Parlare di cancro in maniera libera con sportivi professionisti, conversando sulle loro abitudini e difficoltà nell’agonismo ma ponendo la luce su aspetti della quotidianità di chi sta combattendo un tumore: questa è la scommessa che lancia il progetto “Atleti al tuo fianco”, guidato dal dottor Alberto Tagliapietra, medico chirurgo con DAF in psico-oncologia e patrocinato dalla associazione Arenbì Onlus. La sfida è stata raccolta da Andrea Bartoletti, ex pallavolista di Montichiari, Macerata, Treviso e della Nazionale Italiana e oggi atleta di triathlon.
Ciao Andrea, benvenuto nel progetto “Atleti al tuo fianco” nel corso del quale parleremo di cancro partendo da spunti sportivi. Inquadreremo la tua storia agonistica in un modo completamente diverso dalle consuetudini, raccontando grazie ad essa alcune caratteristiche della vita quotidiana di chi affronta un tumore. Prima di tutto però presentati raccontandoci qualcosa di te, adesso che non sei più un giocatore di pallavolo al centro dei riflettori chi è Andrea Bartoletti?
Ciao a tutti, mi chiamo Andrea Bartoletti e dopo una carriera da vollista, in questo momento sono un lavoratore, sono un venditore di auto. Ho ripreso l’attività di famiglia e questo è anche uno dei motivi per i quali ho smesso abbastanza presto con la pallavolo, non terminando la mia carriera verso i 40-42 anni come invece hanno fatto alcuni miei colleghi. Considero questo lavoro come una fortuna, una possibilità, con tutti i lati positivi e quelli negativi e io mi sento un vero e proprio lavoratore, che si dedica alla sua attività dalle 8.30 fino alle 19. Nel tempo libero ho un hobby che è stato in qualche modo deciso dal mio corpo, rifiutandosi di smettere completamente l’attività sportiva. Mi sono infatti ritrovato dapprima ad appassionarmi di corsa, poi di nuoto e infine di bicicletta, unendo le tre discipline nella pratica del triathlon.
Parliamo dell’aspetto fisico nel corso della chemioterapia: sotto l’influsso dei farmaci deputati a combattere la crescita del tumore, possono avvenire cambiamenti di fisionomia; non è solo la caduta dei capelli a venire raccontata come un aspetto delicato dai pazienti, ma anche il dimagrimento o il gonfiore nel volto o l’accumulo di liquidi negli arti che deformano il corpo in maniera innaturale. I pazienti che affrontano questa situazione raccontano come non facile la percezione degli sguardi frequenti delle altre persone. Raccontaci le tue emozioni riguardo al tuo corpo, dotato di una statura al di sopra della media e al centro dell’osservazione immediata delle altre persone: come hai vissuto, nelle varie tappe della tua vita, questa situazione?
Bisogna in effetti capire che non sempre sentirsi osservati faccia piacere: la gente ha la facilità di sottolineare la mia statura come prima caratteristica, pensando che non possa essere vissuta come un difetto. Quando ero ragazzino avevo sempre una risposta pronta “io gioco a pallavolo, devo essere alto” come se in qualche modo dovessi giustificare la mia condizione. Tralasciando le situazioni nelle quali possa essere sconveniente essere alti più di due metri, come ad esempio su di un aereo o al cinema, situazioni comunque in qualche modo superabili, percepirsi al centro dell’attenzione per una caratteristica fisica non è una cosa che fa piacere, perché qualche volta si avrebbe voglia di non sentirsi fissati come degli extraterrestri. Immagino lo sia ancor di più per chi affronta il cancro, che deve convivere con una variazione del proprio aspetto fisico legata ad un percorso di malattia: essere alti in confronto non è nulla, ma dobbiamo sforzarci di non essere per forza degli scrutatori delle caratteristiche del corpo altrui, perché abbinate ad esse ci sono delle emozioni che non possiamo conoscere fino in fondo.
Nel corso dei ricoveri, spesso si diventa alleati di battaglia con i compagni di stanza in ospedale. I pazienti raccontano che sia molto importante per loro vedere qualcuno con la stessa diagnosi in una fase di recupero e avvicinamento alla guarigione, è un aspetto che aiuta molto a credere nell’evoluzione positiva della propria condizione clinica. Tu sei nato nel 1978: quanto ti ha aiutato sognare di diventare pallavolista osservando i successi della Generazione di fenomeni della pallavolo italiana guidata da Julio Velasco, soprattutto quando c’erano dei momenti di difficoltà nella tua crescita sportiva?
