Atleti al tuo fianco: Mara Fullin

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La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Entra a far parte di questa squadra Mara Fullin, storia della pallacanestro italiana, inserita nella Basket Italia Hall of Fame, vincitrice negli anni ’80 e ’90 di 15 scudetti e 7 coppe dei campioni con le maglie dell’A.S. Vicenza e della Pool Comense.

Mara, benvenuta nella squadra di Atleti al tuo fianco. La tua storia sportiva diventerà spunto per approfondire alcuni aspetti della vita di tutti i giorni di chi sta combattendo contro il cancro. Lo sport diventa mezzo per occuparsi di tematiche sociali, che vanno oltre all’aspetto clinico. Nella tua vita e nella tua quotidianità, che ruolo ha rivestito e riveste lo sport in questa sua funzione, non solo come fine ma come mezzo?

Ho dedicato tutta la mia vita all’attività sportiva ed tutt’oggi questa ha un ruolo estremamente importante nella mia quotidianità. Alleno gruppi giovanili di basket nella Nuova Virtus Cesena e dal 2012 sono una grande appassionata di un’attività sportiva che si chiama Nordic Walking: dapprima sono stata istruttrice e ora ricopro il ruolo di maestro per la Scuola Italiana Nordic Walking, o SINW. Riesco quindi a formare gruppi di persone che in precedenza hanno avuto poco a che spartire con lo sport, facendole appassionare ad un’attività che è adatta a tutti. La mia quotidianità è quindi segnata costantemente dal momento sportivo come strumento sociale. Con questo proposito, venni contattata da una farmacista di Cesena che mi chiese se potessi accompagnare delle pazienti oncologiche a fare nordic walking, un progetto chiamato “Mi rimetto in cammino”. Con entusiasmo, mi sono messa immediatamente a disposizione, anche perché sono tematiche che ho potuto affrontare nel mio percorso di preparazione e nei corsi di specializzazione. Il nostro apporto è quello di far capire quanto può servire quel bastoncino in certe patologie, come, per esempio, nel caso di un’operazione al seno: in quel caso, l’apertura e la chiusura della mano dovuta all’utilizzo del bastone, agisce da supporto nell’attività di linfodrenaggio nel braccio. Quel gesto inconsapevole ritrova una libertà che non è così naturale, ad esempio, quando si lavora in ambulatorio con il fisioterapista. Per 12 settimane abbiamo lavorato condividendo dei momenti di cammino, ma non solo: in quei frangenti si discute, ci si confronta e ci si apre all’altro. Confesso che quelle settimane mi hanno segnato molto, aiutandomi a capire cosa affronta una persona che sta vivendo il cancro.

Quando si affronta un tumore non c’è mai il coinvolgimento di un’unica persona. Tutto il nucleo familiare viene coinvolto nel percorso ed è necessario ricostruire un affiatamento comune, per percorrere le tappe del percorso tutti insieme in maniera costruttiva e determinata. Poter contare sui propri familiari è una risorsa imprescindibile. Nella tua carriera da cestista, ha tagliato grandissimi traguardi: hai vinto 15 scudetti, 7 coppe dei campioni e molti altri trofei. Quanto è stato importante, nella tua storia sportiva, l’affiatamento con le tue compagne di squadra per riuscire a concretizzare questi obiettivi?

Credo che qui tocchiamo proprio il fondamento della questione. Io ho sempre militato in squadre forti che avevano l’obiettivo di vincere, ma se non parti dall’affiatamento tra gli elementi del gruppo non vai molto lontano. “Affiatamento” non significa andare sempre d’accordo, perché ci sono anche momenti di sopportazione, che può essere direzionata verso una compagna che non ti sta molto simpatica. Ma l’interesse più alto, quello della squadra, deve prevalere su tutto perché si gioca e si lotta tutte per uno stesso scopo, che si stia in campo pochi minuti o molti. Ogni apporto ha la sua importanza ed è fondamentale per l’ottenimento dell’obiettivo comune. Capisci che ci sono molte anime, molte forze diverse che si trovano a comporre la squadra, per questo è fondamentale che vengano coordinate ed amalgamate dall’allenatore, che deve fungere da figura di riferimento, riconosciuta come credibile ed affidabile da tutte.

