Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia, e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Fa parte di questa speciale squadra Paola Croce, pallavolista italiana, vincitrice di due Scudetti e due Champions League con le maglie di Perugia e Bergamo e campionessa europea con la Nazionale Italiana nel 2007.
Paola, l’obiettivo di Atleti al tuo fianco è raccontare alcuni aspetti poco conosciuti della quotidianità di chi sta affrontando un tumore, partendo da racconti di vita sportiva. Per avvicinarci a questa finalità, è importante che ci racconti qualcosa di te che permetta di conoscerti meglio, non tanto nella tua storia da atleta ma nella tua personale vita di ogni giorno. Come si svolge la tua quotidianità ora che hai terminato la tua attività sui campi da volley?
La mia vita è cambiata completamente da quando ho lasciato questo sport anche se in realtà, dentro di me sono ancora la persona di prima: sono sempre stata di carattere sensibile e di indole molto legata all’attività lavorativa e, se prima ho profuso queste mie caratteristiche nella pallavolo, ora la mia attenzione è direzionata al negozio di cui sono proprietaria. Il volley mi ha insegnato molte cose che anche in questo mondo mi sono utili, per esempio, la necessità di fare leva sulle proprie forze per il raggiungimento degli obiettivi finali, una caratteristica necessaria in ogni ambito della vita. Negli ultimi anni la mia esistenza è cambiata radicalmente, perché ho una famiglia e una splendida bambina che è, ovviamente, la mia priorità. Ma pur mutando molte cose, scopri che le passioni che ti animano dentro non cambiano, ma si trasformano: le attenzioni e le energie che prima erano dirette alla pallavolo, ora sono tutte quotidianamente convogliate al mio nucleo familiare. Ci sono molte cose che vorrei trasmettere a mia figlia che io ho appreso dal volley: la forza di volontà, la tenacia, il sacrificio, per fare degli esempi. Lo sport ti insegna a vincere ma anche a perdere, a vivere giorni pieni di entusiasmo ma anche giornate no, esattamente come succede nella vita.
Proprio la tenacia è una delle caratteristiche importanti da allenare sin da subito attraverso la psico-oncologia. Il momento in cui ti comunicano che hai un tumore è infatti un instante cardine della tua vita, nel quale si scontrano violentemente molte emozioni. Uno dei rischi presenti in questa fase è di trovarsi scoraggiati ancora prima di iniziare a lottare, percependo i propri mezzi come insufficienti per affrontare e superare la delicata sfida che attende. Tu, nella tua vita sportiva, hai raggiunto traguardi straordinari, con le squadre di club e con la Nazionale: ti è mai capitato di avere momenti di sconforto all’inizio di questo percorso agonistico, nei quali hai dovuto sfoderare tutta la tenacia di cui fossi capace per non perdere la speranza di concretizzare i tuoi obiettivi?
Sicuramente! Soprattutto perché, quando ho incominciato a giocare a pallavolo, il ruolo di libero che ho poi svolto nella mia carriera non esisteva ancora, quindi ho potuto usufruire dell’opportunità offertami da questo ruolo solo a partire dai 19-20 anni. In precedenza, nell’attività giovanile, venivo notata per delle doti atletiche fuori dal normale, già a 12 anni. Mi sono trovata quindi selezionata per uno di quei corsi di reclutamento della federazione, all’interno dei quali vi era un programma chiamato piano-altezza: se non superavi certe soglie fisiche di statura, non potevi proseguire il percorso. Arrivato il mio turno, nonostante le doti pallavolistiche eccellenti, mi ripetevano che non oltrepassavo questi requisiti e mi scartavano. Questo mi affossava il morale, ma di fronte a ciò io non mi sono mai totalmente arresa ed ho continuato ad insistere, perché dentro di me sentivo il grande desiderio di raggiungere i miei obiettivi, non avrebbero potuto essere dei centimetri ad impedirlo. Proseguendo con tenacia, ho incontrato lungo il percorso anche momenti di rivincita: mi ricordo ad esempio che giocai un’amichevole con la maglia di Perugia in A1 contro un allenatore di una squadra di A2 che anni prima era stato fra quelli che mi avevano scartata. Fu per me una grande affermazione interiore, perché avevo saputo superare gli ostacoli e gli stavo mostrando che, a prescindere dalla sua opinione, io ce la stavo facendo. Che grandissima rivincita personale! Ma ci sono stati anche momenti duri nella mia carriera dove è stato necessario sviluppare una grandissima forza di volontà. Con ciò non voglio, però, fare similitudini tra momenti particolari della mia storia sportiva con quello che una persona che combatte il cancro deve affrontare ogni giorno: c’è un abisso di differenza. Però nelle difficoltà che la vita ti presenta, l’aiuto che puoi trovare nelle risorse della tua mente è fondamentale, così come possono essere pericolose le insidie che si annidano in essa.
