Atleti al tuo fianco: Marco Bonitta

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Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Marco Bonitta, general manager della Bunge Ravenna Volley e allenatore campione del mondo nel 2002 con la Nazionale Italiana di pallavolo femminile.

Ciao Marco, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”. In questa intervista analizzeremo alcuni aspetti della pallavolo e della tua storia sportiva in un’ottica diversa dal solito: essi saranno infatti spunto per confrontarci ma soprattutto per conoscere alcune difficoltà della vita quotidiana di chi sta lottando contro il cancro. Per avvicinarci insieme a questo obiettivo, presentati ai lettori di questa iniziativa parlandoci della tua quotidianità al di fuori del mondo del volley: chi è Marco Bonitta quando rientra a casa dall’attività nella pallavolo?

Ciao a tutti, vi racconto un po’ della mia quotidianità fuori dalla pallavolo, che è completamente dedicata alla famiglia: ho una moglie e tre figli, due quasi coetanei di 17 e 15 anni, una più piccolina di 8 anni; da papà ogni giorno vivo quindi le dinamiche sia dell’adolescenza sia dell’infanzia. Nel momento in cui arrivo a casa, mi spoglio completamente dalle situazioni della pallavolo, anche se i due figli grandi incominciano a provare interesse verso la mia attività lavorativa, ascoltando racconti e punti di vista della storia di un papà nella pallavolo che fino ad oggi hanno visto come abbastanza distante. La piccola invece mi coinvolge con le sue costruzioni di mattoncini e i suoi giochi, uno splendido spiraglio per rivivere emozioni dell’infanzia. Per quanto riguarda le mie passioni, mi piace molto la storia, mi interesso soprattutto di biografie, quella di Giuseppe Garibaldi è la mia lettura più recente. Alle mie spalle ho una storia di un papà che è stato profugo dell’Istria, motivo per il quale sono spesso alla ricerca di informazioni sul quel periodo storico.

La conoscenza delle informazioni è un aspetto importante per prendere contatto anche con la realtà oncologica che ci circonda. In Italia ci sono ogni anno circa 360.000 nuove diagnosi di tumore maligno, dato comunicato da AIOM. Il 40% di essi sarebbe evitabile seguendo uno stile di vita corretto: un dato molto importante, ma che mette anche in luce che la maggior parte dei tumori non è figlia degli stili di vita. È quindi fondamentale aiutare le persone che ricevono una diagnosi di tumore a liberarsi dai sensi di colpa conseguenti a comportamenti non in linea con le indicazioni della prevenzione, focalizzandosi non su cosa si sarebbe potuto fare di diverso in passato ma su cosa sia necessario fare nel presente e nel futuro per raggiungere l’obiettivo della guarigione. Nel tuo lavoro di allenatore, quanto è importante aiutare un giocatore o una giocatrice a liberare la mente dalle scorie di un errore commesso in precedenza perché sia ancora al massimo dell’efficienza per il punto successivo?

Essendo la pallavolo uno sport di squadra, abbiamo un grande strumento in mano: abituare fin da giovani i giocatori e le giocatrici ad aggrapparsi agli altri, a chi sta di fianco. In certi momenti anche a nascondersi dietro la forza di chi ti sta a fianco, questo può succedere nella consapevolezza di sentirsi squadra fino in fondo: nel momento in cui poi si vince, si vince tutti insieme. È chiaro che far dimenticare o, comunque, trasformare velocemente la mente di un giocatore che ha commesso un grave errore non è semplice, anche perché lui per primo è consapevole del contrasto fra l’errore stesso e l’intervento esterno teso a farlo dimenticare; realmente, dentro di sé, lo sente comunque come pesante ed esistente. È molto più facile dopo, a partita finita, raccontare quel che è normale, ovvero che ognuno di noi può sbagliare, anche gravemente. L’obiettivo dell’analisi dell’errore è far sì che questo avvenga sempre meno e sempre meno pesantemente. Sentirsi in colpa fa parte del giocatore, perché sbagliare fa parte del gioco come della vita; è importante riprendere velocemente in mano la situazione, trovando degli strumenti per affrontare la stessa situazione con maggiori possibilità di non ripetere l’errore commesso. Si può sbagliare, bisogna allenarsi a sbagliare meno, bisogna allenarsi ad accettare l’errore.

