Parlare di lotta al cancro dialogando con sportivi professionisti riguardo alle loro sfide quotidiane sui campi e in palestra: questa la sfida coraggiosa lanciata dal progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. L’atleta che oggi scende in campo in questa iniziativa è Stefano Travaglia, tennista italiano capace nella sua pur giovane carriera di raggiungere la top 200 mondiale sconfiggendo avversari di livello come Paolo Lorenzi, Albert Montanes e David Goffin.
Ciao Stefano, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco”, oggi avrai modo di scendere in campo accanto a chi sta combattendo una sfida importante contro il tumore. Per entrare nel clima migliore per affrontare questa partita, ti chiedo prima di tutto di presentarti ai nostri lettori senza però mai parlare di tennis. Chi sei tu Stefano al di fuori di tutto ciò che riguarda il tuo lavoro?
Ciao a tutti, mi presento: sono Stefano Travaglia, ho 24 anni e vengo da Ascoli Piceno. Al di fuori del campo da tennis, dove svolgo il mio lavoro, sono un ragazzo solare a cui piace scherzare molto; amo restare a stretto contatto con gli amici per potere ridere e parlare delle situazioni che accadono ogni singolo giorno. Quando ho necessità di rilassare la mente e spezzare il ritmo quotidiano scandito da orari e routine, mi piace molto andare a pescare. Amo il caldo e il mare ma tutto sommato mi piace anche la stagione fredda, anche se non avendo mai sciato nella mia vita non posso valutare fino in fondo la bellezza delle nevi e delle montagne.
Un elemento fondamentale nel percorso di una persona ammalata di cancro è la speranza, dentro alla quale concentrare i propri pensieri e quelli della propria famiglia e gli sforzi dell’equipe medica perché trasformino la speranza in certezza Quando hai capito che nella vita saresti diventato un tennista professionista? C’è stato un giorno in cui quella che consideravi una speranza è diventata una certezza?
Ho giocato sempre fin da piccolo a tennis grazie ai miei genitori che, essendo entrambi maestri di tennis, mi facevano frequentare un ambiente a 360 gradi sportivo; infatti fin da bambino ho praticato per divertimento anche altri sport, come ad esempio basket e atletica leggera. Sicuramente mi trovavo più a mio agio con il tennis anche per l’aiuto concreto che i miei genitori potevano darmi rispetto agli altri sport, quindi ho continuato il mio percorso con la racchetta in mano fino ai 16 anni, momento in cui mi sono trovato a scegliere definitivamente la via dello sport rispetto a quella dello studio. Non ci sono stati fattori determinati come per esempio grandi partite o tornei vinti, semplicemente mi trovavo più a mio agio su un campo da tennis che seduto con un libro aperto davanti; con l’aiuto della mia famiglia che ha sempre appoggiato le mie scelte, abbiamo preso la decisione di studiare privatamente e provare a fare la vita da professionista con allenamento full time in accademia a stretto contatto con giocatori di livello ATP con esperienza sulle spalle in questo campo. Quello è stato il momento in cui la speranza di diventare tennista ha preso la forma della realtà, anche se è stato fondamentale tutto il percorso, passo dopo passo.
Uno degli elementi dominanti sulla strada di chi sta lottando contro una malattia come il cancro è la paura; improvvisamente incontri timori che neanche pensavi esistessero: hai paura che non ti venga detta la verità, hai paura di stare male per le terapie, hai paura di non farcela e hai paura che, una volta guarito, ti possa tornare tutto. Non è una vita facile, per niente; però proprio per questo, un aspetto su cui si lavora molto in psico-oncologia è proprio la capacità di affrontare le paure. C’è mai stato un momento in cui hai avuto paura di non farcela a diventare un tennista o in cui hai temuto che il tuo sogno si spezzasse? E se sì, cosa hai provato in quei momenti?
