Atleti al tuo fianco: Paola Sabbatini

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La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza di chi ha scritto la storia dello sport italiano. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Entra a far parte di questa squadra Paola Sabbatini, ex-pallanotista italiana, portiere del Setterosa che fu medaglia d’oro ai Mondiali di Fukuoka nel 2001.

Paola, benvenuta nella squadra di Atleti al tuo fianco, la tua carriera da giocatrice di pallanuoto diventerà spunto per approfondire e conoscere alcuni aspetti della vita quotidiana mentre si affronta un tumore. La prima domanda è introduttiva: raccontaci qualcosa di te, della tua vita dentro e al di fuori dalla vasca.

Nonostante io sia conosciuta per la mia carriera da atleta, lo sport è stato per me solo una delle cose che ho fatto e che mi ha dato soddisfazione, un’avventura parallela ad altri percorsi: per esempio ho dedicato molto tempo agli studi e sono laureata in ingegneria. Per me essere riuscita a conciliare queste due attività è un punto di forza, una situazione mi ha aiutato nell’altra. Ai miei occhi la mia soddisfazione non è rappresentata dal numero di medaglie vinte o dall’età in cui mi sono laureata, ma proprio nell’essere riuscita a conciliare le due realtà. Per quanto riguarda la mia vita in vasca è importante partire dal mio ruolo, il portiere, perché come diceva un mio allenatore “ci sarà un motivo se porta una calottina di un colore diverso dagli altri”. È un ruolo particolare per il quale, oltre alla componente fisica, la parte psicologica è fondamentale: se prendi goal, fosse anche colpa dei difensori, la responsabilità è la tua; d’altro canto c’è da dire che se dimostri di essere un portiere di un buon livello, riesci in un certo senso ad “incutere timore” nel tuo avversario con il tuo ruolo. Sono presenti una serie di dinamiche psicologiche che rendono quella del portiere una figura molto complessa. Mia figlia ora gioca a pallanuoto, io ho cercato di farla desistere dal voler diventare a sua volta portiere, ma ha scelto proprio quel ruolo pure lei: è una determinata, non si riesce a farle cambiare idea facilmente!

Per avvicinarsi a comprendere cosa viva una persona che riceve una diagnosi di cancro, è fondamentale capire la prima sensazione: è come se mancasse la terra sotto i piedi. Improvvisamente, tutto sembra insicuro, instabile; con la vicinanza della famiglia e l’aiuto dei professionisti, bisogna orientare la propria vita quotidiana con nuove emozioni, a volte terrificanti, altre volte incoraggianti. Spostiamoci ora sulla pallanuoto: un portiere non ha la terra su cui spingere per lanciarsi, ma deve adattarsi ad un mezzo come l’acqua che sostiene la spinta in modo completamente diverso rispetto alle proprie abitudini quotidiane. Come hai riadattato i tuoi movimenti per adeguarti ad un ambiente che non è alleato per un portiere che deve spingere per prendere i palloni anche all’incrocio dei pali?

Faccio una premessa: ancora oggi, dopo quarant’anni che entro in piscina, il gesto di abbandonare il bordo per buttarsi in acqua richiede un tempo di adattamento non indifferente; per quanto abituato tu possa essere, entri in un ambiente che non è il tuo abituale, questo passaggio ti obbliga ad un iniziale cambiamento. Quindi, chi fa sport acquatici, sottopone se stesso ad un allenamento al mutamento dell’ambiente, tra terra e acqua c’è molta differenza e le leggi che le governano sono totalmente diverse. Per un portiere, esiste tutta una serie di allenamenti fisici per imparare ad eseguire con costanza quello “slancio senza appoggio” che differenzia un portiere di pallanuoto da un portiere per esempio di calcio; questi esercizi vanno poi personalizzati, anche in base alle caratteristiche fisiche specifiche dell’atleta: io per esempio, che non arrivo a un metro e settanta, ho dovuto sempre puntare sulla velocità e sulla potenza, e non certo sulla statura. Ognuno ha le proprie caratteristiche, ed è su quelle che deve fare un serio lavoro di miglioramento. Ma ciò che deve incoraggiare è che, se all’inizio ogni nuova situazione sembra far perdere delle certezze irrinunciabili, seguire l’aiuto di persone preparate a quell’ambiente per loro non nuovo permette di trovare un modo di reagire prima e di agire poi. Questa è la base per trasformare l’acqua in un ambiente abituale e congeniale.

