Raccontarsi come sportivi per aiutare chi sta affrontando il cancro: questo è in sintesi il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con diploma d’alta formazione in psico-oncologia, e patrocinato da Arenbì Onlus. Gli atleti rispondono a domande mirate per raccontare momenti particolari della loro carriera e offrire spunti di ispirazione e reazione per chi si trova a vivere la quotidianità affrontando un tumore. Entra a far parte di questa squadra di atleti Viktor Galovic, tennista della nazionale di Coppa Davis della Croazia, da molti anni in Italia.
Benvenuto in Atleti al tuo fianco Viktor, dove trasformeremo la tua esperienza di tennis in un’occasione per raccontare la quotidianità di chi sta affrontando un tumore maligno. Partiamo quindi proprio da come tu stesso vivi gli spazi di tempo di tutti i giorni: raccontaci come si svolge la vita di un tennista al di fuori dai campi. Come impieghi il tuo tempo quando non sei impegnato con una racchetta in mano?
Per prima cosa, vorrei dire che mi fa piacere partecipare a questa iniziativa, di cui condivido totalmente le finalità. Passando alla mia vita, il problema di essere uno sportivo professionista è che nella quotidianità c’è poco al di là del tennis, nel senso che ti alleni tanto e hai poco tempo a disposizione, meno di quanto uno possa pensare. Bisogna poi effettuare delle rinunce calcolate: non puoi fare un weekend ad andare a sciare, fare un calcetto con gli amici o qualsiasi altra attività che possa mettere a rischio l’incolumità del tuo corpo. Una cosa che invece posso fare e mi rende felice è stare con i miei familiari; io vedo i miei genitori una volta ogni due mesi circa perché io vivo e mi alleno a Verona, mentre loro stanno a Milano. Però non è facile neanche trovare tempo da passare con la fidanzata o con gli amici, può sembrare un paradosso ma lo spazio da dedicare agli affetti è davvero poco. A volte ci si sente un po’ da soli, soprattutto quando si gira per i tornei nei vari posti del mondo. Oltretutto, questo è il primo anno che mi posso permettere di fare il tour con un team o con il preparatore, prima ho vissuto molte tappe dei diversi tornei in totale solitudine.
L’adattamento alla distanza forzata è un’emozione conosciuta molto bene da chi vive i ricoveri ospedalieri e, in certi momenti, vorrebbe al proprio fianco qualcuno che non ci può essere. Alcune volte si è anche costretti a periodi d’isolamento in reparti con camere speciali adibite a questo. Ti è mai successo nella tua vita sportiva di sentire il bisogno di avere qualcuno al tuo fianco, la cui vicinanza potesse per te essere d’aiuto per raggiungere il tuo obiettivo e di dovere, invece, accettare la distanza forzata e cercare autonomamente dentro di te le risorse per reagire?
Mi è successa una situazione simile circa un anno e mezzo fa in un torneo in Corea del Sud, dove pensavo ci fossero degli italiani che invece si sono cancellati all’ultimo momento. Così mi sono trovato completamente da solo, senza nessuno del mio team e senza conoscere alcun giocatore. Certo pensi che a 27 anni questo non possa essere in alcun modo un problema, perché comunque sei sì isolato ma sei grande e in realtà devi semplicemente giocare a tennis. Però la condivisione delle proprie emozioni con qualcuno vicino, che sia un affetto, un amico, un conoscente è una cosa molto importante. Dover vivere in totale autonomia un’esperienza, magari per te in quel momento importante e con della pressione da gestire, non è facile. Per questo ci dobbiamo anche ricordare che alcune volte possiamo noi per primi essere d’aiuto a chi vive esperienze in isolamento.
Quando ci si sottopone alle terapie, si intraprendono lunghi percorsi per raggiungere l’obiettivo della guarigione; il cammino non è sempre lineare, sovente passi in avanti e peggioramenti si alternano, accompagnati da momenti di difficoltà per gli effetti collaterali della terapia e da periodi di sollievo. Mantenere la caparbietà per sopportare i momenti difficili senza una concreta garanzia di successo finale è uno degli aspetti più delicati dell’ambito emotivo delle persone con un tumore. Nella tua storia sportiva, la scorsa stagione è stata ricca di passi in avanti in classifica, che però nelle fasi precedenti di carriera hanno tardato ad arrivare. Cosa ti ha spinto a continuare a credere in un obiettivo che con il passare del tempo sembrava non arrivare mai?
Sinceramente, non saprei spiegare i dettagli di questa perseveranza: io ho intrapreso un percorso un po’ più tardi rispetto ai miei colleghi, che a 13 anni si trovano ad essere già con un piede nel professionismo per poi stabilizzarvisi verso i 19-20 anni. Non mi sono mai sentito drasticamente in ritardo nel mio personale percorso, però effettivamente se tra i 21 e i 26 anni ti trovi intorno ai 500 del mondo non è una realtà facile per un tennista: spendi soldi per andare ai tornei senza avere guadagni consistenti, fatichi ma hai in cambio principalmente delusioni, se vinci un torneo ti senti un idolo, poi ne perdi sei di fila e precipiti. Però se uno ci crede ed è convinto di poter arrivare ad un determinato obiettivo, poi lo raggiunge: io ho solo aspettato il momento giusto, quello in cui forse io stesso ero maturo per spingere sull’acceleratore con determinazione e raccogliere finalmente risultati importanti. La tenacia nei momenti di dubbio e difficoltà è figlia della voglia di raggiungere il traguardo, quello senza dubbio.