Sicuramente c’è stato un momento in cui ho pensato di non potercela fare: si è verificato quando mi sono infortunato al braccio destro nel 2014. In quella situazione, appena svegliato dopo l’operazione, ho sentito salire dentro di me la paura che tutti i miei sogni potessero svanire e tutti gli sforzi fatti fin lì rivelarsi vani. Un tunnel buio da cui pensavo non sarei mai potuto uscire. Ovviamente sono stati i primi sentimenti che ho provato, a caldo, dopo un brutto incidente che poteva cambiarmi la vita in peggio e non farmi tornare mai più su un campo da tennis! Fortunatamente la storia poi ha rivelato un esito diverso, ma in quel momento mi sono sentito davvero perso.
Gran parte del mio lavoro è necessario venga dedicata ad aiutare ogni paziente, referti e percorso clinico alla mano, ad imparare a distinguere le speranze e le illusioni; potrà sembrare strano, ma è molto più frequente che un paziente, o un suo familiare, tendano a non illudersi, a pensare che probabilmente andrà a finire male. La vera difficoltà infatti sta nell’aiutare le persone ammalate a mantenere acceso il lume della speranza, anche quando alcuni segnali parziali potrebbero sembrare negativi, continuare le terapie senza gettare la spugna: se ci sono poche possibilità, bisogna giocarsele tutte e, se ce ne sono poche, significa comunque che ne esistono. Nella tua carriera da tennista, hai mai vinto una partita che si era messa così male da sembrare che non ci fossero più possibilità di vincerla? Se sì, cosa ha fatto sì che quella gara tu la vincessi? Quale è stato il tuo pensiero e quale la tua strategia vincente?
Sì, vissuto questa situazione: c’è stata una partita nella quale mi sentivo spacciato ed ero 61 40 sotto, fino a quel momento una sfida a senso unico, nella quale di solito si pensa già di stare in doccia. Invece, lottando su ogni singolo, punto la partita è girata da un momento all’altro. Sono rimasto sempre attaccato ad ogni singolo scambio, ad ogni singolo punto e la tenacia e la determinazione di non darsi perdenti ha fatto sì che portassi a casa io la sfida. Secondo me la tenacia su ogni singolo punto, in ogni momento è determinante perché ti fa stare concentrato anche quando le cose non vanno come vuoi tu e entri in lotta personale con l’avversario che deve sudare sette camicie per poter vincere la partita, perché non sarai tu a regalargliela.
Anche da guariti non sempre si ha una vita facile, perché alcune volte ci sono delle limitazioni cui il fisico obbliga in seguito agli interventi e alle terapie. Tu stai riprendendo la tua attività dopo il lungo periodo di infortunio che ci hai raccontato. Come hai vissuto i momenti in cui un danno fisico ti ha impedito sia di fare il tuo lavoro, sia di avere una quotidianità soddisfacente? E adesso che stai riprendendo, come ti relazioni con le difficoltà, i dolori o le precauzioni che l’infortunio ti ha lasciato da affrontare?
Sicuramente l’infortunio mi ha fatto capire molte cose e mi ha fatto maturare molto soprattutto nella scelte che faccio dentro al campo. I mesi che ho passato dopo l’infortunio non sono stati per niente facili anche perché fino a un mese dopo non si sapeva se potevo perdere totalmente la funzionalità del braccio, perderla solo in parte o riprenderla completamente. Dopo però un percorso lungo e faticoso, oggi posso dire che quell’infortunio mi ha dato grande forza e mi ha fatto capire tante cose, tra cui scoprire alcune mie qualità che prima non pensavo di avere. È difficile da credere, soprattutto quando lo stai vivendo, ma un infortunio, un percorso di limitazione fisica ti fa maturare dentro, con fatica e con difficoltà, ma è in quel modo che diventi più forte di prima.
Grazie Stefano per le tue parole, figlie della tua vita da sportivo e inevitabilmente legate agli infortuni che hai incontrato sulla tua strada. Vederti ora di nuovo in campo a giocare e lottare è una gioia per tutti, da oggi vicino a te tiferanno anche coloro che nella propria battaglia contro il cancro hanno percepito il tuo sostegno, siine orgoglioso.