La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza della società attraverso le parole degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psiconcologia. Entra a far parte di questa squadra Dalila Spiteri, tennista professionista licatese.
Ciao Dalila, la tua esperienza tennistica diventa, con Atleti al tuo fianco, strumento per approfondire tematiche della vita quotidiana delle persone che stanno affrontando un tumore. la prima domanda è introduttiva e ti permette di presentarti, come persona e come sportiva. Come è nato l’incontro tra Dalila Spiteri ed il tennis?
Ciao a tutti! Sono una ragazza cresciuta in un paese della provincia di Agrigento, Licata, in cui le probabilità che io potessi giocare a tennis erano davvero bassissime. Devo la mia fortuna ad un piccolo circolo sportivo in cui feci il mio primo incontro con questo sport su un rudimentale campo di cemento: questo centro era guidato con una passione infinita da una manciata di persone che si ponevano l’obiettivo di strappare, tramite lo sport, i ragazzi dalla strada, in una realtà forse più complicata rispetto a quella di altre zone italiane. Così è nata la mia storia con la racchetta in mano, che oggi continua con tutto l’impegno e passione possibili da parte mia.
Entriamo ora nelle tematiche legate alla lotta contro i tumori. In oncologia è molto difficile aver chiaro, fin dal momento della diagnosi, l’esito finale delle cure. Per parlarne alle famiglie che le ricevono, si ricorre all’utilizzo delle percentuali e della statistica, ma poiché ogni persona è poi una storia unica, è molto difficile tradurre con certezza l’efficacia sul singolo paziente con dei numeri. Parliamo ora di tennis: se all’inizio della tua carriera sportiva ti avessero detto “hai il 3% di probabilità di riuscire a diventare una tennista professionista”, come pensi avrebbe condizionato il tuo percorso successivo?
Quando ho iniziato a muovermi sui campi da tennis nel mio paese io non avevo nulla, ma al tempo stesso posso dire che avevo tutto. Nel centro sportivo di cui parlavo prima non avevamo nemmeno le palline da tennis giuste per la nostra età: giocavamo con quelle dure, solo durante i primi tornei ho scoperto che avremmo dovuto usare quelle depressurizzate. Lo stesso discorso vale per le racchette: i baby-atleti devono utilizzare, da regolamento, quelle di dimensioni inferiori rispetto a quelle degli adulti. Provenivamo da una zona in cui era totalmente assente una certa cultura sportiva, in particolar modo tennistica. Ora che ci penso però, se anche mi avessero detto che le possibilità di farcela erano minime, ci avrei provato ugualmente: il viaggio è stato, ed è tuttora, così entusiasmante che la meta finale passa in secondo piano. Ancora oggi io comunque ho ancora tutto da dimostrare, sono molto giovane e di risultati importanti non ne ho ancora raggiunti, ma il mio più grande traguardo è trovarmi qui a giocare a questo sport che amo tanto, contro ogni probabilità.
Un aspetto di primaria importanza per un paziente oncologico è la possibilità di potersi affidare ad un professionista in cui pone fiducia. Se fra medico e paziente si instaura un legame positivo, chi riceve le cure riuscirà ad affidarsi con maggiore serenità. Per uno sportivo, e per te in particolare, quanto è importante lavorare con una persona con cui si avverte una particolare sintonia e nella quale si nutre la più totale fiducia, a prescindere dalla carriera che la persona in questione può avere alle spalle?
È fondamentale. Se guardo alla mia vita, a dove ho iniziato, sono convinta che se anche a Licata ci fosse stato il miglior allenatore d’Italia non sarebbe riuscito a fare il lavoro eccezionale che ha fatto Gianluca, il mio primo maestro. Poi certo i numeri sono importanti, e un allenatore che è riuscito a portare molte atlete ad alti livelli ha sicuramente più probabilità di fare un buon lavoro con una sportiva rispetto ad una persona alle primissime esperienze, ma non va dimenticato che esistono molte variabili in gioco quando si parla di un percorso, umano o sportivo che sia; i numerini e le statistiche non riescono a raccontare la complessità della nostra vita, nemmeno sui campi da tennis.
Per una persona che affronta un percorso terapeutico è fondamentale la vicinanza dei propri familiari perché essere sofferenti e sostenuti dal calore delle persone amate è meglio che essere sofferenti e soli. Gli stessi professionisti dell’equipe devono creare le condizioni affinché questa situazione possa verificarsi, in modo particolare quando per esempio un paziente deve spostarsi lontano da casa per ricevere cure in centri specializzati. Tu sei andata via da casa a 13 anni per rincorrere il sogno di diventare una tennista: com’è stato trovarsi, così giovane, lontano dai propri cari e dai luoghi familiari per raggiungere un obiettivo che ti eri prefissata?
