Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Sergio Floccari, attaccante della SPAL con più di 340 presenze in serie A.
Benvenuto nella squadra di Atleti al tuo fianco, Sergio. La tua esperienza calcistica diventa strumento per approfondire e conoscere alcune sfumature della realtà e delle emozioni che vive chi sta affrontando un tumore maligno. La prima domanda è introduttiva, perché ti permette di presentarti non come calciatore ma come uomo: chi è Sergio Floccari quando finisce l’attività sul campo da calcio?
Le luci su di noi sono accese principalmente quando siamo sul campo, ma non siamo solo calciatori, tutti noi abbiamo una vita privata. In questa fase della mia vita, io vivo molto la famiglia: sono sposato e abbiamo dei bambini, quindi tanto del mio tempo è dedicato a loro, alla mia famiglia. Quando finisco di allenarmi in campo, comincio ad esercitarmi con i miei bimbi: la prima cosa che fanno solitamente, mi aprono la porta di casa con la palla in mano. In questo momento ho messo un po’ da parte gli hobby del tempo libero perché fuori dal campo la mia priorità è esclusivamente la mia famiglia, mia moglie e i miei bambini: questo mi rende un uomo felice.
Una diagnosi di cancro cambia la vita, non solo nei pensieri e negli obiettivi ma anche nei tempi degli spostamenti. Per curarsi, per operarsi, può essere necessario spostarsi da casa e non sempre l’ospedale che può seguirti è vicino. Molte persone sono costrette a soggiornare lontano per diverso tempo, per affrontare le cure ed essere seguite in maniera efficace. È importante aiutarle ad ambientarsi in contesti nuovi, che devono diventare la loro casa: la cura di dettagli personali per sentirsi a proprio agio aiuta a trovare energie per affrontare le difficoltà. Tu Sergio nella tua vita calcistica, hai spesso cambiato casacca e città in cui hai giocato: qual è un elemento per te necessario da collocare in una nuova abitazione perché tu la possa chiamare casa tua?
La mia vita è fatta di spostamenti, fin da quando ho quattordici anni. Ogni persona che affronta un cambiamento, all’inizio vive un disagio perché non ha più i punti di riferimento e tende ad essere più insicura. Sicuramente per me, ciò che conta nel mondo che vado a conoscere sono le persone, non tanto la casa. Le persone che vivono quel mondo, sono quelle che lo rendono più o meno bello e fanno la differenza. Per me è fondamentale il modo in cui vengo accolto, ho bisogno di sentire quella sintonia con le persone con le quali devo avere a che fare tutti i giorni. Credo che in ogni circostanza sia l’aspetto umano a far la differenza e nel mio caso un ambiente sano, sereno, organizzato e che mi accetti, favorisce il mio inserimento in modo più rapido e con una qualità diversa. La casa è sicuramente il contorno, il cuore è riuscire a sentire subito quell’energia positiva che è fatta da persone semplici, perbene, che hanno voglia di migliorarsi e che sanno che ci si deve aiutare uno con l’altro e sono consapevoli che ci saranno momenti di difficoltà.
Qual è invece l’elemento che quindi ricerchi nello spogliatoio per poterti dire a tuo agio anche in un ambiente nuovo?
È un elemento importante che si costruisce giorno dopo giorno, ed è l’armonia nelle relazioni. Noi giochiamo sempre per salvarci, la salvezza è il nostro scudetto. Ciò che fa la differenza è riuscire sempre a lavorare con la stessa mentalità anche nei momenti di difficoltà. Non abbiamo la ricetta precisa per farlo, ma nel lungo termine questo può portare a raggiungere l’obiettivo. Per noi alla Spal in serie A ogni anno è stato così: anche il primo anno quando abbiamo avuto delle difficoltà enormi, siamo stati bravi a reagire. Tendenzialmente l’uomo quando affronta momenti positivi ha sempre il timore che possano finire; quando vive momenti negativi tende, e io sono il primo a farlo, a credere che quel periodo duri in eterno. Bisogna però riuscire a capire che ogni cosa ha il suo tempo e quindi si deve usare la continuità per riuscire poi a venirne fuori. Trovare uno spiraglio in quei momenti è ciò che può fare la differenza, farlo in armonia con le persone che ti circondano e con le quali condividi l’obiettivo è fondamentale.
Il concetto di continuità è una situazione su cui la psiconcologia lavora intensamente. I pazienti e le famiglie che affrontano il cancro possono essere soggette ad improvvise e rapide emozioni molto intense. Un miglioramento ad un esame di controllo ti crea un entusiasmo che ti porta a pensare che tutto da quel momento sia destinato alla guarigione; allo stesso tempo un peggioramento ti dà l’idea di aver perso la sfida ed essere destinato a morire. I due estremi emotivi sono lontanissimi, mentre nel mezzo si svolge la realtà. Il lavoro fondamentale della psiconcologia consiste nel portare ad una situazione di equilibrio in relazione con il reale, con ciò che varia nel presente e con ciò che ancora non si può conoscere del futuro. Tu Sergio, nella tua carriera di calciatore hai sempre avuto un bottino di reti costante, ad ogni livello in cui hai giocato: all’interno delle singole stagioni, come ha funzionato la tua mente quando magari ti sembrava di avere periodi in cui segnassi meno? In quel momento, non potevi sapere che poi a fine stagione avresti avuto comunque il tuo abituale numero di goal segnati.