Sottoporsi alle cure di un tumore richiede una grande preparazione mentale: i cicli e le sedute della terapia scelta dallo staff oncologico si susseguono nel tempo senza che vi sia un’evidenza immediata dei benefici che essi esercitano. Gli esami di controllo riveleranno infatti l’evoluzione o la regressione del tumore in un momento non immediato rispetto alla frequenza istantanea delle terapie. Quando però la data dell’esame di controllo si avvicina, è fondamentale disporre di strumenti adeguati per incanalare l’angoscia del verdetto in una direzione positiva, senza che essa possa prendere il dominio nella mente. Tu da allenatore hai affrontato sfide importanti, come finali mondiali ed europee o partite ad eliminazione diretta nelle Olimpiadi: con quali strumenti hai gestito la comparsa dell’ansia nelle tue giocatrici all’avvicinamento della sfida? E come hai gestito la tua tensione dentro di te?

Per noi sportivi, una finale di coppa del mondo, un quarto di finale di un’Olimpiade sono le situazioni di più alta tensione che si possano incontrare, perché è vero che lo sport è un gioco, ma per chi lo fa di lavoro è la storia della propria carriera e a volte anche di più. Nel momento in cui ci si avvicina a questi appuntamenti importanti, da allenatore è fondamentale offrire ai propri giocatori e alle proprie giocatrici delle certezze, non su ciò che avverrà, ma su quanto è stato fatto nel percorso di avvicinamento all’evento. Io ricordo bene che in certi momenti è stato fondamentale poter guardare in faccia la mia squadra e dire loro “non c’è nulla di meglio che potessimo fare per arrivare fin qui a giocarci questa partita”. Un concetto di questo tipo può essere efficace solo se davvero corrispondente alla realtà: lavorare bene, sbagliare e ricominciare da capo, spendere le proprie energie fino in fondo in ogni singola situazione sono situazioni che non si possono né improvvisare né mistificare, è la realtà che te ne dà ragione. Io ho potuto dire loro “sono sicuro che oggi faremo una grande partita perché abbiamo fatto bene gli allenamenti, ci siamo alimentati bene, abbiamo creato una valida alternanza fra sforzo e riposo” perché così abbiamo sempre fatto, ogni giorno, senza lasciare nulla al caso. La vittoria non poteva dipendere solo da noi, entrano in gioco gli avversari; ma tutto ciò che potesse dipendere da noi, lo avevamo preparato nel migliore dei modi. Questo è il percorso necessario per poter dare certezze su quanto fatto, acquisire elementi di sicurezza nell’avvicinamento ad un evento il cui esito non è prevedibile è ciò che più mi è stato utile per aiutare le mie giocatrici a giocarsi sfide di grandissimo valore sportivo dominando la sensazione d’ansia della data incombente. Lo stesso discorso vale per me: è chiaro che l’allenatore deve essere credibile, questo concetto lo deve sentire per sé per poterlo poi trasmettere: ne ho la prova di questo perché quando ho ripetuto questo pensiero in situazioni in cui io per primo non ne fossi intimamente convinto, non mi vergogno ad ammettere che non ha avuto la stessa importanza né validità. Questi sono concetti di emotività fine, perché devono trovare pertugi di efficacia attraversando una barriera di tensione molto alta, ed è proprio per questo che devono corrispondere realtà e convinzione perché l’intervento possa essere efficace. Devo dire che quasi sempre, quando con la mia squadra siamo arrivati a giocarci traguardi importanti, la realtà ci dava basi di partenza credibili per sentirci pronti per farlo.

Chi riceve una diagnosi di cancro che richieda un intervento di chemioterapia immediato non dispone di molto tempo per il recupero fisico e mentale nella fase delle terapie: si viene rapidamente convogliati nei cicli di cura e, tra i ricoveri e lo smaltimento degli effetti collaterali, spesso si è di nuovo richiamati per la successiva sessione di chemioterapia. L’intervento di psico-oncologia finalizzato a donare strumenti per affrontare questa fase deve essere veloce e molto efficace, perché è un momento delicato del percorso. Nella pallavolo, quando la squadra affronta un momento di difficoltà, l’allenatore dispone di uno strumento: il time-out discrezionale. Nella tua carriera, in quali momenti decidevi di chiamarlo? E come riuscivi ad essere efficace nel minuto a disposizione?

