Atleti al tuo fianco: Daniele Cavaliero

La lotta al cancro e il mondo dello sport si incontrano nel progetto Atleti al tuo fianco, con l’obiettivo di raccontare la quotidianità di chi affronta un tumore e di far sentire loro la vicinanza degli sportivi professionisti. Il progetto è patrocinato da aRenBì Onlus ed è curato dal dott. Alberto Tagliapietra, medico chirurgo bresciano con diploma d’alta formazione in psico-oncologia. Entra a far parte di questa squadra Daniele Cavaliero, cestista italiano, guardia della Pallacanestro Trieste.

Daniele, in Atleti al tuo fianco la tua carriera cestistica diventa spunto per raccontare alcune sfumature della vita quotidiana mentre si affronta un tumore maligno. La prima domanda ti premette di presentarti al di fuori dal campo da basket: chi è Daniele Cavaliero quando finisce i suoi impegni con la pallacanestro?

Mi chiamo Daniele Cavaliero e giocare a basket è la mia professione. Proprio per questo, devo confessare che gran parte della mia giornata ruota intorno a questo sport, anche per quanto riguarda il tempo dedicato alla preparazione fisica e al riposo. Da qualche tempo ho avuto la possibilità di tornare a giocare alla mia città d’origine, Trieste, e questo ha significato ritrovare gli i familiari e gli affetti di sempre. Oltre al piacere di condividere il tempo con loro, nel tempo libero amo dedicarmi alla lettura e al cinema. Da quest’anno ho iniziato anche a prendere lezioni di pianoforte, coronando un desiderio che nutrivo fin dall’infanzia.

Partiamo proprio dal legame con i propri affetti. Una condizione vissuta da molti pazienti oncologici è la limitazione, completa o parziale, a frequentare i propri affetti per lunghi periodi quando è richiesta una permanenza in strutture specialistiche lontane da casa. Per questo è importante cercare di far sentire la propria vicinanza, attraverso messaggi a distanza, perché l’isolamento forzato porta a pensare di non essere nei pensieri costanti di chi ti vuole bene. Nella tua carriera sportiva hai indossato la maglia di diverse società distribuite lungo lo stivale, per le quali hai contribuito al raggiungimento di importanti risultati. Come hai vissuto la differenza tra la distanza da casa e adesso il ritorno nella tua città, potendo condividere la gioia e la fatica della quotidianità con i tuoi familiari e amici?

L’isolamento provato da un paziente oncologico che si deve allontanare dalla propria casa è senza dubbio qualcosa di molto più potente rispetto a quello sperimentato da ogni sportivo nel momento in cui si deve allontanare dalla propria città per lavoro. Nel mio caso, non essendo sposato e quindi non avendo una famiglia che mi segue nei miei spostamenti, non nascondo che nel tornare a casa la sera, trovandola vuota, ho provato più volte un senso di solitudine. Ho sempre cercato di restare a contatto con le persone a me care tramite frequenti telefonate e video messaggi. Ricordo ancora le lunghe videochiamate fatte con il mio migliore amico ai tempi in cui giocavo a Bologna: facevamo partire la chiamata e poi mangiavamo normalmente, come se ci trovassimo ai due lati dello stesso tavolo! Per quanto riguarda il ritorno a Trieste, posso dire che si è trattato di un’emozione incredibile: ho sempre avuto ben chiaro che questa era la mia casa e qui avrei sempre voluto tornare. Giocare nella mia città mi trasmette un senso di pienezza, di completezza. Quando indosso questa divisa mi rendo conto di non giocare per la carriera, per il contratto, neanche per il prestigio della società, ma unicamente per la mia città e per tutte le persone che fanno il tifo per me fin da quando ero un ragazzino.

Una diagnosi di cancro, oltre al diretto interessato, colpisce anche le numerose persone che lo circondano. Spesso sono proprio quest’ultime che vivono un senso di inadeguatezza a gestire la situazione. È bene ricordarsi che il beneficio dato dalla consolazione, più che dalla compensazione: in pratica, alcune volte è sufficiente esserci, prima ancora che fare qualcosa. Non è richiesto ribaltare la situazione, ma è importante esserci anche nella situazione più difficoltosa. Nella tua carriera sportiva ti è mai capitato di trovarti a consolare un compagno che si era reso specificatamente responsabile del mancato raggiungimento di un obiettivo comune, non tanto compensando il suo errore, quanto restando con lui a viverne le emozioni difficili?