Hai mai avuto nella tua carriera da pallavolista un momento in cui hai percepito concretamente quanto la forza della mente possa davvero essere in grado di trasformare le capacità e le potenzialità di un essere umano?
Voglio raccontare questa esperienza. Tanto tempo fa, nel 2010, avevo iniziato a giocare a Cannes, ma poi sono rimasta ferma per sette mesi. Dopo quel momento, ho avuto molta paura di tornare a giocare, di non essere più all’altezza, nonostante avessi ricevuto un contratto per tornare giocare a Modena. Mi sono quindi allenata tutta l’estate da sola, poi ho preso la decisione di tornare a Modena. In quel momento ricevo una chiamata dalla Nazionale per andare a fare la coppa del Mondo. Ed io mi ero allenata solamente un mese e mezzo! Quella coppa del Mondo poi noi l’abbiamo vinta. È difficile raccontare l’evoluzione che ha vissuto la mia mente da quando mi hanno convocata a quando abbiamo vinto: proprio io, libero della Nazionale Italiana, che improvvisamente avevo paura anche a fare un bagher! Nella vita di un atleta ci sono tanti momenti difficili dove si perdono le proprie sicurezze: alcune volte puoi trovare dentro di te le forze da offrire al mondo, ma altre volte è indispensabile che il mondo ti offra la scintilla per riaccendere quella sicurezza che ti manca tanto. In quel momento, mi sono messa a disposizione della convocazione pur non sentendomi assolutamente in grado di essere il libero della Nazionale. Mi sono detta “non ho nulla da perdere!” anche se in realtà c’era in palio non solo la coppa del mondo ma anche la qualificazione olimpica. Noi abbiamo vinto quella coppa e ci siamo qualificate per le Olimpiadi di Londra 2012, per me quella fu un’esperienza memorabile che ancora oggi mi emoziona.
Un paziente oncologico è circondato da tante figure professionali che si occupano di lui: medico di base, oncologo, chirurgo, psico-oncologo, radioterapista, fisioterapista, medico nucleare e molti altri. Entrare in un rapporto di fiducia con l’equipe medica che se ne prende cura, è un’esigenza primaria non solo per la persona che ha ricevuto una diagnosi di tumore ma anche per tutta la sua famiglia. Nella tua carriera sportiva, quanto è risultato determinante provare fiducia nello staff tecnico che si occupava di te e della tue compagne per riuscire a raggiungere insieme grandi traguardi?
Tantissimo! Diciamo che un po’ tutta la carriera che ho avuto è stata determinata, in ogni sua svolta, da un grandissimo allenatore come Massimo Barbolini che ha creduto in me, prima nel club e poi in Nazionale. Proprio grazie a lui sono tornata in Nazionale e mi sono tolta moltissime soddisfazioni. Gli devo quindi tantissimo come persona, perché ha davvero creduto in me. Ci sono stati poi fisioterapisti, medici e tanti tecnici mi hanno accompagnato nel mio percorso agonistico e con molti di loro si è instaurato un rapporto molto intenso fatto di fiducia, rispetto ed onestà. Proprio da queste figure può arrivare una parola saggia e di conforto che aiuta nei momenti più delicati e di sconforto, come è stato nel mio caso. Lo staff e la fiducia nei suoi confronti, per quanto mi riguarda, è qualche cosa di imprescindibile, perché è un po’ come una mamma: ti accudisce e ti protegge.
Le persone che compongono il nucleo familiare sono determinanti in un lungo percorso oncologico; eppure, non c’è niente di speciale che esse debbano svolgere sotto il profilo emotivo rispetto alle loro caratteristiche e qualità abituali. Non è necessario, ad esempio, che tutti sappiano usare le parole per supportare: c’è chi per incoraggiare parla, c’è chi abbraccia, c’è chi offre sguardi, sorrisi, lacrime, pacche sulle spalle o addirittura silenzi. Ognuno deve trovare le migliori caratteristiche personali per fare la propria parte. La pallavolo è uno sport in cui ogni singolo ruolo si specializza in uno-due fondamentali tecnici, da offrire al meglio alla squadra per raggiungere insieme gli obiettivi e le vittorie. Tu hai svolto il ruolo del libero, che gioca in ricezione e difesa: essere specializzata in solo questi gesti ti ha fatto sentire limitata?
