Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà di chi combatte contro il cancro? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dall’associazione Arenbì Onlus. Prende parte a questa iniziativa Valerio Vermiglio, palleggiatore della Nazionale Italiana di pallavolo, Oro in World League e agli Europei, medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Atene 2004.
Valerio, con Atleti al tuo fianco la tua esperienza nella pallavolo si mette al servizio delle famiglie che affrontano un tumore maligno: insieme rifletteremo su alcune situazioni del volley soffermandoci però prima sulle emozioni della vita quotidiana in un percorso oncologico, il tutto avvicinato dal potere delle metafore. Prima di ogni altra cosa però, raccontaci qualche elemento in più di te e della tua personale vita di ogni giorno.
La mia quotidianità è essere ripartito da zero, dopo un matrimonio che non si è rivelato felice come quando, da giovane e forse in un approccio più superficiale, mi era sembrato di viverlo. Ma quando una scelta porta incomprensione, sofferenze e disagi, credo sia stato giusto rimetterla in discussione, pur con le grandi sofferenze che questo comporta. Per ripartire e ritrovare me stesso sono tornato a Messina, dove sono nato e da dove tutto è partito, mi sono ricongiunto con la mia famiglia originaria e, passo dopo passo, mi sono trovato a ricostruire tutto partendo da capo. Mi sono dovuto prima di tutto prendere cura di me stesso, ferito e deluso, da guarire nei confronti dell’approccio stesso alla vita; adesso sono qui, in un percorso profondo, legato alle mie radici, costruendo un presente che sia d’appoggio e di slancio per la mia vita futura.
La famiglia e le distanze sono un aspetto delicato della vita in oncologia. Si vivono ricoveri lontani, ci si separa, ci si pensa senza potersi abbracciare, condizione che in questo 2020 abbiamo conosciuto tutti. Ma a volte un messaggio, un biglietto, anche un oggetto con sé possono far molto per sentirsi vicini mentre la distanza mantiene separati. Guardando la tua carriera sportiva si rimane colpiti dalla distanza che spesso ha coinvolto la tua vita: sei partito da Messina, sei andato a Treviso giovanissimo, hai giocato in molte squadre e hai girato l’Europa. C’è stato qualcosa che nel tuo percorso di affermazione individuale itinerante tu hai sempre desiderato portare con te, che ti facesse sentire il legame con le tue radici e con la tua città di partenza?
Sicuramente il pallone. L’ho portato con me addirittura durante alcuni tornei con la Nazionale: lo portavo anche a letto quando dormivo, e in un qualche modo riusciva ad infondermi un senso di sicurezza. Fin da bambino ho sempre vissuto di sport: praticavo il calcio, oltre alla pallavolo. Sono cresciuto in oratorio perché frequentavo le scuole dai Salesiani e quello era il mio ambiente quotidiano. Oltre al pallone ho sempre portato con me la mia idea di ambiente familiare, tant’è che in tutte le squadre in cui sono stato ho sempre cercato di instaurare rapporti di amicizia veri e solidi. Mi considero una persona emotiva e passionale, e per questo motivo le i miei stati d’animo li ho sempre espressi in maniera molto chiara ed evidente. Durante l’infanzia sono stato un bambino iperattivo, ma siccome negli anni passati nei confronti di queste diagnosi non c’era l’attenzione che c’è oggi, alcune cose di me le ho scoperte solo negli anni più recenti, lavorandoci con uno psicologo. Probabilmente anche a causa di questo mio temperamento ho sempre ricercato il calore familiare ovunque io andassi.
Spesso ad un malato oncologico capita di vivere il senso del dovere di guarire, come una sorta di missione per dare speranza costante e gioia finale a tutte le persone che lo circondano. Questa condizione però, all’interno di un percorso dall’andamento alterno tra miglioramenti e passi indietro, rischia di schiacciare l’animo umano in una responsabilità non così reale, che rischia di scaturire in profonda frustrazione e senso di colpa. L’equipe medica ha il dovere di offrire le migliori possibilità di guarigione e di qualità di vita, il paziente non ha la responsabilità della vittoria finale. Guardando alla tua storia si può notare che hai vinto tanto, giocando spesso in squadre costruite esattamente per vincere: dentro di te, ti sei mai sentito in qualche modo schiavo del traguardo della vittoria e in colpa per non essere riuscito a vincere?
