abbia provocato un profondissimo dolore. Spero che questa mia confessione, a cuore aperto, possa essere chiara e che possa essere di aiuto, anche solo ad una persona. E se ciò si realizzasse, quello sarà un altro puntino raggiunto. Se questa sofferenza potrà mai essere di aiuto a qualcuno, allora si completa il disegno di Dio, quell’evento è servito a qualcosa.
Andiamo ad approfondire un’ultima tematica oncologica. Ci sono due gradi di difficoltà quando si sta affrontando un tumore: il primo è molto profondo, legato alle paure e agli affetti avversi delle terapie, il secondo legato a situazioni molto più comuni, come ad esempio le limitazioni motorie o nutritive temporanee. Nella vita noi ci alleniamo ad avere delle certezze e una delle cose che ci mette più in difficoltà sono gli imprevisti, paradossalmente in particolar modo, quelli piccoli. È fondamentale allenare la mente all’adattabilità: l’obiettivo non è infatti prevedere i disagi, ma saper adattare le proprie certezze per affrontarli. Un tennista durante l’anno varia le superfici su cui gioca, e questo causa un diverso rimbalzo della pallina e una diversa risposta dei propri movimenti sul campo: tu, che ti sei dimostrata efficace su ogni superficie, come affrontavi queste piccole modifiche di certezza?
Ci deve essere una grandissima flessibilità, che è sì inerente a quella del campo, alla pallina, ma è anche quella della vita quotidiana: un tennista cambia costantemente le proprie piccole certezze, come il letto, il fuso orario, la temperatura. Tutti gli atleti devono avere questa adattabilità, ma ciò è ancora più marcato in un tennista. Lo sport è una grande palestra di vita, dove tutto è una sfida. Io tengo a ribadire nei miei incontri formativi, in particolar modo nelle scuole, che “più fai una cosa e più la fai bene”, insistendo sulla ripetitività di un gesto e di un’azione, poiché l’allenamento aiuta l’adattabilità. Federer, Nadal, sono i migliori al mondo perché, intorno a loro, hanno persone che li aiutano a migliorare e ad eccellere, eppure parrebbe non abbiano bisogno di imparare ancora qualcosa. Invece, il ruolo del coach è fondamentale perché egli possiede uno sguardo “che sa” e che ti direziona ancora di più verso l’alto, dandoti la motivazione giusta al momento giusto. Allenare la ripetizione e la flessibilità è fondamentale, perché un tennista passa dieci mesi all’anno in giro per il mondo in situazioni spesso molto diverse da loro. Ma non esiste nulla che non possiamo fare: dipende solo dalla volontà di sacrificio e di impegno che ciascuno di noi è disposto a mettere in gioco.