Si può dialogare di momenti di vita sportiva per offrire spunti di riflessione sulle difficoltà della quotidianità di chi combatte contro un tumore? Questa è la scommessa che offre il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo di Montichiari con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. Fa parte di questa vasta squadra di Atleti Andrea Agazzi, ex tennista professionista italiano e organizzatore del prestigioso “Memorial Carlo Agazzi”.
La prima domanda Andrea è introduttiva e ti permette di presentarti a chi legge questa testimonianza: cosa ritieni sia fondamentale sapere di te per poter dire di conoscerti?
Se dovessi descrivermi con una sola parola direi “tennis”: tutta la mia vita è legata a questo sport, che pratico fin da quando ho cinque anni, avendo avuto la fortuna di trascorrere molto tempo durante le vacanze estive presso una casa che aveva un campo da tennis in giardino. In quei pomeriggi estivi è nato l’amore per questo sport, che non accenna ad affievolirsi neanche adesso che, avendo 36 anni, ho dovuto mettere da parte il tennis giocato ad alti livelli. Ora porto avanti questa attività insegnando ai più giovani la tecnica e cercando di trasmettere loro la passione per uno sport che tanto ha significato, e significa tuttora, per me.
Oltre al tennis, ovviamente c’è la mia famiglia: sono sposato e ho un bambino di cinque anni. Ho un legame molto forte con mia madre, che è rimasta sola dopo la morte di mio padre, avvenuta dieci anni fa a causa di un incidente stradale.
Arrivare ad una diagnosi precoce, qualora ci sia un tumore, è fondamentale: per questo motivo vengono fatte numerose iniziative che incentivino il “controllarsi e farsi controllare”. Le campagne di screening efficaci sono l’esame del sangue occulto nelle feci per il cancro al colon, la mammografia per il tumore al seno e il pap test per il cancro del collo dell’utero. L’elemento del tempo è determinante per poter effettuare delle cure efficaci. Nel tuo modo di intendere il tennis, è dominante il gioco di volo: l’utilizzo di questa tecnica costringe te a ridurre i tempi di reazione, ma disinnesca la potenzialità del colpo avversario. Quanto è determinante il fattore “anticipazione” per rendere efficace questo tipo di tennis?
Mi sono sempre caratterizzato per una tipologia di gioco che tende ad anticipare le mosse dell’avversario. Questa tecnica inizialmente non era solo figlia di una mia valutazione di efficacia, ma serviva anche a coprire le lacune che avevo e che probabilmente nella prima parte della mia storia tennistica non riuscivo a colmare. Per un tennista è importante capire come essere efficace, anticipare il gioco andando a rete compensava per esempio la mia insicurezza a fondo campo o la difficoltà nel reggere a livello mentale scambi molto lunghi. Nel tempo è invece diventata una scelta di stile ben precisa e questo approccio al gioco, grazie ai miglioramenti che sono riuscito a portare a termine in tanti anni, è diventato un’arma molto importante. Secondo me la chiave di questa strategia non è stata solo l’anticipazione, cioè giocare d’anticipo sul tempo di gioco dell’avversario, ma capire come mettere a frutto risorse che compensassero i miei limiti. Partendo da una mia fragilità sono riuscito ad elaborare una strategia che si è rivelata vincente in molte occasioni.
Vi è un’errata convinzione nei nostri stili di vita, secondo la quale per tutelare la propria salute ci si debba privare di piaceri. Qualità della vita e salute viaggiano su binari che più sono vicini, meglio sono efficaci. La salute, in sé, non è un obiettivo finale ma intermedio, da spendere per poter raggiungere il vero obiettivo, l’espressione di una qualità della vita soddisfacente. Il tennis di volo viene spesso giudicato come molto spettacolare dagli appassionati: può uno stile essere contemporaneamente bello ed efficace?
Il punto di incontro è senza ombra di dubbio Roger Federer: lui ci dimostra da anni che si può giocare bene e vincere. Negli ultimi anni il tennis di volo sembra essere passato di moda, questo è dimostrato dal fatto che, se prendiamo la lista dei primi cento giocatori al mondo, solo un’esigua minoranza di essi interpreta il gioco in questo modo. Credo che sia dovuto alla fiducia calante in questa tecnica: sono pochissimi i maestri che lo insegnano ancora e che hanno la voglia di puntare su questo. A me, e a quelli della mia generazione, è stato insegnato; io poi ho deciso di portarlo avanti, mentre tanti miei coetanei hanno scelto di interromperlo: bisognerebbe chieder loro perché.