Certamente mi ha aiutato tantissimo: io avevo Giani, Cantagalli, Zorzi, Bracci da cui prendere ispirazione: osservavo questi campioni in televisione e, abitando a Falconara, li andavo a vederli giocare sotto casa. Per me era uno stimolo enorme! Nei momenti nei quali mi dicevano “tu non arriverai da nessuna parte”, l’obiettivo c’era sempre, era lì davanti. La mia gioventù non è stata tutta in discesa: c’è stato un momento nel quale mi avevano considerato come un fallimento e non è stato facile affrontarlo. Dopo, però, li ho fatti ricredere! Quando andai in Nazionale ed incontrai tutti quei miti, fu il più bel momento della mia vita. Ero felicissimo e mi prendevano in giro per quanto ridessi, ero sempre con l’umore alle stelle. Loro erano nella fase conclusiva dell’epoca dei grandi successi ma già il fatto di essere lì, di portare anche solo le borse ed i palloni, era per me la sensazione che tutti i miei sforzi stessero concretizzando una realtà e non più un sogno.
Saper gestire le emozioni positive è una cosa importante anche in oncologia: nelle fasi della malattia quando clinicamente si presentano progressi, è fondamentale infatti mettere sotto controllo i picchi di euforia, perché se mal gestiti rischiano di diventare un nemico molto subdolo nei momenti in cui ci possono essere parziali peggioramenti. Tu sei stato a Montichiari, piccola realtà dalla grande storia di pallavolo, vivendo a fine girone di andata il momento in cui vi trovaste in testa al campionato di pallavolo più forte del mondo. Come tu hai affrontato, vissuto e gestito quella situazione, quando poi Montichiari ha ritrovato la sua reale dimensione, finendo la regular season ad un più prevedibile settimo posto?
Il sogno di Montichiari è sempre stata la semifinale play-off, mai raggiunta nella sua storia. In ogni caso, quella situazione venne vissuta da ogni giocatore in modo diverso: nel mio caso, fu un ritorno alla realtà. Non l’ho interpretata in maniera negativa poiché sapevo benissimo che quella situazione era troppo elevata rispetto alla nostra realtà, quindi non è stato così traumatico. Però ci sono stati dei momenti di scoramento, di infelicità, che ci portarono a perdere anche un paio di partite molte brutte, contro Roma ad esempio, che era già retrocessa. Quello fu un momento veramente negativo, mi ricordo benissimo ancora oggi quel ritorno in pullman. Ma abbiamo anche imparato molto e credo sia vero, come dice qualche allenatore, che a volte la sconfitta fa meglio della vittoria perché ti mette davanti agli occhi quali sono i tuoi difetti, mentre l’entusiasmo ti fa allentare la presa. Proprio per questo, ogni volta che facevamo delle grandi partite, c’era un allenatore che durante il primo allenamento successivo, ci massacrava di lavoro. Bisogna in effetti saper gestire i picchi di emozioni verso il basso e verso l’alto con equilibrio, altrimenti si finisce in balia degli eventi nelle proprie emozioni, senza la possibilità di poter guidare la nostra reazione agli stessi.
Una delle cose più sconvolgenti che raccontano di aver vissuto le persone che hanno affrontato il cancro è l’impatto immediato con la malattia, senza tempi adeguati per gestire le emozioni conseguenti all’incontro con la diagnosi. Le terapie iniziano subito e quindi devi gestire le emozioni contemporaneamente all’impatto con lo schema terapeutico: bisogna essere molto bravi ad accelerare i tempi della gestione delle proprie emozioni, anche con gli strumenti di supporto dati dalla psico-oncologia. Tu hai vissuto, in più stagioni, un ruolo molto particolare, cioè quello dell’opposto che non era nello starting six: partendo dalla rilassatezza in panchina, venivi chiamato in causa quando le cose si mettevano male all’interno del set dovendo essere immediatamente decisivo. In che modo riuscivi a gestire in poco tempo il repentino cambio di emozioni che questo ruolo comportava?