In Italia, dati di AIOM alla mano, più del 60% dei pazienti che riceve una diagnosi di cancro, guarisce. Attraverso la psico-oncologia si entra in relazione però sia con pazienti che sopravvivranno al tumore, sia con pazienti che purtroppo moriranno. L’attenzione deve essere massima per entrambi, non solo per chi ha probabilità o possibilità di guarire. È necessario aiutare le persone in fase terminale a capire che non guarire da un tumore, e quindi fare un percorso di accompagnamento alla morte, non è una colpa, né una personale sconfitta. In quanto esseri mortali, abbiamo diritto che vengano profusi gli sforzi massimi perché si possa considerare la morte una fase della vita, non una sconfitta da ripudiare, né un innominabile tabù. È un concetto tanto delicato quanto importante, soprattutto per chi si trova a dover valorizzare la qualità della vita propria o di un familiare, con una diagnosi alla quale sa che non sopravvivrà. I concetti di vittoria e sconfitta, che abbiamo preso in esame per presentare questo aspetto della psico-oncologia, sono un cardine dello sport. Quando hai giocato sia a Vicenza sia nella Comense, hai vinto 15 scudetti in 17 stagioni: vincere era diventato un obiettivo o un obbligo? In altre parole, hai mai sentito nella tua carriera il diritto di perdere uno scudetto?

Stiamo andando ad affrontare alcuni concetti di profondità umana capitale, che lo sport può rappresentare bene ma senza toccarne l’immensa intimità. Sicuramente per noi cestiste, vincere non era un obbligo. Tutti si mettevano in condizione di poter raggiungere la vittoria finale, grazie ad una struttura importante e ben oliata al servizio di quell’obiettivo. Ma le cose non vanno sempre come si desidera e si incontrano anche degli imprevisti che fanno sì che l’obiettivo venga a mancare, come è stato il caso di un anno in cui abbiamo effettivamente perso lo scudetto. Non è stata certo una tragedia e l’anno successivo abbiamo affrontato il campionato con ancora maggiore energia. La difficoltà non è vincere una volta, ma riconfermarsi. Le sconfitte servono e in alcuni casi aiutano ad essere più forti, nello sport e nella vita. Io, a 15 anni e mezzo sono andata via di casa per giocare, a 17 ho perso il mio papà per un cancro e a 30 mia sorella per una morte improvvisa, nel letto. Il dolore, la perdita, la necessità di reagire: sono stati momenti che ho affrontato, che ho vissuto e che rimangono accompagnandomi sempre, non è possibile sorpassarli. Questi eventi ti rendono forse più forte ma soprattutto più dura. All’esterno può sembrare che Mara sia forte, che abbia vinto tanto, ha perfino fatto le Olimpiadi. Ma ciò che non si conosce è quella parte sensibile e delicata di sofferenza. E spesso è il gruppo che ti aiuta a tenere duro e ad andare avanti: io credo che lo sport mi abbia indubbiamente aiutato a superare questi momenti. Gli allenamenti intensi, la sopportazione della fatica, ma anche il fatto che io sia andata via di casa così presto, sono prove che ho attraversato e che mi hanno temprata. Credo anche che chiunque possa trovare le forze e la determinazione per reagire in determinate situazioni, anche le più difficili, rifugiandosi in qualcosa che gli offra il sostegno necessario. Come lo sport, così le amicizie, i colleghi, la fede sono altri elementi che aiutano moltissimo, sono strumenti a cui una persona ricorre, anche perché, pur se annullati dentro, l’impulso di reagire esiste in tutti e arriva.

Sotto l’aspetto emotivo, una persona ammalata di cancro vive momenti di recupero e altri di profonda difficoltà. È una situazione che si verifica in maniera incoerente rispetto al progresso clinico: alcune volte addirittura si fa più fatica a riprendere in mano la guida delle proprie emozioni una volta guariti rispetto a quando si era ammalati. È necessario conoscere gli strumenti per fermare la discesa del tono dell’umore, recuperare le proprie capacità e, a piccoli passi, risalire la china. Parliamo ora di basket: quando una squadra subisce una serie di punti consecutivi dagli avversari, un cosiddetto parziale, vediamo che i giocatori improvvisamente sembrano smarrire completamente le proprie capacità, finché in qualche modo il parziale viene chiuso e ripartono a costruire gioco con i propri consolidati mezzi. A quali strumenti ti sei aggrappata tu da giocatrice quando ti sei trovata a subire parziali delle squadre avversarie?