Per i non addetti ai lavori, il ruolo del libero può sembrare frustrante, ma posso assicurare che non è così. Si tratta di un ruolo dedito agli altri, dove il lavoro di fino è particolarmente curato. Il libero non contribuisce direttamente alla fase del “punto” ma è presente, costantemente, in quasi tutte le azioni. Forse all’occhio il suo ruolo non è eclatante, ed emerge, purtroppo, solamente quando c’è un errore: infatti è vero quello che si dice, un libero è forte quando non si nota perché ha fatto bene il suo lavoro. Si prendono pochi applausi perché è un lavoro che si svolge “dietro le quinte”, ma non credo che sia un ruolo meno importante rispetto agli altri, al contrario! Oggi, quando si crea una squadra, si parte spesso dal palleggiatore e dal libero, poi si scelgono gli schiacciatori. E’ un ruolo molto complicato soprattutto dal punto di vista mentale, ma che permette di esprimere qualità particolari non così necessarie in altri ruoli.
Per una persona che sta combattendo il cancro, c’è un momento molto delicato sotto il profilo nervoso che si ripete periodicamente: l’attesa di un referto. Che sia il primo oppure un esame di controllo, aspettare la verbalizzazione di una diagnosi è un tempo nel quale bisogna imparare a guidare le proprie emozioni: se mal convogliate, esse rischiano infatti di annientare le capacità di pensiero e di azione. Nel tuo ruolo di libero, c’è un momento in cui devi gestire le energie nervose in una fase di attesa da trasformare in un istante in gesto sportivo: la battuta dell’avversario. Nella tua carriera, come hai aiutato la tua mente ad essere tua alleata nel non temere l’infinita variabilità di palloni che ti si potessero presentare da ricevere, mentre aspettavi che la tua avversaria battesse?
Personalmente ho sempre osservato la mia avversaria guardandola in faccia, cercando di intuire quello che avrebbe fatto, cercando di immaginare, nella mia mente, tanto le sue quanto le mie azioni. E’ necessario essere sempre pronti anche se non si viene chiamati in causa. Può perfino capitare che un libero non intervenga nell’azione per molti minuti e, in quel caso, la gestione dell’attesa risulta molto difficile. In quei momenti, si ripercorrono le indicazioni del mister, di ciò che si sa fare bene e questo aiuta a rimanere concentrati. Ci sono sempre dei grossi punti interrogativi nell’attesa di qualcosa che avverrà ma che non si può prevedere con precisione. Bisogna, quindi, essere sempre pronti, con un grado ampio di elasticità riguardo alle possibili alternative, e preparati a trasformare quest’attesa in azione in maniera attiva attraverso le proprie capacità.
Ci sono però partite, punti, ricezioni in cui la tensione sale più di altre volte: ci sei riuscita anche quando dovevi ricevere una battuta in un punto decisivo in finale di Champions League o dell’Europeo?
Questo è vero solo in parte. Il gesto è sempre lo stesso, che si tratti di un’amichevole o della finale olimpica. Il cambiamento avviene solo a livello di tensione nervosa e questo può modificare il gesto. Si tratta, quindi, di guidare la tensione nervosa per far sì che il gesto rimanga lo stesso sia nell’amichevole sia nella finale. In quel momento è necessario dire a se stessi che si è sempre la stessa persona, che si scende in campo per fare una cosa che si è allenata, che si ha imparato a fare e attraverso quella, dimostrare chi si è veramente. Solo in quel caso si può avere il medesimo gesto che si sviluppa nello stesso modo. Ti dico ciò perché in molti momenti ho avuto tensioni personali che hanno penalizzato le mie prestazioni sportive. Questo è stato un vero peccato perché, se io fossi stata Paola sempre uguale a me stessa, avrei giocato ogni volta al 100%. Quello a cui ho sempre pensato è allenarmi bene, ripetere lo stesso gesto cento volte in allenamento per eseguirlo correttamente nel momento giusto. Credere nelle proprie possibilità, soprattutto quando si sa fare una cosa in maniera efficace, è ciò che porta al successo, ma non avviene per caso: ci si deve preparare bene, giorno dopo giorno. A quel punto, quando sei chiamata ad eseguire un gesto in maniera positiva, sei pronta e puoi contare su di te, sui tuoi mezzi e sulla tua preparazione. E attraverso tutto questo, raggiungi il tuo obiettivo una, cento, mille volte.