Io resto pienamente convinto del fatto che l’intersezione tra il bel gioco e l’efficacia esista eccome: così come a fondo campo, gli schemi vanno apportati a un gioco offensivo che lascerà spazio a soluzioni chiaramente più spettacolari a rete, ma che richiedono una destrezza e una velocità che a fondo campo non vengono messe in mostra. Io ho visto con i miei occhi i risultati che questa tecnica può portare, ma certo non sono cose che si improvvisano: sono necessari anni di allenamento.
Comprendere la realtà di chi vive un tumore non è facile. L’obiettivo di Atleti Al Tuo Fianco è presentare la quotidianità del cancro anche a chi ha la fortuna di non averla vissuta in prima persona, per consentire di cogliere dettagli non conosciuti e far sentire i pazienti che ci stanno passando capiti da chi sta loro vicino. Tu oggi, dopo una carriera da atleta, sei arrivato al ruolo di maestro e allenatore: quanto è importante essere stato un tennista di tra i primi 800 del mondo per capire e sviluppare l’identità personale di un tuo allievo?
Nel passaggio di ruolo da giocatore ad allenatore spesso accade un fenomeno molto curioso: il giocatore che ha vissuto più difficoltà nella carriera diventa un allenatore migliore rispetto al giocatore che, puntando esclusivamente sulla forza fisica, ha vinto magari più del precedente. Lo vivo sulla mia pelle: chi ha incontrato più ostacoli è stato costretto a studiarsi delle soluzioni tattiche, giocando più con la testa che con il fisico, e questo lo rende più facilitato in un discorso di insegnamento. Paolo Lorenzi per esempio, se un giorno deciderà di fare il coach, per tutta la serie di difficoltà che ha dovuto sbrogliare sul campo da tennis, sarà sicuramente in tecnico di altissimo livello. Alla fine della propria carriera, il giocatore deve sapersi guardare alle spalle e avere l’umiltà di analizzare ciò che avrebbe potuto fare meglio, in modo tale da poterlo trasmettere ad una nuova generazione di sportivi.
La prima cosa da tramandare, in veste di allenatore, resta comunque la passione per questo sport: primariamente a questo devo i traguardi che ho ottenuto nella mia carriera. I risultati sul campo, per quanto possibile, non devono far tentennare la voglia e la passione che un tennista mette nel suo lavoro: queste devono rimanere una costante. Fondamentale è poi la presenza di persone vicine su cui poter contare nei momenti di difficoltà: bisogna avere l’umiltà di lasciarsi aiutare da chi sta al tuo fianco.
Il concetto di morte è spesso un tabù: avvicinarsi e parlarne, aiuta ad affrontarlo. Coltivare il senso della memoria di chi è scomparso è fondamentale, perché dà modo all’esistenza non tanto di proseguire, quanto di certificarsi: il passaggio di una persona su questo pianeta viene certificato anche attraverso il racconto di chi ne tramanda la memoria. È fondamentale educare le persone a cui muore un caro alla coltivazione della memoria, che è sempre personale: non esistono linee guida, bisogna indagare profondamente il vissuto di una persona per darle modo di utilizzare il ricordo come mezzo terapeutico per il proprio dolore. Ogni anno, tu e la tua famiglia organizzate il “Memorial Carlo Agazzi”, dedicato al tuo papà scomparso: in quale modo questo torneo di tennis ci parla del tuo papà?
Mio padre, pure con tutti i limiti e i difetti che come ogni essere umano aveva, era una persona con una forte personalità, ambiziosa, di un’intelligenza sopraffina: sapeva interpretare le persone e le situazioni con una prontezza e una lucidità incredibili! Non credo ambisse ad un torneo intitolato a lui, non era il tipo da dare importanza alle celebrazioni, ma celebrarlo è importante per noi: questo ci permette di rivivere esperienze, momenti e situazioni, facendoci maturare in un modo che lui avrebbe sempre auspicato per noi. Mio papà aveva un’ammirazione sconfinata per Margherita, è stato lui a spronarmi a sposarla, e credo che sarebbe contento, oggi, di vederci uniti nel ricordare il pezzo di vita che abbiamo condiviso con lui. Non è solo il torneo di tennis che ne racconta la vita, ma anche e soprattutto l’unione della nostra famiglia nel celebrarlo, a cui lui ha contribuito in maniera determinante. I primi testimoni della sua esistenza, siamo noi.