La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare le difficoltà della quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire a queste persone la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Questa è la testimonianza di Marco Cecchinato, tennista italiano top 100 della classifica mondiale ATP.
Ciao Marco, benvenuto nel progetto Atleti al tuo fianco. In questa intervista parleremo di tennis in modo differente dal solito: lo sport sarà infatti spunto per raccontare alcuni aspetti della quotidianità di chi sta affrontando un tumore maligno. Per avvicinarci insieme a questo obiettivo, per prima cosa raccontaci qualcosa di te che non conosciamo: chi è Marco Cecchinato quando posa il borsone da tennis o è a riposo dai tornei in giro per il mondo?
Ciao a tutti, sono Marco Cecchinato, vengo da Palermo; mi ritengo un ragazzo semplice, appassionato di tutti gli sport. Mi piace particolarmente quando lo sport diventa possibilità di relazione: se non svolgessi ogni giorno sul campo la mia attività da tennista, penso che starei al circolo dove sono cresciuto per far giocare i bambini, aiutarli a divertirsi e a crescere. Stare con persone più giovani e cercare di trasmettere loro sicurezza in momenti chiave della crescita che io ho già incontrato è un aspetto che mi appassiona particolarmente, lo trovo molto stimolante per me e al tempo stesso un potenziale beneficio per chi lo riceve. A casa mia, al mio circolo, mi sento molto benvoluto e devo dire che anch’io amo tantissimo stare in mezzo a loro.
Il rapporto con la casa, i propri familiari ed affetti è un tema particolare in oncologia: spesso si vive forzatamente lontani dalle persone con cui si vorrebbe condividere il proprio tempo e le proprie emozioni, aggiungendo difficoltà ad un ambito emotivo già molto provato. Nella tua vita da tennista professionista, che ti porta di settimana in settimana in nazioni diverse nel mondo, come vivi la distanza dal tuo nucleo familiare?
Io ho lasciato Palermo quando avevo 17 anni, essendo figlio unico il distacco con la mia famiglia non è stato facile, anche se ovviamente stiamo parlando di una distanza non forzata come per una malattia, ma all’interno di una scelta di vita votata al tennis professionistico. Certamente però, concentrandoci sulle emozioni di un nucleo familiare, non è stato un momento facile, soprattutto per chi vive il legame con la famiglia in maniera intensa come noi italiani, specialmente del sud. Da Palermo mi sono trasferito a Bolzano, in un ambiente molto diverso rispetto alle mie zone di provenienza: quando si viene spostati geograficamente, non c’è infatti solo la distanza da tenere in considerazione ma anche l’inserimento in un contesto variabilmente differente rispetto alle tue abitudini. Stare lontano da casa all’inizio è stato molto difficile per me, però avevo chiaro che stessi inseguendo un obiettivo e che questa fosse la strada necessaria. Posso solo immaginare quanto complesso possa essere per chi viene allontanato da casa per affrontare le terapie; io ho vissuto nel 2016 la situazione inversa con una zia, alla quale sono legato come se fosse la mia seconda madre e con la quale sono cresciuto: ha ricevuto una diagnosi di tumore maligno ai linfonodi mentre io ero forzatamente distante perché continuavo il mio lavoro di tennista. Oggi la racconto con il sorriso perché a fine 2016 questa battaglia è stata vinta, ma se ripenso all’impossibilità di esserle vicino fisicamente mentre stava male, alla necessità di concentrarmi sulle mie partite quando l’unica sfida che veramente mi interessava vincere era la sua battaglia contro il tumore, rivivo momenti non facili.
Chi affronta il cancro sa che esistono momenti emotivamente estenuanti, nei quali si vive la tentazione di dire “rinuncio a tutto, non ne voglio più sapere, non mi voglio più curare, lasciatemi solo stare a casa”. La psico-oncologia, praticata da medici e psicologi adeguatamente titolati e formati, offre gli strumenti per fronteggiare questa situazione. A condizioni invertite, hai mai vissuto un momento sportivo buio con la tentazione di buttare in un angolo il borsone con le racchette e andare fisicamente vicino alla zia con cui hai condiviso a distanza la battaglia contro il cancro?
Di sicuro ci sono dei periodi nei quali, quando non arrivano i risultati attesi, si viene presi dalla tentazione di buttare tutto da parte, a me è capitato spessissimo. Certo, ho la fortuna di fare come lavoro uno sport: se perdi, la settimana dopo hai già una nuova opportunità di riconfrontarti con una nuova sfida, e questo si verifica ciclicamente con costanza. Il problema si verifica quando la negatività non ha come unica sorgente il campo, ma ci sono problemi nella vita privata che in qualche modo si ripercuotono nei tuoi pensieri: il 2016 è stato sotto questo aspetto un anno molto particolare, ho avuto molti momenti negativi nei quali inevitabilmente mi sono confrontato con vari dubbi, soprattutto pensando a chi stesse intanto lottando per la propria vita mentre io ero così distante. Bisogna mantenere la lucidità e l’equilibrio nelle decisioni per maturare idee che non siano figlie dell’impulsività, ma quando si è mentalmente in difficoltà questo non è facile.