La lontananza dai miei cari è stata ed è tuttora una lontananza principalmente fisica, perché sono comunque sempre nei miei pensieri e, grazie al telefono, ci sentiamo molto spesso. Da quando vivo da sola ho scoperto il significato della telepatia, in particolar modo nel rapporto madre-figlia: quante volte mi trovo a pensare alla mia mamma ed improvvisamente mi arriva una telefonata con il suo nome sullo schermo del mio smartphone! Io amo la mia famiglia, i miei amici, il mio paese e la mia Sicilia, ma per trovare la mia realizzazione ho dovuto abbandonare questo nido comodo e amato per raggiungere un obiettivo che ho ben chiaro in testa. Ovviamente il sogno è quello, un giorno, di tornare a casa, ma prima ho un percorso che ho iniziato e che voglio percorrere fino in fondo.
Un tema da cui bisogna imparare a difendersi grazie all’intervento della psiconcologia è relativo al senso di colpa. Questi, inserendosi in una situazione già molto delicata, può rappresentare un fardello insopportabile per il paziente e per i suoi cari. Il senso di colpa agisce su due piani: si genera nel malato, che si sente responsabile di avere trascinato nel suo vortice di sofferenza le persone che gli stanno intorno, e prende vita anche nei familiari, che spesso si sentono inadeguati perché incapaci di strappare un sorriso alla persona sofferente o rappresentare per essa un sollievo. Bisogna lavorarci per riuscire ad arginarlo e, con un obiettivo comune, generare pensieri costruttivi per tutto il nucleo familiare. Ti è mai capitato, a seguito di una sconfitta o di un fallimento sportivo, di sentirti in colpa nei confronti della tua famiglia per via dei sacrifici da loro fatti per sostenerti nel raggiungimento del tuo sogno?
No, un risultato negativo non mi ha mai trasmesso questo tipo di sensazioni. Io resto dell’idea che se hai dato il 100% anche una sconfitta non è solo una sconfitta. Il senso di colpa subentra quelle volte in cui mi accorgo che non sto dando il massimo, perché magari preferisco riposarmi piuttosto che allenarmi e mi lascio vincere dalla pigrizia. Un’altra situazione analoga è quando, per esempio, durante una partita vedo che le cose si stanno mettendo male e, anziché fare di tutto per ribaltare il risultato, mi arrendo alla negatività e allo scoramento. La sconfitta, paradossalmente, prescinde dai risultati ottenuti, perché è tutta nell’atteggiamento con cui affrontiamo le sfide che abbiamo davanti.
Speranza e illusione sono due concetti che è bene distinguere: il primo si fonda su dati reali ed è un ingrediente fondamentale in un percorso di cura, il secondo si basa su dati irreali e può diventare un compagno di strada dannoso per pazienti e familiari. È importante tenersi lontano dalle illusioni, ma coltivando sempre la speranza sulla realtà. La tua crescita tennistica ti sta guidando in tabelloni di tornei internazionali di primo livello, portandoti ad incontrare avversarie più forti di quelle affrontate fino a questo momento. In quale modo vivi la speranza e tieni a bada l’illusione in questo nuovo scatto di carriera?
Nel tennis esiste una classifica mondiale in cui ogni atleta occupa una determinata posizione, per cui spesso viene spontaneo dire frasi come “io sono una 400 al mondo e domani affronterò una 190”: questo atteggiamento spesso può rivelarsi distruttivo perché, se non vissuto con lo spirito giusto, è in grado di metterti nella posizione dello sconfitto ancora prima di iniziare il match. Ogni partita rappresenta un discorso a sé e merita di essere affrontata con animo combattivo perché, specie nel tennis femminile, esistono un sacco di variabili che influenzano la prestazione di un’atleta, e molto spesso i tornei prendono pieghe inaspettate proprio per questo motivo. Di nuovo, come detto in precedenza, i numeri sono tutt’altro che trascurabili, ma non dicono tutto. Se inizio un torneo in cui arrivo dal tabellone di qualificazione dicendo “vincerò questo torneo”, attualmente è un’illusione, perché scavalca la realtà di dover affrontare partite e avversarie che rappresentano per me spunto di crescita e sfida. Ma ogni volta che entro in campo io so di avere, più ancora che speranza, possibilità di vincere la partita. Ecco, questo forse fa la differenza: devo rimanere concentrata sulla sfida, viverla fino in fondo sapendo che è possibile vincerla. L’illusione è mandare la mente troppo in là, senza considerare i passi che, uno alla volta, è necessario compiere. La certezza è che mi devo dare da fare per compierli, passo dopo passo i traguardi poi arrivano.