È un tema interessante, sicuramente mi è capitato di sperimentare questa sensazione. Soprattutto nella vita al di fuori del campo di gioco però ho scoperto che il rimedio ai sensi di colpa, al fallimento e alle piccole e grandi sofferenze è dare il massimo a prescindere dal risultato che otterrai, procedendo un passo alla volta. Quando ti sembra di non avere più nulla per cui valga la pena sorridere è essenziale imparare a gioire delle piccole cose. Questo aspetto paradossalmente l’ho vissuto più nella vita di tutti giorni che durante i momenti agonistici, in quanto dare tutto ciò che avevo per la pallavolo era ciò che sono sempre stato abituato a fare. Ho sempre avuto l’impressione di trasformarmi quando scendevo in campo: se abitualmente sono una persona riservata e che non ama la luce dei riflettori, quando la partita iniziava diventavo vulcanico e accentratore. Altro aspetto determinante per me è stata la riscoperta della fede, che ha acquisito progressivamente sempre più importanza, che mi ha insegnato a gustare la vera gioia delle cose semplici, come un rapporto di amicizia recuperato. In generale direi che la via d’uscita dal vicolo cieco dell’autocommiserazione e dei sensi di colpa è il focalizzarsi sul momento presente, staccandosi completamente da quello che potrebbe essere il domani, sul quale nessuno di noi ha garanzie: tre minuti di gioia vera che riempie il cuore valgono molto più di 24 ore di sofferenza, che alla lunga ha il potere di consumarti anche fisicamente. C’è sempre un buon motivo per gioire quando la mattina ci svegliamo.
La mente è il centro di controllo del nostro corpo: il nostro modo di pensare è direttamente legato al nostro sistema nervoso centrale e alla trasmissione degli impulsi nervosi. Circondarsi di piccole cose belle anche in periodi difficili aiuta a sentirsi meglio, a pensare meglio e ad offrire al nostro corpo stesso impulsi migliori. Tu sei stato, nell’ambiente della pallavolo, uno dei migliori a mostrare l’abbinamento esistente tra la capacità delle mani e quella della mente, in particolar modo con quel meraviglioso spettacolo che offrivi nel non far mai capire quale fosse il tempo della tua decisione. Raccontaci però quanto il tuo palleggio fosse così fulminante e preciso per il potere della mente e quanto per la capacità delle mani.
Fin da piccolo ho avuto l’impressione che le cose difficili mi riuscissero molto facili mentre quelle facili mi rallentassero più del dovuto. Il fatto di essere iperattivo mi rendeva difficile affrontare le cose passo dopo passo. La gioia e la passione che ho messo nel gioco mi ha sempre contraddistinto e faceva sì che, durante la partita, io fossi portato a prendere determinate decisioni su una giocata all’ultimo momento, addirittura cambiandole anche all’ultimo secondo, perché attivavo quel qualcosa che era solo emozione e gioia allo stato puro! Questa velocità aumentava sempre di più fino a farmi perdere il controllo, soprattutto da ragazzo. L’avere conosciuto allenatori molto preparati, tra cui sicuramente Daniele Bagnoli, mi ha permesso di lavorare su questa mia irrazionalità di fondo e, mediante lunghissimi allenamenti, sono riuscito a raggiungere una maggiore consapevolezza e a maturare molto dal punto di vista emotivo e razionale. Al tempo stesso, quando ho perso la gioia di giocare a causa di quanto stessi vivendo nella mia vita privata, anche questa mia capacità si è molto ridotta. Però, rispondendo alla domanda, credo che il tutto richieda un lavoro per equilibrare le diverse componenti in causa: sicuramente il tocco delle mani è fondamentale, in un abbinamento tra talento e allenamento, ma la mente non può perdere la sua capacità decisionale, anche nella sua componente di istinto che resta uno strumento irrinunciabile ma che non deve diventare l’arma dominante.
Nella lotta contro il cancro focalizzarsi sugli obiettivi primari è importante, ma alcune volte per questo si trascurano elementi secondari molto importanti per la qualità della vita quotidiana. Due aspetti importanti, di cui spesso non si parla abbastanza, sono la cura del sonno e dell’alimentazione: ogni paziente e la sua famiglia si devono sentire liberi di fare ogni domanda necessaria a chi li segue direttamente, ricevendo risposte chiare ed accurate. Nel corso della tua carriera, per essere performante ai massimi livelli nel tuo ruolo, quanto hai dovuto curare sonno e alimentazione?
Li ritengo entrambi aspetti fondamentali che hanno inciso in maniera costante nella mia carriera! Durante l’infanzia sono stato un bambino con la propensione ad ingrassare. Per questo motivo fin dagli anni delle giovanili al Treviso ho seguito una dieta con un regime alimentare controllato. Un ruolo importante da questo punto di vista lo ha giocato lo yoga, disciplina che pratico da diverso tempo. Attraverso essa ho raggiunto un maggiore autocontrollo e ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. La mente ed il fisico sono intrinsecamente legate e per questo è molto importante, anche dal punto di vista del benessere del nostro organismo, un equilibrato discernimento delle emozioni positive e di quelle negative. Per quanto riguarda il sonno il discorso è simile: mi rendo conto che se non dormo bene divento intrattabile e questa mancanza di sonno si ripercuote su umore e benessere fisico. Da questo punto di vista ritengo che il fattore dieta e il fattore sonno debbano andare di pari passo: ambedue sono essenziali per un corretto sviluppo fisico e mentale e per la conseguente qualità della vita quotidiana.