Tendenzialmente in una situazione difficile l’aspetto più arduo è riuscire a lavorare con la mente lucida. Per un attaccante non riuscire a far goal è sicuramente una condizione che complica la lucidità, visto che il bottino delle marcature è la prima cosa che si guarda: per questo mantenere la stessa spensieratezza di quando si segna, che nel nostro lavoro è fondamentale, diventa complesso. Quando viene meno questa, si crea un gap che puoi colmare solo con la forza di volontà e con la costanza. Non deve mai mancare la predisposizione al sacrificio nel lavoro quotidiano sul campo: solo cosi facendo, il tuo corpo troverà uno strumento autonomo per avvicinarti alla giocata vincente o al goal che mancava. I fortunati che vivono solo di talento sono pochissimi, il nostro mondo è fatto anche di tanta normalità. E proprio perché i campionissimi sono davvero pochi, il riferimento deve essere la normalità: alla lunga, l’impegno e la testardaggine pagano comunque, per me è stato indubbiamente cosi.
Parliamo di un tema che cambia completamente la sua valenza quando si riceve una diagnosi di tumore: il concetto del tempo. Improvvisamente si percepisce la sensazione di vivere con un potenziale timer, come un conto alla rovescia. Se il countdown è un timore percepito anche se non corrisponde al vero, in certi momenti ci sono due elementi che concretamente scandiscono il tempo in modo completamente diverso: il ritmo del respiro e la frequenza cardiaca. Tenerli sotto controllo è importante per evitare di consegnare tutto nelle mani della frenesia, un nemico nella ricerca di un aggancio di serenità nella vita quotidiana. Tu da calciatore stai affrontando una fase di carriera avanzata: spesso non giochi tutti i 90 minuti delle gare, ma o subentri a partita in corso, o vieni sostituito prima del termine della gara. Come gestisci nella mente l’idea di avere meno tempo per poter essere decisivo nel corso di una partita?
Per me, il concetto della gestione del tempo è molto differente sui campi da calcio e nella mia vita quotidiana. Da calciatore, che io parta dal primo minuto o che io subentri dalla panchina, la mia priorità non è quella di fare goal, bensì di eseguire al meglio ciò che serve in quel momento per la mia squadra. Se stiamo vincendo 1-0, è importante che io riesca a tenere la palla, magari subire qualche fallo per permettere ai miei compagni di rifiatare e riorganizzarsi; se invece stiamo perdendo, allora è necessario provare la giocata decisiva, essere più presente dentro l’area, andare di meno in giro per il campo: dipende tutto dal momento che la squadra sta vivendo, cercando di capire cosa sia utile che io faccia per la squadra in quella ben determinata fase di gara. Alcune volte parto dall’inizio, altre entro a gara in corso: l’obiettivo è sempre fare bene ciò che determino io per il bene della mia squadra, a prescindere dal tempo che avrò a disposizione. A mente lucida, devo riuscire a fare leva su quello che io sono in grado di fare e devo eseguirlo bene. Al contrario, nella vita di tutti i giorni tendo ad avere un rapporto con il tempo molto più ansioso e non sempre riesco a difendermi dalla frenesia.
Chiudiamo parlando di comunicazione: talvolta anche in medicina e in oncologia vengono usate delle formule di circostanza o delle frasi fatte quando si parla con le famiglie. Sono situazioni preconfezionate che hanno davvero poco impatto per il paziente nel sentirsi preso in carico individualmente; i professionisti che si prendono cura dei pazienti e dei familiari devono avere il coraggio di spendere il tempo necessario per arrivare alla profondità individuale: quanto più si riesce a fare questo, tanto più le persone si sentono curate. Questa è una grandissima rivoluzione che dobbiamo riuscire a compiere nell’esercizio della medicina: più tempo a disposizione per comunicare, perché la parola ha potere curativo. Quando a te da calciatore capita di parlare ai microfoni al termine di una sfida, quanto ti senti libero di portare l’identità del tuo pensiero fino in fondo e quanto invece ti senti obbligato a ricorrere a frasi preconfezionate?
Questa è una domanda difficile perché spesso il nostro mondo è fatto di frasi fatte che probabilmente anche io ho detto tante volte. Però penso che tendenzialmente la squadra sia come una famiglia e in quanto tale i problemi vadano risolti all’interno dello spogliatoio. Magari in campo si possono creare dei fraintendimenti, ma chiaramente prima di parlarne in pubblico è giusto risolverli con il proprio compagno: per questo tante volte si dicono frasi fatte, per non scendere in dettagli privati. Allo stesso modo qualora dovessi avere un problema con un amico o un cugino, prima di andare a parlarne in giro lo risolverei con questa persona. Penso che spesso questo sia dovuto non tanto per il fatto di recitare una parte, ma per tutelare il proprio ambiente. Alcune volte però lo facciamo anche per un senso di sintesi, di velocità di comunicazione: questo ribadisce che la cosa più difficile da donare alle persone sia esattamente il proprio tempo. A maggior ragione, prendersi un minuto di più per riuscire ad entrare in empatia con una persona e comunicare una diagnosi sia una cosa molto umana, che genera del bene non solo in chi lo riceve ma anche in chi lo fa.