Mi è capitato un sacco di volte, come del resto è capitato anche che fossi io la persona responsabile di un fallimento collettivo. In particolare ricordo un episodio nello specifico, durante i quarti di finale di Coppa Italia, disputati con la maglia dell’Avellino: facemmo una partita splendida ma, proprio negli ultimi minuti di gara, a causa di un errore banale di un mio compagno di squadra, regalammo la vittoria agli avversari. Ho ancora in testa l’immagine di questo omone sconsolato nello spogliatoio il giorno seguente alla sconfitta: era seduto vicino alle docce e pareva inconsolabile. In quel momento ho fatto la sola cosa che mi sentivo di fare: mi sono seduto accanto a lui e sono rimasto lì senza dire una parola, per alcuni minuti, poi l’ho semplicemente abbracciato e l’ho invitato ad alzarsi. In quelle occasioni, in cui nessuna parola sarebbe quella giusta, la nostra silenziosa presenza sa essere un potente balsamo per un’anima ferita.

In psico-oncologia un obiettivo importante è costituito dall’apprendimento della capacità di archiviare i rimpianti e rimorsi legati al passato, al fine di sintonizzarsi completamente sul presente e sulla sfida che si è chiamati ad affrontare. Colpevolizzarsi per comportamenti passati non aiuta né a guarire né a vivere meglio: per questo è importante metterseli alle spalle per concentrarsi sul presente. Anche nel basket una dimensione importante è la concentrazione sull’attimo presente, senza che gli errori commessi pochi minuti prima possano influire sui tiri successivi. Da cestista, come vivi questa dimensione del tuo mestiere?

Sicuramente il concetto del “qui e ora” è fondamentale anche nello sport. Il basket, come del resto la vita, è un susseguirsi di errori, tant’è che non vince mai la squadra che gioca perfettamente o che non fa errori, ma semplicemente quella che ne fa di meno. Sapendo dunque che un errore arriverà, essere preparato ad archiviarlo velocemente per immergersi nella frazione di gioco successiva fa la differenza. Se poi vogliamo fare un discorso più ampio, che esuli dalla semplice reazione emotiva durante il match, possiamo dire che sicuramente un buon livello di questa tranquillità agonistica arriva dalla consapevolezza del lavoro svolto durante l’allenamento, che costituisce una solida base sulla quale i singoli eventi riducono il loro potere d’impatto. L’improvvisazione aumenta il senso di colpevolezza dei tuoi errori: una buona preparazione è fondamentale per sbagliare serenamente.

Ci sono alcune tappe della vita di un malato oncologico in cui il vivere in maniera totalizzante la dimensione del “qui e ora” può rivelarsi addirittura controproducente. In alcuni specifici momenti, come possono essere la vigilia di un’operazione importante o la consegna di una busta contenente gli esiti di un esame, i livelli di ansia e frustrazione possono diventare di difficile gestione. In quei momenti è fondamentale che la persona malata, grazie all’aiuto della psiconcologia, acquisisca la capacità di ampliare la dimensione del suo sguardo, riconoscendo in quello specifico momento una pagina del grande libro della sua vita, che però non si esaurisce assolutamente con quel momento. Da giocatore di basket, a quali stratagemmi ricorri per mantenere la calma e la lucidità in momenti concitati e determinanti di un match?

Quando devo eseguire un tiro in un frangente determinante della gara, la tecnica che prediligo è l’immaginazione, non appena ricevo la palla in mano, della palla che entra nel canestro: sembra banale, ma questo è in grado di trasmettermi una sensazione positiva che mi pone nella condizione di dare il meglio di me. Passo poi in rassegna tutte le migliaia di volte in cui ho eseguito lo stesso tiro in allenamento e mentalmente mi ripeto. “l’hai già fatto migliaia di volte, sei capace a farlo, questa volta non è diverso!”. Questo mio dialogo interiore aumenta la fiducia in me stesso e ciò si rivela determinante in una fase di gioco in cui la preparazione mentale domina su quella fisica. Come ultima cosa devo dire che un suggerimento, probabilmente un po’ stupido ma che mi viene sempre in aiuto, è pensare a qualcosa che sia in grado di strappare un sorriso: io per esempio mi ripeto una frase in dialetto campano imparata da un amico negli anni in cui giocavo nell’Avellino. In quel modo, se sono sulla lunetta per un libero decisivo, in qualche modo estrapolo il gesto dalla tensione che potrebbe attanagliarlo. Un sorriso, indipendentemente dalla causa che l’ha scaturito, ci ricolloca nella giusta attitudine attraverso un atteggiamento più positivo nei confronti della situazione che ci apprestiamo ad affrontare: provare per credere.

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