Stiamo chiaramente parlando di due ambiti diversi, sentire la propria vita in pericolo non ha paragoni rispetto ad una partita di pallavolo; tuttavia ci sono degli aspetti di principio della gestione delle emozioni che è interessante approfondire. Quella era una situazione sportivamente molto particolare: improvvisa e molto difficile da gestire, ma anche molto emozionante. Io ho sempre trovato giovamento nel riflettere il meno possibile, concentrandomi su ogni singolo punto, permettendo alla squadra di emergere dalla difficoltà. Troppi pensieri ed elucubrazioni mentali rischiano di ingabbiarti, ci sono momenti che per quanto decisivi è importante affrontarli con fluidità: talvolta il pensiero complica questo aspetto. Alle volte andava bene, altre meno, ma sicuramente era una situazione difficile da gestire perché senza tempi di adeguamento alla situazione devi apprendere la dote dell’immediatezza operativa, aspetto non sempre facile da raggiungere.
Parliamo di gestione della fatica. La battaglia contro un tumore è un percorso lungo e intenso: ci sono momenti in cui i pazienti hanno bisogno di un grande supporto emotivo per affrontare le tappe terapeutiche che si protraggono nel tempo, fiaccanti la mente quando il fisico è pesantemente indebolito dalla malattia. Tu adesso pratici il triathlon, disciplina che combina in sequenza il nuoto in acque aperte, la bicicletta e la corsa. Raccontaci come fai a gestire nella mente la sensazione di non farcela più per la fatica quando ti aspetta ancora un lungo percorso prima del traguardo.
Da circa due anni mi sto dedicando a questa attività. E, un po’ come ti dicevo prima rispetto al mio ruolo di opposto, il segreto è di non pensarci. Non bisogna pensare che mancano ancora 40 km di bici e mancano ancora 10 km di corsa, devi concentrarti su ciò che stai facendo in quel preciso momento. Il corpo è un macchina straordinaria perché si adatta e reagisce e, alcune volte, ti dà delle risposte inaspettate, come quando sembra che stai per cedere, trovi delle risorse inattese che ti permettono di andare avanti. Mi è capitato anche di fare una maratona: quando arrivi al 30esimo chilometro, non ce la fai quasi più, non ragioni più, ma continui. Quando sono arrivato sul traguardo, mi hanno dovuto fermare, perché non mi rendevo conto che era finita. Prima io non conoscevo gli sport individuali, e, in quanto, pallavolista, pensavo che dovessi solo io concentrarmi sugli schemi, sul muro, sulla tattica, mentre quelli che facevano sport individuali non avessero queste difficoltà: bastava pedalassero, nuotassero e corressero senza alcuna necessità di concentrazione e ragionamento. Poi ho scoperto che, invece, devi ragionare tantissimo poiché bisogna trovare gli stimoli per non mollare ed è necessario dosare le forze. La testa è fondamentale in sport individuali massacranti come questi. Mi è capitato di partire troppo piano o troppo forte e lì l’aspetto mentale è intervenuto per recuperare ciò che stavo bruciando. Quando sei in acqua, ti ritrovi in una situazione non abituale per noi terrestri: sei in acque aperte, con trecento persone che nuotano intorno a te, prendi cazzotti, non vedi niente, non respiri, bevi. Ecco, lì puoi farti prendere dal panico e molli. Lì, in acqua, è necessario, più che in altri frangenti, stare calmo. Immaginatevi trecento persone che partono insieme: quando siamo sulla spiaggia, siamo tutti staccati, ma in acqua, tutti quanti puntano quella boa e quindi il panico ti può prendere. La parte meno pericolosa invece è la corsa che, però, è anche il momento in cui sei maggiormente stanco perché lì inevitabilmente le energie sono finite. E quindi bisogna trovare altre risorse, che devono provenire principalmente dalla testa. Va allenata, esattamente come il resto del corpo, perché in quei momenti risulta determinante; allo stesso modo però, è uno strumento straordinario perché è in grado di trasformare un momento di crollo in una situazione di successo, semplicemente non pensando alla fatica affrontata e da affrontare, ma concentrandosi sul passo da compiere in quel determinato istante, e poi su quello successivo ancora. E nel corso di una malattia, la capacità mentale di trasformare la sensazione di un crollo in un successo, può cambiarti la vita.