In psico-oncologia, un nemico molto insidioso ha un nome particolare e si chiama “QUASI”. Per i pazienti, sentire un traguardo che si avvicina fa prospettare scenari di completamento di un’impresa, ma molte volte il tumore richiede terapie supplementari, visite di controllo, esami strumentali che prolungano i tempi necessari per raggiungere la certezza della guarigione. Sentirsi “quasi” al traguardo e dover affrontare ulteriori tappe è molto pericoloso per la mente di chi affronta il cancro: si corre il rischio della sensazione di un labirinto che non presenta mai uscita definitiva. Quante volte nella tua vita tennistica ti sei sentito vicino ad un’impresa solo sfiorata? Quante volte hai incontrato nella tua carriera il “quasi” che non ti portava al raggiungimento del traguardo?
Nella carriera di un tennista, c’è una condizione che è un obiettivo primario per tutti da quando iniziano a giocare a tennis: la stabilità nella top 100 della classifica ATP. Io sono riuscito ad arrivare fino alla posizione 82 fino ad oggi, ma recentemente mi ritrovo settimana dopo settimana intorno alla centesima posizione, per cui il “quasi” non è solo un elemento della storia passata ma un avversario che incontro costantemente nella mia vita tennistica. Il problema del “quasi” sta nell’avere bisogno di traguardi, intermedi o finali, quando in realtà la sfida si rinnova costantemente: questo però nel tennis è dannoso, perché il raggiungimento di un traguardo non significa avere finito le sfide, mentre la sensazione di sfiorarlo appena ti fa sentire lontano dagli obiettivi. La soluzione sta nell’affrontare settimana dopo settimana ogni singolo torneo, concentrandosi su ogni partita e poi sulla successiva: la classifica sarà il semplice sommarsi di ogni singolo passo effettuato nel mondo corretto, formando così un lungo tragitto positivo.
La distanza tra la diagnosi di cancro e la guarigione è un percorso molto lungo, eppure sin dal primo momento l’idea di raggiungerla pervade la mente di un paziente, lasciando stimoli positivi ma anche scorie negative. Hai mai avuto la sensazione di essere riuscito con il tennis a rendere reale qualcosa che in partenza potesse sembrarti solo un sogno?
Quando ero bambino il mio sogno era la top 100, per cui quando nel 2015 vi sono entrato, lì ho avuto la sensazione di aver reso concreto il mio più grande desiderio. Una volta superato quel muro che ha sempre suddiviso in due il mio percorso, penso sia più corretto parlare di obiettivi e non di sogni. Rendere reale un sogno è una cosa bellissima, ma anche raggiungere gli obiettivi prefissati lo è: attualmente il mio obiettivo è di superare la migliore posizione che fino ad oggi ho avuto in classifica, ovvero la numero 82.
Nel lungo percorso delle terapie contro il cancro, i momenti in cui il paziente percepisce la svolta positiva sotto il profilo clinico sono delle isole di salvezza raggiunte dopo una lunga navigazione in mare aperto. I tempi delle terapie sono infatti lunghi prima che un esame strumentale possa certificare il miglioramento del tumore primitivo. Quanto deve navigare un tennista nei circuiti futures e challenger per incontrare le isole che possano rappresentare una svolta decisiva per l’approdo in pianta stabile nei tabelloni del circuito maggiore ATP?
Chiaramente, le due navigazioni di cui parliamo hanno un impatto sulle emozioni dell’attesa completamente diverse: aspettare l’esito di un esame strumentale dopo un lungo tempo in terapia non ha la stessa valenza dell’attesa di una vittoria importante che faccia svoltare la classifica tennistica. Però in generale, il periodo dell’attesa necessaria per raggiungere un momento di svolta positiva può essere molto difficile da vivere quando si prolunga nel tempo. Lo è nel tennis, non solo in base alla categoria del torneo ma soprattutto nei periodi in cui si raccolgono poche vittorie; figuriamoci quanto lo possa essere in oncologia, quando l’esito della sfida mette sul piatto la tua salute, la tua guarigione, la tua vita. Bisogna mantenere la lucidità di capire che l’attesa non è una sconfitta: certo si va a scontrare con la voglia di guarire, di ricevere la notizia del progresso clinico velocemente, ma non è un’attesa passiva. Se si riesce ad affrontare le tappe molto lunghe mantenendo l’attenzione su quanto si sta facendo come azione e non come attesa, si evita la bruttissima sensazione che aspettare per tanto tempo un miglioramento sia una sconfitta. Non è così: questa percezione va contrastata con la certezza di star compiendo un percorso in maniera attiva verso la tappa successiva. Questo ti dà forza, anche quando serve molto tempo perché arrivino i risultati.