Solitamente un time-out si chiama nei momenti di difficoltà, anche se ultimamente qualche mia collega lo ha fatto anche nei momenti positivi della propria squadra; io credo che una squadra percepisca in campo i benefici della fase positiva della gara, mentre quando si guarda intorno smarrita perché non trova strumenti per opporsi ad un trend negativo è il momento in cui ha bisogno dell’allenatore e del time-out. Nella mia vita, non ho mai usato un time-out uguale ad un altro, perché a volte ho agito sull’aspetto tecnico, altre sulla componente emozionale e caratteriale. La cosa più importante secondo me è cercare di spostare il focus dal pensiero parassita che investe in alcune occasioni i giocatori: il punto perso, l’errore fatto, il parziale negativo, la difficoltà di non riuscire a compiere determinati gesti lasciano scorie dalle quali è necessario liberarsi per ripristinare la condizione ideale per affrontare il punto, la tappa successiva. Nell’ambito dell’oncologia, io ho vissuto questa situazione 6-7 anni fa con la mia mamma e mi ricordo bene che è una situazione difficile, perché quanto facciamo noi nello sport è ben poca cosa rispetto alla tempestività di intervento clinico, chirurgico, psico-oncologico che è richiesta all’équipe medica in queste situazioni.

In oncologia si fa spesso ricorso alla statistica per aiutare il paziente ad orientarsi nella propria condizione clinica: ad esempio, sapere che in Italia oltre il 60% dei pazienti sopravvive ad una diagnosi di cancro, dato numerico che supera l’80% se la diagnosi avviene in età pediatrica-adolescenziale, è un riferimento iniziale importante per acquisire un elemento concreto. Tutta la statistica però si basa sui casi precedenti e non si riferisce alla storia della persona che ci si trova davanti, che è ancora da scrivere: alcune volte ci possono essere pazienti che riescono a guarire là dove nessuno vi era mai riuscito prima. Aiutare una persona a credere di poter scrivere una storia mai verificatasi in precedenza non è facile. Nel 2002 tu hai vinto, per la prima volta nella storia della pallavolo italiana femminile, il campionato del mondo: quando hai cominciato quella manifestazione, avevi dentro di te e nella mente della tua squadra la convinzione di poter concretizzare un’eventualità mai verificatasi in precedenza? Come si allontana la sensazione di sentirsi coinvolti in un’illusione?

La vittoria di quel Mondiale nacque da una grande sconfitta che noi subimmo ad una manifestazione precedente, le qualificazioni per il torneo estivo del Grand Prix. Uscimmo infatti in maniera rocambolesca, per alcune strategie di convenienza di altre squadre e questo ci diede una grande forza, perché siamo stati eliminati senza aver in alcun modo tradito i principi fondanti dello sport. Ci siamo quindi resi conto che si potesse e al tempo stesso di dovesse costruire una squadra in grado di vincere; non abbiamo mai comunicato pubblicamente questa certezza, ma noi stavamo lavorando per questo. Ho trovato un gruppo di ragazze che da quella delusione e sconfitta, hanno saputo lavorare seguendo ciecamente le proprie aspirazioni e la strada che stavo segnando loro per costruire la vittoria su obiettivi grandi, obiettivi a media distanza e obiettivi quotidiani. Trovo emblematico un episodio: quell’anno passammo il Ferragosto in palestra ad allenarci nel bresciano a Boario Terme e quando arrivò il 14 agosto, ci rendemmo conto che il giorno successivo tutto il mondo sarebbe stato in spiaggia o in altre situazioni a festeggiare liberamente. Il 15 entrai in palestra un po’ timoroso per questo, quasi imbarazzato, ma le mie ragazze furono più brave di me e mi dissero “Non ti preoccupare, Ferragosto lo viviamo lo stesso ma in un’altra maniera”. Tornammo in albergo e trovai una sorpresa: tutta la mia camera era stata totalmente messa a soqquadro e riempita di schiuma da barba in ogni suo angolo. Sceso di corsa per chiedere spiegazioni, mi innaffiarono completamente d’acqua da capo a piedi. In quell’esatto istante capii che il gruppo c’era e porsi l’obiettivo di costruire un evento mai verificatosi precedentemente non era in alcun modo un’illusione. Noi abbiamo lavorato per vincere, e quei due anni in cui raccogliemmo in successione un argento agli Europei e l’oro ai Mondiali sono stati probabilmente i più importanti della mia vita dal punto di vista sportivo, proprio perché sudammo tutti insieme per un obiettivo enorme che se fosse stato comunicato preventivamente sarebbe stato visto come un’illusione, ma quell’obiettivo noi, tutti insieme, ragazze e staff, ce lo siamo andati a prendere e lo abbiamo consegnato alla storia.

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