I parziali sono una situazione di grande impatto emotivo, è vero, ma devo dire che personalmente non mi hanno mai messa in difficoltà più di tanto. Forse perché potevo contare su compagne sempre molto forti. Al contrario, c’era una situazione che mi ha messo più volte sotto pressione. Il mio ruolo era infatti quello di portare la palla dall’altra parte del campo e quando mi trovavo di fronte a squadre che pressavano a tutto campo, quasi togliendomi l’aria necessaria per respirare, mi chiedevo come mai, pur avendo una certa esperienza e giocando in determinate squadre, non riuscissi ad uscirne serenamente. Per qualche minuto resti in balia di avversarie forsennate, ma è necessario reagire. E lì ti accorgi che non sei sola: ci sono le tue compagne e, soprattutto, il tuo allenatore, colui il quale, con una sola parola, può farti cambiare la mentalità. L’input deve venire dall’esterno e, se nella mia circostanza questo poteva essere rappresentato dal coach, con i necessari distinguo del caso, credo che si possa dire che, per quanto riguarda un paziente oncologico, questo ruolo debba essere rivestito dal medico e dallo psiconcologo. Ci vuole qualcuno che, in questo casino, ti offra la lucidità per riportarti con i piedi per terra, per farti riprendere a camminare.

Quando una persona riceve il referto anatomo-patologico con una diagnosi di cancro, la prima sensazione è scioccante: sembra di avere di fronte un’enorme montagna da scalare e di non possedere le forze e gli strumenti per affrontarla. In realtà, per quanto la montagna possa essere alta, ogni scalata si affronta un passo alla volta: se si visualizza tutta la fatica necessaria in un colpo solo, la reazione è paralizzante. Tu sei inserita nella Hall of Fame del basket italiano, hai vinto 28 trofei tra coppe e scudetti con i tuoi club, hai fatto 199 presenze con la Nazionale Italiana. Se ad inizio percorso, nelle giovanili, ti avessero detto che avresti dovuto compiere questa carriera, ci saresti riuscita?

Assolutamente no! Quando alleno le giovani, o quando rivesto il ruolo di “ambasciatrice dello sport” nelle scuole medie e superiori, mi confronto con loro e mi accorgo che il “voler diventare qualcuno” è una prerogativa più dei genitori che dei figli, ma è un concetto nocivo rispetto al raggiungimento degli obiettivi. Credo sia importante ritornare a parlare della “normalità” che per me significa andare in palestra per divertirsi col pallone da basket, per fare amicizie, per costruire le basi di un rapporto di vita quotidiano e lavorativo sano. Anche senza diventare chissà chi. Se tu parti da questi valori, da queste basi, forse poi puoi ambire, se sei brava, a diventare una campionessa. Ma prima ci vuole l’umiltà dei piccoli passi ed il lavoro costante. Perché altrimenti, se poi tu non diventi quel “qualcuno” allora la tua vita diventa un fallimento, questo non va bene. Tutti gli sportivi che hanno costruito carriere gloriose, lo hanno fatto un passo alla volta, allenamento dopo allenamento, gara dopo gara, alternando successi ed insuccessi ma senza mollare. È così che sono cresciuti al punto da essere pronti per grandi traguardi.

Attraverso la psiconcologia, è fondamentale aiutare chi riceve una diagnosi di tumore a capire che non è chiamato a ripartire da zero, ma dalle proprie capacità. La vita cambia in maniera improvvisa e violenta, ma non si viene azzerati nelle doti, nelle risorse, in ciò che si vale. Tu, dopo il tuo lungo percorso da cestista, hai deciso di percorrere una strada completamente nuova attraverso il Nordic Walking. Cosa ti ha spinto ad andare alla ricerca di un nuovo confronto con te stessa e con le tue capacità, tralasciando certezze di te che avevi costruito nel tempo?

È stata una sfida. Il basket mi ha dato tanto, certo, ma sai, non è stato sempre “rose e fiori”. Ad un certo punto della mia vita, io ho voluto fare una scelta decisa, rappresentata dalla volontà di costruire una famiglia. Così, per una serie di cambiamenti, prima ancora di diventare istruttrice, ho iniziato a camminare da sola con i bastoncini, in giro per Cesena: la gente mi guardava come se fossi una pazza. Con il Nordic Walking è stato un incontro quasi casuale ma, fin dai primi approcci, il bastoncino lo sentivo mio, mi faceva stare bene. Poi, quando ho scoperto che non c’era una scuola di questo sport in città, mi sono detta “e perché non fare un gruppo sportivo aperto a tutti?”. La mia missione è stata dunque quella di divulgare una nuova attività sportiva e si è dimostrata un’impresa riuscita: ora siamo un bel gruppo, facente parte della società sportiva Nuova Virtus Cesena, nella quale sono entrata prima come istruttrice di Nordic Walking e solo in seguito ho sviluppato percorsi di pallacanestro. E grazie a questa scelta, ho incontrato e conosciuto persone fantastiche, che attraverso la loro esperienza oncologica, hanno insegnato tantissimo loro a me. Alla fine, credo che questa mia scelta sia dovuta ad una voglia di rimettermi in gioco, sempre. Perché, come dicevo prima, il difficile è riconfermarsi.

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