Per una persona ammalata di tumore, la rinuncia alle certezze e l’incontro con novità che spaventano è alcune volte un fattore completamente mentale, altre è di relazione fra mente e fisico. Nell’impossibilità di muoversi, ad esempio dopo un intervento chirurgico, la costrizione a letto obbliga il corpo ad andare incontro, oltre ad un decadimento della massa muscolare, a crampi, tensioni e situazioni in cui i muscoli non lavorano in maniera sinergica come accade abitualmente. Per questo è fondamentale essere seguiti da un’equipe multidisciplinare di professionisti, che includa il lavoro anche di un fisioterapista. Come funziona il corpo di un portiere di pallanuoto, per far sì che possa essere pronto e fluido per esplodere improvvisamente in una parata nei secondi decisivi di una gara, dopo magari molto tempo in situazione di attesa?

Se guardo alla mia carriera da atleta devo dire che tutte le volte in cui mi sono trovata di fronte a situazioni in cui sentivo salire la tensione mentale, che in qualche modo potesse influire sulla mia risposta fisica, mi sono sempre aiutata dicendomi “Conclusa questa azione, ho completato il mio compito”. Vedere un traguardo davanti a me in modo molto chiaro, piccolo o grande che fosse, mi ha sempre aiutato a radunare le energie per esplodere in un gesto che non potevo sbagliare: ero consapevole che fosse arrivato il momento in cui potevo fare la differenza. In quell’istante non c’è niente che mi abbia mai potuto distrarre: l’atleta diventa come un animale predatore che punta la preda e aspetta il secondo preciso per catturarla. Anche nei momenti in cui la palla è nelle mani degli attaccanti della tua squadra però al portiere non è permesso riposare: il corpo magari è meno coinvolto, ma la mente deve essere sempre pronta. Anche nella pallanuoto basta un istante, un passaggio sbagliato o un tiro non andato a buon fine, che un’azione impostata dalla nostra squadra può essere ribaltata e in un attimo raggiungere lo specchio della porta che io devo difendere. In questo modo, testa e corpo non vivono mai una situazione di riposo: può sembrare stancante, ma in realtà questo aiuta nel avere muscoli e mente pronti quando la partita vive le sue fasi decisive.

Una richiesta della mente di una persona che riceve una diagnosi di cancro è la prevedibilità degli eventi: capire in anticipo se e quanto si starà male è una forma di difesa rispettabile, ma non sempre efficace, perché è difficile presagirlo con precisione. Con lo psico-oncologo è possibile convertire questa esigenza di prevedibilità in capacità di adattamento, per ridurre lo stato d’ansia nell’avvicinamento alle tappe di terapia e controlli. Nella pallanuoto il portiere può valutare la traiettoria di un pallone in aria, ma poi può esserci un rimbalzo che cambia in maniera imprevedibile la direzione. Come affronti queste situazioni: hai imparato negli anni a prevedere il modo in cui un rimbalzo può cambiare la dinamica di un’azione o ti sei allenata ad essere adattabile all’imprevedibilità della traiettoria dopo il rimbalzo?

Penso che una delle più grandi doti di un portiere sia proprio non lasciarsi condizionare dalla prevedibilità, che è una tentazione per rassicurarsi ma che non rappresenta garanzia nella successiva realtà. Dopo anni di gioco ormai tra giocatori ci si conosce tutti, ma intervengono sempre cause incidentali che modificano le dinamiche del match. Banalmente, a un giocatore che ha sempre tirato in un determinato modo può scivolare la palla, modificando la traiettoria prestabilita: io devo essere pronta a parare il tiro effettuato, non quello previsto. Ciò che ho imparato a ripetermi con l’esperienza è che pur conoscendo le giocatrici, non posso mai predeterminare le loro azioni. Conoscere, raccogliere informazioni è chiaramente sempre di aiuto, ma bisogna tenere chiaro nella mente che un fattore di imprevedibilità esiste sempre e, nonostante questo, non ci si può far trovare impreparati. La prevedibilità è di supporto solo se poi si conferma nella realtà, ma se vi è un elemento che la modifica, ciò che hai previsto diventa un tuo nemico, perché non si rivela vero. Per questo è fondamentale l’allenamento dell’adattabilità.