Ti è mai capitato di pensare dentro di te “adesso basta, adesso smetto perché non ci credo più”?
Ho pensato ad inizio della scorsa stagione “adesso smetto”. Poi ci ho riflettuto, perché dentro di me ero convinto di non aver ancora dato tutto, di poter fare qualcosa di più; così ho continuato, decidendo di premere l’acceleratore a fondo per dare tutto quel che avevo ancora per alimentare questo mio sogno. Altrimenti, fosse andata ancora male, avevo già incominciato ad aprire alla possibilità di un prosieguo della mia vita in un’attività diversa dal professionismo tennistico.
Secondo te, è stato necessario arrivare al punto di dire “smetto” per reagire e fare il vero salto di qualità?
Ad essere completamente onesto, oggi direi di sì, perché ho rimesso in discussione il mio obiettivo e in quel modo ho capito quanto ci tenessi veramente. Mi sono in qualche modo messo pressione da solo, ho posto sulla bilancia di nuovo le alternative della mia vita e ho capito quanto tenessi a questa opportunità. Mi è senza dubbio servito per chiarirmi ulteriormente le idee e capire quanto dovessi dare il massimo per raggiungere questo traguardo.
Per una persona che affronta il cancro, ogni giorno presenta difficoltà nuove e di difficile previsione. L’accumulo delle stesse genera una situazione di stress molto elevato e dannoso: per questo è fondamentale con la psiconcologia imparare ad affrontarle singolarmente, impedendo loro di diventare un ammasso dal peso insormontabile. Da tennista, come isoli la concentrazione in ogni singolo punto, impedendo a situazioni di gioco negative o ad errori grossolani di ripercuotersi nella tua testa nel corso dello scambio successivo?
Questa è una situazione a cui sono molto allenato: ho incontrato così tante delusioni sportive prima d’ora che un errore anche grave in un singolo punto ha un potere dannoso molto limitato sui colpi successivi. Nel corso del tempo apprendi la capacità di resettare costantemente le emozioni create da una situazione conclusa per concentrarti completamente su quella successiva. È importante perché in questo modo si riesce a porre tutti i propri strumenti al contrasto di una singola difficoltà, in caso contrario il peso delle avversità aumenterebbe dando la sensazione ai tuoi strumenti di non essere sufficienti. È un discorso applicabile al singolo punto, ad un set perso, ad una partita, un torneo, una stagione e così via. In tutta la mia carriera mi sono allenato a superare delusioni e, se oggi sono qui a raccontarlo da tennista con una classifica che adesso incoraggia, è proprio perché ho imparato ad affrontare ogni singola delusione, ogni difficoltà in maniera isolata, piccola o grande che fosse.
Secondo te, questa tua capacità di analisi per affrontare le difficoltà è figlia della maturità, cioè crescendo sei migliorato nel fronteggiarle, o dell’esperienza, ovvero si sono presentate così tante volte che ti hanno reso più abile per superarle?
Tutte e due le cose: non credo si possa veramente separare esperienza e maturità, sono percorsi paralleli che richiedono il passaggio del tempo e delle situazioni. Una persona matura grazie alle esperienze, e riesce a far fruttare gli insegnamenti delle esperienze grazie alla maturità acquisita.
Parliamo di un aspetto frequente in oncologia ma di cui si parla poco: il concetto di “fatigue”. La fatigue è un quadro debilitante per il paziente, nel quale si sommano gli effetti collaterali della terapia, il deperimento dato dal cancro stesso e la deflessione del tono dell’umore. Tutto questo porta ad una disponibilità energetica da investire nella vita quotidiana prossima allo zero. Una persona che non conosce le ragioni cliniche e mediche dietro a questo quadro, tende a colpevolizzarsi per non avere la forza di reagire, aggravando ulteriormente la situazione. La psiconcologia offre gli strumenti per affrontare la fatigue in maniera consapevole e costruttiva. Nella tua vita di tennista, qual è il punto più basso di disponibilità di energie che ti è capitato di incontrare? E quali strumenti hai usato per poter essere di nuovo performante sul campo nei tempi in cui eri chiamato ad esserlo?
Nel tennis ci sono due tipi di fatica: c’è quella fisica, ma più che nei tornei, dove non la senti più di tanto perché sei un atleta preparato salvo nelle situazioni in cui giochi per 4 ore a 40 gradi, la senti nella fase di preparazione atletica d’inverno, in cui i carichi di lavoro spingono il tuo corpo ai limiti della sopportazione, soprattutto nel giorno successivo. C’è poi la fatica emotiva, che ad esempio ho incontrato nella scorsa stagione: dopo aver vinto un torneo a Recanati e aver giocato immediatamente dopo un’altra finale a Braunschweig, fisicamente stavo benissimo ma nella mia mente mi sentivo totalmente svuotato di ogni residuo energetico. Sembra un paradosso che questo possa succedere dopo un periodo positivo, ma è proprio l’impegno costante della mente che richiede energia che la porta a sentirsi svuotata. Non avrei voluto vedere la pallina per un po’, ero completamente saturo. Il motore principale per risolvere tutto è secondo me l’aspetto motivazionale: qual è il tuo obiettivo? Questa è la domanda che ti permette di superare i momenti di difficoltà nel tennis, le situazioni in cui ti senti completamente svuotato. La difficoltà è un muro che ti si presenta sul percorso: se non è possibile scavalcarlo, la motivazione riesce comunque a spingerlo indietro di parecchio, permettendoti di camminare, evolvere e trovare il modo per poterlo poi superare. Questa è stata la chiave della mia storia.