Sebbene venga rivoluzionata, la vita non viene interrotta mentre ci si cura per un tumore. È fondamentale ritagliare spazi di attività piacevoli, sia per se stessi, sia per i familiari, quando le condizioni lo permettano. Non tutto è possibile, ma la mente deve restare orientata su quel che è possibile fare, non solo su quanto è necessario tralasciare. Tu sei riuscita a conciliare una brillante carriera sportiva con una laurea in ingegneria: c’è mai stato un momento in cui hai pensato che il tempo dello studio dovesse annullare il tempo per lo sport?

No, ho sempre pensato che le due esperienze fossero assolutamente sinergiche. Ovviamente ci sono stati momenti in cui dovevo dedicare più tempo a un ambito piuttosto che all’altro, la spartizione non è mai stata esattamente equa, però la cosa mi ha sempre aiutato a focalizzare con precisione l’obiettivo che poteva essere, a seconda dei casi, un esame o un match importante. Ho sempre vissuto queste due dimensioni della mia vita come complementari, per questo motivo credo non sia accettabile sentire dire anche dai giovani “non ho tempo di fare sport perché devo studiare” o viceversa “vado male a scuola perché sono molto impegnato nello sport”. Io, che ho saputo portare avanti queste due strade parallelamente, non mi sento un “marziano”, ma al limite una persona con una spiccata capacità organizzativa, ma ritengo che sia proprio questo ciò che insegna lo sport. È però assolutamente vero che ci sono fasi in cui il tempo necessario per un’attività possa richiedere una sospensione dell’altra: anch’io, una volta laureata, per tre anni ho dovuto abbandonare la Nazionale, che con la sua importante mole di impegni e trasferte non era compatibile con il mio lavoro da ingegnere. Ma non ho rimpianti per questo: è stata la scelta giusta per permettermi di scrivere nella mia vita due belle storie, legate allo sport e al completamento della mia formazione personale e professionale.

Quando una persona viene portata a curarsi in un ospedale lontano da casa, vive una distanza forzata dalle proprie radici e dai propri affetti. Aiutare un paziente ricoverato facendolo parlare della propria zona di origine e delle proprie tradizioni locali è un modo per curare la malinconia legata alla distanza, anche quando questo possa farlo commuovere: in quel momento, ci si sta prendendo cura di lui, le lacrime sono l’espressione di un’emozione altrimenti repressa. Paola, nel tuo essere sportiva, cosa pensi tu abbia guadagnato attraverso il legame con la città di Cesena, dove sei cresciuta e ora vivi?

Io sono nata a Roma, ma vivo a Cesena da quando ho tre anni, e quindi mi sento cesenate al 100%, tanto che dopo gli anni a Bologna per motivi di studio, ho deciso di tornare qui, dove c’è tutta la mia vita. Vivere qui la mia giovinezza, negli anni ’80, mi ha permesso di fare delle esperienze meravigliose: essere vicino al mare mi ha regalato la poca distanza da percorrere per vederlo e stare bene, confrontarmi con persone diverse da me, che vengono magari da altri paesi e che hanno alle spalle dei vissuti diversi, mi ha portato a crescere e ad affrontare la diversità con una consapevolezza diversa. La libertà che ho potuto sperimentare qui quando avevo quattordici-quindici anni poi probabilmente non l’avrei avuta se fossi vissuta in una grande città come Roma o Milano: poter girare in motorino, andare al mare da soli sono state esperienze che mi hanno fatto crescere, perché oltre ad essere “libera” sei anche “responsabilizzata”. Questo ha fatto sì che io mi sentissi gradualmente preparata a prendere decisioni in autonomia: il passaggio all’età adulta è stato quindi in un certo senso accompagnato dalla Romagna, che sento forte dentro di me.

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